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La trappola degli infortuni banali
Per far conoscere il modello di sistema di gestione della sicurezza (SGS) per le Aziende Sanitarie, elaborato e applicato nelle aziende sanitarie venete, è nato il sito " Tutelare la salute dei lavoratori delle Aziende Sanitarie”.
Presentiamo oggi un documento tratto dal sito e a cura di Attilio Pagano che affronta il tema della distrazione come causa di infortuni.
La distrazione come spiegazione che non spiega
Le strutture sanitarie sono luoghi di lavoro particolari, ma non così tanto particolari da non condividere con altre organizzazioni alcune caratteristiche rilevanti per la prevenzione. Una di queste caratteristiche è che tra gli infortuni, per frequenza, prevalgono quelli che spesso vengono definiti “banali”, ma che, in effetti, banali non sono. Un esempio tipico di questi infortuni è la caduta in piano per inciampo e scivolamento.
Un motivo per comprendere la definizione di “banali” affibbiata a questi incidenti sta nell’erronea credenza che ci sia necessariamente una simmetria tra intensità delle cause e intensità degli effetti. A un esame più approfondito, invece, si rileva che anche una perturbazione lieve può dare luogo a un grave effetto negativo. Definire banali gli infortuni che comportano danni limitati e reversibili (a esempio, una ecchimosi o una distorsione) induce a trascurare la possibilità che le stesse fondamentali condizioni causali potrebbero avere esiti più gravi (anche molto più gravi) per l’intervento di un diverso fattore casuale. È, questo, il tema del proverbiale battito d’ali di una farfalla che può essere tra gli antecedenti di un uragano.
Un altro motivo per cui gli eventi di questo tipo possono, superficialmente, venire etichettati come banali è che appaiono slegati dai pericoli distintivi dell’ambiente socio tecnico in cui hanno luogo e si tende a riconoscerli come eventi possibili anche nella vita di tutti i giorni.
In fin dei conti, si potrebbe pensare, camminare è sempre camminare e, di conseguenza, inciampare o scivolare sono sempre riconducibili alla stessa causa: la distrazione dell’operatore. Questa conclusione è molto deludente per motivi teorici (la distrazione come causa necessaria e sufficiente non è sempre la conclusione di una buna argomentazione e analisi degli eventi) e per motivi pragmatici (fermarsi alla distrazione restringe e impoverisce la gamma delle strategie di prevenzione).
Attribuire alla distrazione un significato causale dell’inciampo e dello scivolamento è insoddisfacente perché induce a trascurare le condizioni in cui avviene la prestazione del camminare. La distrazione non avviene in un ‘vuoto pneumatico’, ma è un correlato del rapporto che lega sistematicamente soggetto, attività e contesto.
Definire la distrazione come causa dell’errore nella prestazione del camminare corrisponde a quanto dice il bacelliere per compiacere il dottore anziano nel finale del Malato immaginario di Moliere. Il dottore chiede “Perché l’oppio fa dormire?” E il bacelliere risponde “Perché contiene un principio dormitivo”. Un bell’esempio letterario di spiegazione che non spiega niente. Passando dall’esempio letterario alla dimensione psicomotoria e psicologica di eventi di questo tipo, è utile non accontentarsi di una spiegazione come la generica distrazione che non rende conto delle condizioni all’origine della distrazione stessa. A esempio, i fattori processuali e le interfacce che possono favorire dimenticanze o confusioni. O, ancora, le interferenze con altri compiti o altri oggetti di attenzione.
Spiegazioni più ricche e dense di indicazioni contestuali risultano anche più utili per la prevenzione.
La distrazione come strategia di prevenzione che non previene
La distrazione, oltre a essere una spiegazione apparente, è anche fonte di strategie di prevenzione povere e inefficaci.
Esortare a stare attenti nello svolgimento di una prestazione che è normale svolgere in modo automatico è vano, inutile. Nessuno può mantenersi attento alla prestazione quando questa è già stata svolta così tante volte da risultare una prestazione iper-appresa e, per questo motivo, eseguibile anche senza la fatica del controllo.
Certamente, la consapevolezza della pericolosità intrinseca e/o della elevata probabilità di errore motivano a mantenere elevata l’attenzione al compito. Ma, anche in questi casi, è osservabile come, spontaneamente, le persone sanno separare, nel quadro globale di una attività complessa, le fasi che comportano sotto-attività (mentali e motorie) distintive di una prestazione particolarmente delicata (il compito principale) da quelle fasi e sotto-attività che invece sono presenti anche in altre attività non così delicate (i compiti accessori). A esempio, in una attività delicata come l’esecuzione di una analisi endoscopica o di un trattamento antitumorale chemioterapico, si può ragionevolmente ritenere che gli operatori sappiano riconoscere le fasi in cui un errore di distrazione può essere facilmente associato a un danno grave o, persino, irrimediabile. In queste fasi, lo sforzo di attenzione potrà essere mantenuto anche se quelle stesse attività sono state eseguite in precedenza numerose volte. Ma nessun attività può essere composta soltanto da sotto-attività distintive e particolari. A fianco di un compito principale, inevitabilmente, ci sono anche sotto-attività che possono essere presenti in attività non altrettanto critiche.
Proprio nello svolgimento di queste sotto-attività può manifestarsi il fisiologico calo dell’attenzione e, di conseguenza, lo spazio per la distrazione e i suoi errori o incidenti. Prendere un oggetto o lasciarlo, piegarsi e sedersi o alzarsi, ruotare sul posto o camminare sono sotto-attività che, anche se fanno parte di una prestazione lavorativa giudicabile nel suo specialismo come critica, non possono essere oggetto di continui attenzione e controllo volontario.
L’attenzione non è soltanto una risorsa limitata. Essa tende anche a rallentare, impacciare prestazioni mentali e motorie che è più vantaggioso che scorrano con la fluidità dell’esercizio basato sull’iper-apprendimento. Questo vantaggio, però, può celare delle insidie.
Al variare delle condizioni tipiche e ripetitive che avevano accompagnato l’esercizio delle prestazioni ora iper-apprese, può rendersi necessario recuperarne un controllo attentivo.
L’attenzione diventa quindi una risorsa per le strategie di prevenzione se gli operatori imparano a usare categorie osservative del contesto. Mentre, per l’esecuzione di attività accessorie come il camminare, non è produttivo chiedere di stare attenti a quel che si fa, per quelle stesse attività accessorie, può essere opportuno chiedere di stare attenti alle variazioni del contesto (l’ambiente, le strutture tecniche e i materiali, le interazioni sociali). Mentre la prevenzione basata su una esortazione a stare attenti a quel che si fa mostra i suoi limiti, quella basata sulla consapevolezza dei fattori del contesto operativo suscettibili di variazioni può consentire strategie più efficaci, perché in grado di agire su aspetti modificabili.
Attilio Pagano
Fonte: sgssanita.it
Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.
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