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La massima sicurezza tecnologicamente attuabile
Su cosa sia da considerare per “massima sicurezza tecnologicamente attuabile” (da intendersi come sicurezza tecnica, organizzativa e procedurale), era intervenuta nel 1996 la pronuncia “compositiva” della Corte Costituzionale. (C. Cost. 25 luglio 1996, n. 312)
Tale pronuncia, nel rigettare la fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 41, c.1 del D.Lgs. 277/91 [1] rilevava come “Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo [ricorrente -ndr] rileva, in primo luogo, che la disposizione censurata appare ispirata al cosiddetto principio della massima sicurezza, … Risulterebbe quindi evidente, ad avviso del giudice a quo, come l'art. 41, comma 1, sia in contrasto con il principio di determinatezza della legge penale, ...”
Decideva poi che la “valutazione, che il legislatore italiano, nell'attuare la corrispondente direttiva comunitaria, ha inequivocamente compiuto, non può essere contrastata da questa Corte. La cogenza dei valori espressi dall'art. 41 della Costituzione -secondo il quale l'iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana- è certamente tale da giustificare una valutazione negativa, da parte del legislatore, dei comportamenti dell'imprenditore che, per imprudenza, negligenza o imperizia, non si adoperi, anche al di là degli obblighi specificamente sanzionati, per ridurre l'esposizione al rischio dei propri dipendenti.
Per questa ragione, l'eliminazione dell'art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 277 del 1991 dal nostro ordinamento, sollecitata dal giudice a quo, comporterebbe anche l'eliminazione del generale dovere di protezione che esso pone a carico del datore di lavoro e segnerebbe così un arretramento, e non un avanzamento, sul piano della concretizzazione dei principî costituzionali.”
Decideva inoltre (certo con carattere generale -come irradiazione-, piuttosto che relativo al solo rischio rumore) che:
“l'art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 277 del 1991 allarga notevolmente lo spettro dei comportamenti rilevanti e li investe con norma penale di scopo, che fa riferimento non più solo ai provvedimenti suggeriti dalla tecnica -- come l'art. 24 del d.P.R. n. 303 del 1956 -- ma anche alle misure organizzative e procedurali concretamente attuabili.
..La sola via per rendere indenne l'art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 277 del 1991 dalla denunciata violazione dell'art. 25 della Costituzione è, allora, quella di fornirne, in sede applicativa, una lettura tale da restringere, in maniera considerevole, la discrezionalità dell'interprete. Tutto ciò nella consapevolezza che, attesa la scelta del legislatore di sanzionare penalmente il generale dovere di protezione della sicurezza dei lavoratori, che trova nell'art. 41 della Costituzione il suo fondamento, il principio di determinatezza incide sulla fattispecie penale, di necessità, in maniera peculiare.
.. E il modo per restringere, nel caso in esame, la discrezionalità dell'interprete è ritenere che, là dove parla di misure "concretamente attuabili", il legislatore si riferisca alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive. Ed è in questa direzione che dovrà, di volta in volta, essere indirizzato l'accertamento del giudice: ...”
Che la pronuncia avesse carattere “compositivo” sembra avvertirsi con qualche chiarezza nelle conclusioni:
“L'art. 41 della Costituzione e il pregnante dovere, che da esso è desumibile, di protezione dei lavoratori, potrebbe, è vero, pretendere dall'imprenditore assai di più e giustificare una raffigurazione legislativa che assegni all'impresa il compito di realizzare innovazioni finalizzate alla sicurezza, nella quale il ruolo di impulso fosse assegnato al giudice civile ed alla pubblica amministrazione.
Ma la scelta di sanzionare penalmente, con una norma generale e onnicomprensiva, tutte le fattispecie in cui l'imprenditore si sottragga a questo ruolo, ha di necessità il suo contrappeso costituzionale, che è dato dall'esigenza di restringere, in una interpretazione costituzionalmente vincolata, le potenzialità della disposizione, per non vanificare il canone di determinatezza della fattispecie penale.”.
Questa decisione sembrò, ad alcuno, comprimere la portata generale dell'art. 2087c.c. accostandosi, piuttosto, al principio applicato nei paesi anglosassoni della “massima sicurezza ragionevolmente praticabile”.
In realtà la 'critica roditrice' ad ogni tentazione in tal senso venne svolta, successivamente: dalla metabolizzazione della direttiva quadro 89/391/CEE e dalla giurisprudenza di legittimità successiva alla pronuncia medesima.
Si veda al proposito la sentenza -ancora nel 2008 [2] - della Corte di Cassazione che riprende il principio di diritto enunciato dalla stessa Corte nel 1994 (Cass. Pen. Sez. IV, del 29 aprile 1994, n. 10164 – imp. Kuster):
“..il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza.”
Oggi sembra affermato, nella giurisprudenza di legittimità, una sorta di tertium genus a temperamento tra i diversi principi della “ massima sicurezza tecnologicamente attuabile” e della “massima sicurezza ragionevolmente praticabile”.
Ne è esempio -seguendo l'intento 'compositivo' della Corte Costituzionale- una recente sentenza della Cassazione penale. ( Sez, IV, 27 gennaio 2016, n. 3616)
In questa, i giudici di legittimità, pur rigettando il ricorso, riconoscono come apprezzabile la censura del ricorrente DdL:
“Il ricorrente richiama la sentenza di questa sezione n. 41944 del 19.10.2006, con riferimento alla massima sicurezza tecnologica esigibile dal datore di lavoro. L'esatta applicazione delle prescrizione tecniche non esimerebbe il datore di lavoro da responsabilità laddove l'evoluzione tecnologica le abbia di fatto superate.
…Il concetto di massima sicurezza tecnologica [secondo il ricorrente], andrebbe inteso, nella pratica, in massima sicurezza tecnologicamente fattibile, in virtù del principio della reasonable practicability e dei principi di tassatività e determinatezza della legge penale.
Altrimenti l'obbligo a carico del datore di lavoro, nella predisposizione delle misure di prevenzione e nel successivo aggiornamento delle stesse, sarebbe impossibile da assolvere, con il rischio di non poter mai sapere di aver assolto gli obblighi normativi di sicurezza, in quanto in concreto potrebbero esservi delle misure cautelari sconosciute al datore di lavoro, ma attivabili in base al progresso tecnico.”
La Corte così risponde:
“... A proposito di "massima sicurezza tecnologica" esigibile dal datore di lavoro, tuttavia, il Collegio ritiene che, se è vero che questa Corte ha anche affermato che, in materia di infortuni sul lavoro, è onere dell'imprenditore adottare nell'impresa (nella fattispecie: nel cantiere edile) tutti i più moderni strumenti che offre la tecnologia per garantire la sicurezza dei lavoratori… il principio de quo vada letto alla luce di quello meglio precisato dalla già citata sentenza 41944/2006, Laguzzi, secondo cui, qualora la ricerca e lo sviluppo delle conoscenze portino alla individuazione di tecnologie più idonee a garantire la sicurezza, non è possibile pretendere che l'imprenditore proceda ad un'immediata sostituzione delle tecniche precedentemente adottate con quelle più recenti e innovative, dovendosi pur sempre procedere ad una complessiva valutazione sui tempi, modalità e costi dell'innovazione, purché, ovviamente, i sistemi già adottati siano comunque idonei a garantire un livello elevato di sicurezza.”
La richiamata sentenza n. 41944, del 19 ottobre 2006, si era espressa nei seguenti termini:
“E' evidente come non sia possibile pretendere - in ogni caso in cui la ricerca e lo sviluppo delle conoscenze portino alla individuazione di tecnologie più idonee a garantire la sicurezza - che l'imprenditore proceda ad un'immediata sostituzione delle tecniche precedentemente adottate con quelle più recenti e innovative dovendosi procedere ad una complessiva valutazione sui tempi, modalità e costi dell'innovazione.
A fronte di una condotta comunque positiva dell'imprenditore di adeguarsi alle nuove tecnologie - e purchè i sistemi adottati siano comunque idonei a garantire un livello elevato di sicurezza - le scelte imprenditoriali divengono insindacabili.
Questa Corte condivide quindi le osservazioni recentemente formulate, dallo studioso italiano che ha maggiormente approfondito i temi della colpa, secondo cui <non è pensabile che un'impresa rinnovi continuamente le proprie tecnologie, perché è senz'altro necessario stare al passo con i tempi, ma ciò non può significare buttare all'aria investimenti per ammodernamenti tecnologici, rincorrendo incessantemente le novità tecnologiche. In teoria, si innalzerebbe il livello di sicurezza; in pratica, si condurrebbe l'azienda sull'orlo del fallimento>.
...fermi restando i principi già enunciati sugli obblighi dell'imprenditore nel caso di innovazioni tecnologiche idonee ad assicurare un maggior livello di sicurezza, su un punto non possono esservi dubbi: qualora l'imprenditore disponga di più sistemi di prevenzione di eventi dannosi è tenuto ad adottare (salvo il caso di impossibilità che in questo caso nessuno afferma) quello idoneo a garantire un maggior livello di sicurezza. A questo principio non è possibile derogare soprattutto nei casi in cui i beni da tutelare siano costituiti dalla vita e dall'integrità fisica delle persone (una valutazione comparativa tra costi e benefici sarebbe ammissibile solo nel caso in cui i beni da tutelare fossero esclusivamente di natura materiale).”
Questa esigenza di temperamento del principio di “ massima sicurezza tecnologicamente attuabile” ben sembra corrispondere al dettato dell'art. 41 Cost., sia nella parte in cui esso stabilisce la libertà dell'iniziativa imprenditoriale, sia nella parte in cui la condiziona al rispetto dell'utilità sociale e della sicurezza, libertà e dignità umane.
Usando le parole della citata sentenza 41944/2006 “A fronte di una condotta comunque positiva dell'imprenditore di adeguarsi alle nuove tecnologie -e purché i sistemi adottati siano comunque idonei a garantire un livello elevato di sicurezza- le scelte imprenditoriali divengono insindacabili.”
Va però considerato che il principio della MSTF, nel nostro ordinamento, “attinge” (anche) dalla <norma in bianco> dell'art. 2087 c.c., ossia dalla constatazione dell'inevitabile obsolescersi delle tecnologie, del modificarsi delle organizzazioni produttive e dell'impossibilità, da parte della stessa disciplina speciale, di prevedere ogni fattore di rischio [3].
La storicità universale di tale constatazione è peraltro dimostrata dal suo recepimento nella direttiva madre dell'89 in materia di SSL.
Infatti il 14° 'considerando' della direttiva 89/391/CEE stabilisce che “i datori di lavoro sono tenuti a informarsi circa i progressi tecnici e le conoscenze scientifiche in materia di concezione dei posti di lavoro, tenendo conto dei rischi inerenti alla loro impresa,.. in modo da garantire un migliore livello di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori;”.
E l'art. 4 della stessa stabilisce che
“1. Gli stati membri adottano le disposizioni necessarie per garantire che i datori di lavoro.. siano sottoposti alle disposizioni giuridiche necessarie per l'attuazione della presente direttiva.”
Inoltre il 10° 'considerando' afferma che “ misure preventive debbono essere adottate o migliorate senza indugio per preservare la sicurezza e la salute dei lavoratori in modo da assicurare un miglior livello di protezione”. Senza che ciò debba dipendere da considerazioni di carattere puramente economico (13° 'considerando').
Tale principio era già stato aggredito (con decisione a mio avviso “politica”, pur nell'infelice avventurarsi della Commissione CE nel campo della <responsabilità oggettiva> per il datore di lavoro) dalla sentenza della Corte di Giustizia europea del 2007 [4], nella causa che contrapponeva la Commissione al Regno Unito.
Il contenzioso viene qui sufficientemente richiamato:
La Commissione delle Comunità europee chiedeva alla Corte “di constatare che, avendo circoscritto l'obbligo dei datori di lavoro di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro ad un obbligo di adempiere <nei limiti di quanto ragionevolmente praticabile>, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti ai sensi dell'art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva del Consiglio 12 giugno 1989, 89/391/CEE..”
Articolo 5
Disposizioni generali
1. Il datore di lavoro è obbligato a garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro.
4. La presente direttiva non esclude la facoltà degli Stati membri di prevedere l'esclusione o la diminuzione della responsabilità dei datori di lavoro per fatti dovuti a circostanze a loro estranee, eccezionali e imprevedibili, o a eventi eccezionali, le conseguenze dei quali sarebbero state comunque inevitabili, malgrado la diligenza osservata.
Il Regno Unito sosteneva:
- che l'inserimento nella normativa interna della clausola controversa <nei limiti di quanto ragionevolmente praticabile> corrispondeva a quanto stabilito nella legge nazionale su SSL: “Ogni datore di lavoro è obbligato a garantire la salute, la sicurezza ed il benessere di tutto il suo personale per quanto ragionevolmente praticabile.” (HSW Act, Sez. 2, n. 1)
- che nella legislazione nazionale tale statuizione era assistita da sanzione penale e che il “datore di lavoro può sottrarsi a questa forma di responsabilità unicamente dimostrando di aver fatto tutto ciò che era ragionevolmente praticabile per evitare l'insorgenza di rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori. A tale scopo, è tenuto a dimostrare che esisteva una manifesta sproporzione tra, da una parte, il rischio per la sicurezza e la salute dei lavoratori e, dall'altra, il sacrificio accettato in termini di costi, tempo o difficoltà che l'adozione delle misure necessarie ad evitare l'insorgenza di detto rischio avrebbe comportato e che quest'ultimo era insignificante rispetto a detto sacrificio.”.
- che la responsabilità civile del datore di lavoro era comunque prevista da una serie di disposizioni dei Management of Health and Safety at Work Regulations e che l'obbligo datoriale al risarcimento di danni causati dalla violazione del dovere di prudenza nei confronti dei lavoratori costituisce un criterio di common law.
- che la clausola controversa, dunque, rispecchiava le disposizioni dell'art. 5 e si conformava completamente al diritto comunitario, pur salvaguardando il criterio di ragionevolezza e/o praticabilità (cd. principio di proporzionalità).
Replicava la Commissione che, così circoscrivendo l'obbligo di sicurezza, il Regno Unito consentiva di eludere la responsabilità che incombe al datore di lavoro, nel caso questi riesca “a dimostrare che l'adozione di misure che garantiscono la sicurezza e la salute dei lavoratori risulterebbe manifestamente sproporzionata in termini di costi, di tempo o di difficoltà qualsiasi, rispetto al rischio effettivo.”
“Secondo la Commissione, la definizione in termini assoluti dell'obbligo di sicurezza del datore di lavoro implica che qualora le misure di prevenzione falliscano quest'ultimo resta comunque oggettivamente responsabile delle conseguenze che ne discendono per la salute dei lavoratori”
Sempre secondo la Commissione, “l'art. 51, c. 1. della direttiva quadro, oltre a definire in termini assoluti l'obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in ogni aspetto connesso con il lavoro, come corollario di tale obbligo sancisce la responsabilità del datore di lavoro per ogni evento lesivo della salute dei lavoratori che si verifica nella sua impresa.
Dal combinato disposto dell'art. 5, nn. 1 e 4, della direttiva quadro la Commissione deduce la natura di detta responsabilità qualificandola come oggettiva.” (Conclusioni dell'Avvocato Generale Paolo Mengozzi, p. 36 e p. 58)
Su questo inciampo della Commissione -che non è stata in grado di distinguere tra responsabilità oggettiva e responsabilità per colpa- le conclusioni dell'Avvocato Generale e della Corte di Giustizia non potranno che condurre al respingimento del ricorso.
Con un aspetto, tuttavia, 'politico' nella pronuncia della Corte invece estraneo alle conclusioni dell'Avvocato Generale. Il quale costruisce un'architettura logico-giuridica di indubbia efficacia agli effetti della richiesta di rigetto; e però “a titolo del tutto subordinato” illustra conclusivamente le ragioni in base alle le quali -“per l' ipotesi in cui la Corte ritenga di interpretare il ricorso come volto a far valere l'illegittimità di detta clausola anche in quanto idonea a limitare la portata dell'obbligazione datoriale di sicurezza enunciata all'art. 5, n. 1, della direttiva quadro,”- il ricorso dovrebbe a suo avviso essere accolto. (p. 134 e p. 141)
Ancora più significativo, ad una lettura in controluce, il p. 18: “Occorre a questo punto rilevare che la trasposizione della direttiva 89/391 ha dato origine, in diritto britannico, a limitati interventi normativi, e ciò sia in quanto il sistema esistente è stato considerato, nelle sue grandi linee, conforme alle prescrizioni di quest'ultima, sia per effetto della volontà politica espressa dal governo conservatore dell'epoca di limitare al minimo l'impatto della direttiva -e più in generale degli interventi comunitari in materia di politica sociale- sull'ordinamento interno.”
A ciò si aggiunga il dato -reale- che l'ordinamento giuridico di common law è rigidamente gerarchizzato (sul cd. 'principio del precedente') e la legge scritta ricopre un ruolo secondario nel sistema delle fonti.
La decisione della Corte di Giustizia non ha comunque avuto decisive ripercussioni nel nostro ordinamento. Rimasto saldamente ancorato, nel necessario recepimento della normativa europea, ai principi costituzionali e al precetto generale di cui all'art. 2087 c.c.
Grandemente meritevole appare, in questo spettro, l'azione della magistratura. Verrebbe da dire -specie per la sua autorevolezza e risonanza: soprattutto quella di legittimità. Non fosse che, nella stragrande maggioranza dei casi, essa agisce a conferma delle sentenze dei giudici del merito (ai quali dunque è giusto che il merito vada riconosciuto).
A conclusione di queste note, certo brevi e discontinue, resta da considerare che la formulazione dell'art. 41, c. 1, del Dlgs. 277/91 verrà letteralmente ripresa, tra le “Misure generali di tutela” nell'art. 3, c. 1, lett. b), del Dlgs. 626/94, ed ora nell'art. 15, c. 1, lett. c), del Dlgs. 81/08:
1. Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono:
c) l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico;
Da notare che il principio della massima sicurezza tecnologicamente attuabile viene espressamente richiamato anche dagli artt. 2 (Definizioni), c. 1, lett. n), e 29 (Modalità di effettuazione della valutazione dei rischi), c. 3:
n) «prevenzione»: il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno;
3. La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate.
Pietro Ferrari
Commissione salute e sicurezza sul lavoro - Filcams-Brescia
[1] DECRETO LEGISLATIVO 15 agosto 1991, n. 277 “Attuazione delle direttive n. 80/1107/CEE, n. 82/605/CEE, n. 83/477/CEE, n. 86/188/CEE e n. 88/642/CEE, in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a norma dell'art. 7 della legge 30 luglio 1990, n. 212”
Art. 41.
Misure tecniche, organizzative, procedurali
1. Il datore di lavoro riduce al minimo, in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti dall'esposizione al rumore mediante misure tecniche, organizzative e procedurali, concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte.
che, là dove parla di misure "concretamente attuabili", il legislatore si riferisca alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni
tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive. Ed è in questa direzione che dovrà, di volta in volta, essere indirizzato l'accertamento del giudice: ...”
[2] Cassazione Penale, Sez. 4, 8 febbraio 2008, n. 6280
[3] “l’art. 2087 codice civile è norma di chiusura del sistema costruito con tecnica normativa aperta volta a supplire alle lacune della disciplina speciale che non può prevedere ogni fattore di rischio. La norma ha una funzione precettiva immediata e cogente, costitutiva dell’obbligo di protezione cioè di attuale applicazione delle misure di sicurezza esistenti, ovvero già rinvenibili ed esigibili secondo un parametro di adeguatezza sociale.”
[4] Corte di Giustizia – Terza Sezione, 14 giugno 2007 causa C-127/05 Commissione/Regno Unito
Il Regno Unito sosteneva:
- che l'inserimento nella normativa interna della clausola controversa <nei limiti di quanto ragionevolmente praticabile> corrispondeva a quanto stabilito nella legge nazionale su SSL: “Ogni datore di lavoro è obbligato a garantire la salute, la sicurezza ed il benessere di tutto il suo personale per quanto ragionevolmente praticabile.” (HSW Act, Sez. 2, n. 1)
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