Sull’omessa valutazione dei rischi relativi all’utilizzo del banco sega
Ed è evidente, dunque, che per chi lavora al banco sega sia necessaria non solo un’adeguata valutazione dei rischi, ma anche l’adozione di idonee misure di prevenzione e protezione.
La sentenza n. 54998 del 07 dicembre 2017
Tuttavia ci soffermiamo oggi proprio su una recente sentenza della Corte di Cassazione, la sentenza n. 54998 del 07 dicembre 2017, relativa ad un ricorso per infortunio e omessa valutazione del rischio derivante dall'uso del macchinario del banco sega.
Ricordiamo anche che come PuntoSicuro ci siamo già soffermati in passato sui ricorsi e sulle responsabilità per eventi infortunistici correlati al taglio del legno con la presentazione della Sentenza della Corte di Cassazione n. 34299 del 6 agosto 2015.Una sentenza che sottolineava, tra l’altro, anche la posizione di garanzia assunta dal capocantiere che impartisce ordini ai lavoratori per lo svolgimento delle attività.
Veniamo tuttavia alla recente sentenza n. 54998.
Nella pronuncia della Cassazione si indica che la Corte di Appello di Ancona, con sentenza il 25 gennaio 2015 e depositata l’8 febbraio 2016, ha confermato una sentenza di condanna alla multa di euro 300 nei confronti di S.D.
Infatti all'imputata, quale legale rappresentante della XXX xxxx s.r.l., “si contesta la violazione degli arti. 590, comma 3, cod. pen., e 25 septies del d.lgs. n.231 del 2001 per aver cagionato la ferita da cui derivava una malattia superiore a 40 giorni al lavoratore dipendente, per colpa consistita nell'omessa valutazione del rischio derivante dall'utilizzazione del macchinario del banco sega”.
E contro tale sentenza l’imputata ha proposto ricorso per cassazione in data 29 marzo 2017.
Questi i motivi del ricorso:
- con “il primo motivo ex art. 606 lett e cod.proc.pen. si è dedotta la mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione e la violazione dei criteri legali di valutazione della prova liberatoria, trascrivendo i motivi dell'atto di appello indicanti le pagine del POS di cantiere aventi ad oggetto la previsione del rischio specifico in esame”;
- “con il secondo motivo ex art. 606 lett b si è dedotta l'inosservanza degli artt. 521 e 522 cod.proc.pen., riferendosi la condanna a condotte omissive diverse da quella contestata nel capo di imputazione e, cioè, all'omessa vigilanza sull'adozione, da parte del lavoratore, delle misure cautelari”;
- “con il terzo motivo ex art. 606 lett e cod.proc.pen. si è dedotta la mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione sulla colpa del datore di lavoro per l'omessa vigilanza”;
- “con il quarto motivo ex art. 606 lett b si è dedotta l'inosservanza e la mancata applicazione degli art. 40,41,43 e 590 cod.pen., esistendo nel caso di specie i presidi di sicurezza funzionali a scongiurare l'evento lesivo e ricorrendo una condotta abnorme del lavoratore”.
Le risposte della Corte di Cassazione
Si indica, innanzitutto, che “il primo motivo non merita accoglimento”: occorre osservare che “dalla trama motivazionale del provvedimento impugnato emerge che la responsabilità penale del datore di lavoro si fonda non solo sull'omessa valutazione del rischio specifico relativo alla macchina operatrice, ma anche sull'omesso controllo del rispetto, da parte dei lavoratori, delle cautele adottate. Quest'ultima argomentazione è da sola sufficiente a giustificare la condanna, sicché la prima censura limitata solo ad una parte della motivazione risulta inidonea a condurre all'annullamento del provvedimento e conseguentemente inammissibile”.
Anche il secondo motivo è infondato.
Infatti “dalla formulazione del capo di imputazione si evince chiaramente che il mancato inserimento del rischio nel p.o.s. è solo uno degli elementi di fatto contestati, essendo descritta una condotta di tipo più ampio, consistente nella violazione dell'art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008, ai sensi del quale il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché il posto di lavoro e la posizione dei lavoratori durante l’uso delle attrezzature presentino requisiti di sicurezza e rispondano ai principi dell’ergonomia”.
E a ciò si aggiunge che, in tema di reati colposi, “non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014, ud., dep. 19/08/2014, rv. 260161 che riguarda fattispecie in cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l’omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori)”.
Veniamo al terzo motivo. Neanche questo può essere accolto, in quanto “la motivazione sulla carente vigilanza del datore di lavoro non presenta alcuna manifesta illogicità o contraddittorietà e va letta in modo autonomo ed indipendente rispetto agli ulteriori passaggi riguardanti l'informazione fornita al lavoratore sul rischio specifico connesso alla macchina utilizzata. La motivazione del giudice di merito è, peraltro, del tutto coerente con l'orientamento giurisprudenziale secondo cui, in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro deve non solo predisporre le idonee misure di sicurezza ed impartire le direttive da seguire a tale scopo ma anche e soprattutto controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di trascurarle (Sez. 4, n. 34747 del 17/05/2012 ud., dep. 11/09/2012, rv. 253513)”.
Infine anche il quarto motivo viene rigettato “non ravvisandosi alcuna violazione di legge nel provvedimento della Corte di Appello di Ancona, anche alla luce del consolidato orientamento secondo cui i datori di lavoro ed i preposti sono sempre tenuti a proteggere l’incolumità dei lavoratori dipendenti anche nei confronti di atti di imprudenza che essi possano compiere nello svolgimento del loro lavoro: va esclusa la loro responsabilità in tutto o in parte, solo nel caso in cui il lavoratore medesimo ponga in essere una condotta imprevedibile, esorbitante dal procedimento di lavoro ed incompatibile con il sistema di lavorazione, cioè in qualche modo abnorme. (Sez. 4, n. 2719 del 16/12/1983 ud., dep. 22/03/1984, rv. 163318)”.
In definitiva la decisione – continua la Cassazione - è in linea, in punto di diritto, “con la giurisprudenza costante di questa Corte secondo la quale il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l’adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'articolo 2087 del codice civile, in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'articolo 40, comma 2, c.p. (v., tra le tante, di recente, Sezione IV, 28 febbraio 2013, Mancuso ed altro, rv. 257694)”.
E dunque in conclusione “il ricorso va rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento”.
Tiziano Menduto
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