Cassazione Penale: la mancata formazione è un reato permanente
Una sentenza di questo mese (Cassazione Penale, Sez.III, 14 giugno 2019 n.26271) fornisce l’occasione per fare il punto sul concetto di “reato permanente” in relazione ai reati di salute e sicurezza e sugli effetti concreti che il “protrarsi della condotta antigiuridica”, cioè la permanenza del reato, esplica in termini di responsabilità penali.
In questa sentenza troviamo un esempio chiarificatore (cui nel prosieguo se ne aggiungeranno altri) di applicazione della nozione di “permanenza” ai reati legati alla violazione del D.Lgs.81/08 (nella fattispecie, in materia di formazione e informazione), collegata al fatto che gli obblighi contenuti nella normativa prevenzionistica sono per lo più obblighi “di durata”.
Cosa si intende per “reato permanente” e come questo concetto si applica agli obblighi di salute e sicurezza
La Cassazione Penale precisa che “gli obblighi inerenti l’informazione e la formazione del lavoratore sono da ritenersi di durata poiché il pericolo per l’incolumità del lavoratore permane nel tempo, e continua in capo al datore di lavoro l’obbligo all’informazione e alla corretta formazione.”
Facciamo un esempio per inquadrare il concetto di reato permanente in relazione agli obblighi prevenzionistici.
Se un lavoratore non viene formato o non riceve l’addestramento obbligatorio o i necessari DPI o la vigilanza sul suo operato (etc…), la situazione antigiuridica e, quindi propriamente il reato commesso dal soggetto su cui grava il corrispondente obbligo, permane e si protrae per tutto il tempo (giorni, settimane, mesi, anni..) in cui perdura il mancato adempimento, a partire dalla data nella quale era scattato tale obbligo (data di adibizione del lavoratore alla mansione? data di entrata in vigore di un nuovo obbligo? Data in cui è avvenuto un cambiamento organizzativo/tecnologico? etc… etc...) e fino a quando tale condizione non cessa, nei termini che vedremo.
E’ intuibile il fatto che la configurazione di un reato come reato “di durata” (perché a monte vi è un obbligo che persiste nel tempo e non cessa solo per il fatto che viene trascurato o ignorato in virtù di un’inerzia o di altre considerazioni che portano il detentore dell’obbligo stesso a rimandarne la sua attuazione nel tempo) non possa non avere effetti giuridici importanti in termini di responsabilità (effetti che, nei loro tratti essenziali, saranno più avanti analizzati nello specifico).
Per una prima conclusione su questo punto, dunque, come precisato da un’altra pronuncia più risalente della Suprema Corte (Cassazione Penale, Sez.III, 14 dicembre 2011 n.46340), “per giurisprudenza pacifica di questa Corte, invero, le violazioni della normativa in materia di prevenzione degli infortuni e di igiene nei luoghi di lavoro hanno natura di reato permanente e la situazione antigiuridica si protrae e persiste fino a quando il responsabile non ha provveduto ad adottare le prescritte misure cautelari, ovvero, in difetto, fino a quando il giudice non si sarà pronunciato con sentenza di condanna anche se non passata in giudicato (cfr. ex multis Cass. sez.3, 2.7.1994 n.7530; Cass.sez.3, 11.1.1999 n.215; Cass. sez.3 n.21808 del 18.4.2007).”
Ora soffermiamoci sulle principali conseguenze in concreto.
L’omessa formazione quale reato permanente nella sentenza di questo mese: quali le conseguenze pratiche? E quando cessa la permanenza?
Applicando tali principi al reato di mancata formazione, la Cassazione nella sentenza di questo mese qui in commento specifica che “l’obbligo di formazione del resto non è limitato solo al momento dell’assunzione ma perdura nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro; la cessazione della permanenza conseguentemente si verifica o alla concreta formazione o all’interruzione del rapporto di lavoro (eliminazione concreta del rischio).”
Ciò detto, vediamo quali siano stati gli effetti concreti che ha esplicato questo tipo di qualificazione (di reato permanente) nel caso oggetto della sentenza che stiamo analizzando.
Nella fattispecie, i reati (di omessa formazione e informazione) erano stati accertati il 2 aprile 2013. Nel giugno del 2018 il Tribunale aveva condannato il datore di lavoro.
Questi aveva successivamente ricorso contestando il fatto che il Giudice non avesse dichiarato di non doversi procedere per estinzione dei reati per prescrizione poiché, secondo l’argomentazione del ricorrente, “il lavoratore S.R. al quale dovevano essere impartite le istruzioni per la sicurezza sul lavoro non aveva mai ripreso il servizio dopo l’infortunio, con cessazione dell’attività al 10 aprile 2015.”
La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso, in quanto “il lavoratore infortunato, S.R., non aveva mai ricevuto formazione specifica sui rischi per gli infortuni sul lavoro.”
Infatti “mentre per il P.O.S. e per la scala il datore di lavoro immediatamente ottemperava, predisponendo il P.O.S. e sostituendo la scala con un idoneo ponteggio, con la cessazione della permanenza del reati; per la formazione del lavoratore, invece, niente era stato effettuato.”
Riguardo all’obbligo di formazione, in particolare, “il datore di lavoro aveva ottenuto delle proroghe fino al 10 aprile 2015; conseguentemente come evidenziato dalla sentenza impugnata la cessazione della permanenza del reato in oggetto è avvenuta solo alla data del marzo 2015, con la cessazione dell’attività.”
In conclusione, “i reati, quindi, non risultavano prescritti alla data della sentenza” e l’imputato è stato condannato.
Svolgimento di attività senza il necessario certificato di prevenzione incendi quale reato permanente: conseguenze sul termine di prescrizione del reato
Un’altra sentenza del 2014 in tema di certificato di prevenzione incendi (Cassazione Penale, Sez.III, 19 febbraio 2014 n.7774) - che citiamo qui solo a mo’ di esempio, in quanto la nozione di reato permanente è applicabile alla gran parte dei reati di salute e sicurezza - ha evidenziato, anche in questo caso, le conseguenze concrete della permanenza del reato sul termine di prescrizione dello stesso.
In particolare, “al G. risultava contestato di aver ampliato il deposito di oli minerali lubrificanti senza la preventiva autorizzazione del competente comando dei Vigili del Fuoco.
Il Tribunale, senza alcuna immutazione del fatto, si è limitato a riqualificarlo D.Lgs.n.139 del 2006, ex art.20.”
La sentenza chiarisce che “l’ampliamento richiedeva il rilascio di nuovo certificato di prevenzione, essendo quello in possesso del ricorrente relativo ad un deposito con “capacità” inferiore (presso il distributore poteva essere detenuto un quantitativo di Kg. 100 di oli lubrificanti).
In presenza di un quantitativo maggiore di prodotti infiammabili, era necessario verificare nuovamente i fattori di rischio in relazione all’ubicazione ed alle caratteristiche dei locali di deposito.”
Il G. tra i vari motivi di ricorso ha eccepito anche la prescrizione del reato.
Ma secondo la Cassazione “il reato non era certo prescritto al momento dell’emissione della sentenza impugnata.”
Infatti l’accertamento era stato effettuato in una data in cui “era presente presso il distributore un quantitativo di oli lubrificanti in misura superiore al consentito senza che l’imputato fosse in possesso della relativa autorizzazione-certificazione antincendi.”
La Suprema Corte precisa così che la sentenza richiamata dal G. nel suo ricorso (Cass. Pen. Sez.III n.4006 del 12.2.1998) “è rimasta isolata, essendo stata superata dalla giurisprudenza successiva, secondo cui “l’omissione del preventivo esame e collaudo da parte dei Vigili del Fuoco per i progetti di nuovi impianti relativi a lavorazioni pericolose, è configurabile come reato proprio e come reato permanente (perdurando per volontà dell’agente la lesione del bene giuridico protetto fino all’ottenimento del certificato di prevenzione o alla cessazione dell’attività pericolosa” (cfr. Cass. pen. sez.3 n.8346 del 13.4.2000).”
La contestazione da parte del Pubblico Ministero del reato permanente: anche se viene indicata solo la data iniziale, la permanenza è compresa nell’imputazione e si estende fino alla sentenza
Concludiamo con una ulteriore specificazione contenuta in Cassazione Penale, Sez.III, 14 dicembre 2011 n.46340 in materia di imputazione e contestazione del reato permanente.
In particolare, “come affermato dalle Sezioni unite (cfr.sent.n.11021 del 13.1.1998) e come condivisibilmente ribadito dalla giurisprudenza successiva (cfr. ex multis cass.sez.6 n.10621 del 14.7.2000; cass. sez.3 n.11591 dell’11.10.2000; cass. sez.1, n.27381 del 6.6.2003) la contestazione del reato permanente, per l’intrinseca natura del fatto che enuncia, contiene già l’elemento del perdurare della condotta antigiuridica; quando, pertanto, il pm si sia limitato ad indicare la data iniziale (o la data dell’accertamento) e non quella finale, la permanenza intesa come dato della realtà, deve ritenersi compresa nell’imputazione, sicché l’interessato è chiamato a difendersi nel processo in relazione ad un fatto la cui essenziale connotazione è data dalla sua persistenza nel tempo, senza alcuna necessità che il protrarsi della condotta criminosa formi oggetto di contestazione suppletiva. La contestazione del reato permanente assume cioè una vis espansiva fino alla pronuncia della sentenza.”
Un esempio di tale applicazione può essere tratto dal caso di specie trattato da quest’ultima sentenza, nel quale “le violazioni indicate nell’imputazione, accertate in data 14.4.2004, non erano state, nonostante le prescrizioni impartite, eliminate (come si accertava nel successivo controllo del gennaio 2005). Non risultando che successivamente sia cessata la condotta violatrice della normativa (non è stato neppure dedotto), la cessazione della permanenza deve ritenersi avvenuta soltanto con la emissione della sentenza (16.11.2009). Non è maturata, pertanto, la invocata prescrizione” e “il ricorso va quindi dichiarato inammissibile”.
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro
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