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Il lavoro flessibile, lo stress e le dimensioni dell'insicurezza

Il lavoro flessibile, lo stress e le dimensioni dell'insicurezza
Redazione

Autore: Redazione

Categoria: Rischio psicosociale e stress

29/03/2017

Un intervento si sofferma sulla sicurezza sul lavoro e del lavoro con particolare riferimento al lavoro flessibile. I rischi psicosociali, i lavoratori “3D” e le dimensioni dell’insicurezza: economica, organizzativa e progettuale.

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Sesto Fiorentino (FI), 29 Mar – Se come rilevato più volte anche dal nostro giornale i rischi psicosociali e lo stress lavoro-correlato rappresentano una delle sfide principali con cui dobbiamo confrontarci nel campo della salute e della sicurezza sul lavoro, è necessario riflettere anche sui cambiamenti nel mondo del lavoro per comprendere le dimensioni odierne dell’insicurezza sul lavoro

 

A parlarne e ad aiutarci a riflettere su questi fattori è un intervento al seminario “La nuova legislazione del lavoro: ruolo e funzioni degli RLS nell’organizzazione del lavoro e nella valutazione dei rischi”, organizzato dalla Rete Regionale Toscana RLS e dall’ Azienda Sanitaria di Firenze, che si è tenuto il primo dicembre 2016 a Sesto Fiorentino (Firenze).

 

In “Sicurezza sul lavoro, sicurezza del lavoro”, a cura di Annalisa Tonarelli ( Università degli Studi di Firenze – Dipartimento di Scienze politiche e sociali)  si ricorda, ad esempio, che se lo stress lavoro-correlato “insorge quando le esigenze lavorative sono superiori alla capacità del lavoratore di affrontarle”, questa è una delle conseguenze derivanti proprio da un ambiente di lavoro “carente dal punto di vista psicosociale, anche perché i lavoratori sottoposti ad uno stress prolungato sul lavoro possono arrivare a soffrire di gravi problemi di salute mentale e fisica”.

 

A questo proposito la relazione segnala che per rischi psicosociali si intendono “gli effetti negativi in termini psicologici, fisici e sociali derivanti da un’organizzazione e una gestione inadeguate del lavoro, nonché da un contesto sociale inappropriato sul lavoro”.

La relatrice riporta alcuni esempi:

- “lavoro eccessivamente impegnativo e/o tempo a disposizione non sufficiente per portare a termine le mansioni;

- richieste contrastanti e ruolo del lavoratore non definito con chiarezza;

- discrepanze tra le esigenze del lavoro e la competenza del lavoratore; il sottoutilizzo delle competenze di un lavoratore può essere una fonte di stress tanto quanto l’impegno eccessivo;

- mancato coinvolgimento nelle decisioni che riguardano il lavoratore e sulla modalità di svolgimento del lavoro;

- lavorare da soli, in particolar modo quando ci si relaziona con il pubblico e con i clienti, e/o essere oggetto di violenza da parte di terzi, che può assumere la forma di aggressione verbale, attenzioni sessuali indesiderate e minaccia di violenza fisica o violenza fisica perpetrata;

- mancanza di sostegno da parte della dirigenza e dei colleghi e scarse relazioni interpersonali;

- molestie psicologiche o sessuali nel luogo di lavoro; atteggiamento persecutorio, umiliante, intimidatorio o minaccioso da parte di superiori o colleghi ai danni di un lavoratore o di un gruppo di lavoratori;

- ripartizione ingiusta del lavoro, dei premi economici, delle promozioni o delle opportunità di carriera;

- comunicazione inefficace, cambiamento mal gestito a livello organizzativo e precarietà del lavoro;

- difficoltà a conciliare gli impegni lavorativi con quelli privati”.

E si ricorda che benché molti fattori contribuiscano alla salute mentale e al benessere dei lavoratori, “è comprovato che l’ambiente di lavoro svolge un ruolo significativo”.

 

Rimandando alla lettura integrale del documento agli atti, relativo all’intervento di Annalisa Tonarelli, veniamo tuttavia ad un punto centrale della sua riflessione: la dimensione dell’insicurezza sul lavoro in riferimento al lavoro flessibile, al lavoro precario.

 

La relatrice ricorda che, come sottolineato anche da un intervento pubblicato sul bollettino Adapt, l’Agenzia Europea per la Salute e la Sicurezza sul lavoro (EU-OSHA) evidenzia come “i soggetti coinvolti da rapporti di lavoro flessibile, e quindi destinati a svolgere una prestazione soltanto per un determinato periodo di tempo, siano soggetti a frequenti variazioni di ambiente e condizioni di lavoro, con conseguente mutamento di mansioni e maggiori difficoltà ad adottare comportamenti standardizzati e virtuosi volti a minimizzare i pericoli correlati al lavoro”. Ed è il caso, ad esempio, dei lavoratori somministrati “che spesso ricoprono il profilo di operai comuni adibiti a mansioni manuali ad alto rischio di infortunio nel settore edile, dei trasporti, manifatturiero e del commercio. In virtù della temporaneità, spesso estrema, del loro contratto, questi lavoratori rivestono un ruolo marginale all’interno delle organizzazioni e sono soggetti ad un minore coinvolgimento nelle attività sindacali”. Inoltre, partendo da una condizione di debolezza che li rende “spesso poco propensi a denunciare fattori di rischio/infortuni, soffrono anche di una maggiore preoccupazione per la propria incolumità psicofisica durante l’attività lavorativa”.

 

La relazione ricorda tuttavia che anche i lavoratori intermittenti e i “voucheristi”, spesso “non vengono adeguatamente informati sulla complessiva organizzazione del lavoro e sui rischi presenti in azienda”. E l’assenza di un contatto costante con il personale dell’azienda, “causa, inoltre spesso un forte senso di isolamento che aumenta il disagio dei lavoratori e li rende più vulnerabili rispetto alle eventuali violazioni in materia di salvaguardia della salute e sicurezza”.

 

Si ricorda, a questo proposito, che con riferimento a queste tipologie di lavoratori – “spesso poco qualificati, reclutati con contratti temporanei e destinati allo svolgimento di mansioni faticose e degradanti - negli Stati Uniti “si parla di lavoratori ‘3D’ (Difficult, Dangerous, Dirty), per esprimere il loro relativo disagio”.

 

Si indica poi che la flessibilità “si sostanzia in una modificazione importante – e allo stesso tempo involontaria – nella percezione del luogo di lavoro (azienda, cantiere, ufficio ecc.) e del posto che ricoprono in esso”. E i cambiamenti organizzativi introducono nei lavoratori un “senso di insicurezza che si articola attorno a tre diverse dimensioni:

- insicurezza economica: “si intende normalmente la difficoltà che tali lavoratori sperimentano nel soddisfare, attraverso i modesti salari percepiti a fronte del loro impegno lavorativo, le esigenze di spesa individuali e familiari”;

- insicurezza organizzativa: questa insicurezza “riferisce, invece, alla percezione di una scarsa integrazione di questi lavoratori all’interno delle compagini entro cui si trovano, spesso temporaneamente, inseriti. Tale dimensione non è influenzata solo dalla temporaneità (sia in termini di durata del contratto che di tempo di lavoro, spesso molto ridotto e concentrato in spazi ‘inusuali’ rispetto alla tradizionale articolazione della giornata lavorativa) ma anche dal loro essere maggiormente soggetti all’arbitrarietà con cui il management ne decide l’allocazione all’interno delle diverse mansioni”;

- insicurezza progettuale: “ci si riferisce a una generale preoccupazione circa l’esistenza futura del proprio lavoro, alla percezione di una potenziale minaccia alla continuità della propria attività professionale e alle aspettative personali di continuità in un setting lavorativo”.

 

La relatrice indica che queste tre forme di insicurezza “impattano fortemente sulla tutela della salute fisica e mentale dei lavoratori e sulla salvaguardia dai rischi sia di natura fisica che psicosociale” e l’intervento vuole operare un richiamo puntuale proprio alla “dimensione del benessere organizzativo e dei rischi psicosociali”. Un tema che, come più volte constatato anche negli interventi e nelle interviste ospitate dal nostro giornale, spesso resta marginale all’interno del dibattito in materia di sicurezza sul lavoro.

E si evidenzia - continua la relatrice, “come, nel nostro Paese, ci sia ancora un grave ritardo culturale riguardo a un tema che da decenni viene dibattuto e affrontato nella maggior parte dei paesi europei, e molta resistenza, soprattutto da parte datoriale, ad integrare questa dimensione all’interno della legislazione italiana”.

 

Concludiamo segnalando che la relazione, che approfondiremo in un prossimo articolo, si sofferma anche sull’occasione mancata delle misure adottate dal legislatore (ad esempio attraverso il D.lgs. 81/2015 e il D.lgs. 151/2015) e sulle azioni possibili per tutelare la sicurezza e il benessere in una prospettiva organizzativa.

 

 

 

Sicurezza sul lavoro, sicurezza del lavoro”, a cura di Annalisa Tonarelli (Università degli Studi di Firenze – Dipartimento di Scienze politiche e sociali), intervento al seminario “La nuova legislazione del lavoro: ruolo e funzioni degli RLS nell’organizzazione del lavoro e nella valutazione dei rischi” (formato PDF, 43 kB).

 

 

RTM



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