Come affrontare le criticità nella gestione e valutazione dello stress?
Urbino, 6 Set – I rischi professionali si possono sostanzialmente classificare in due macroaree:
- “la prima raggruppa i rischi fisici (I fattore di rischio), i rischi chimici (II fattore di rischio) e i rischi biologici (III fattore di rischio);
- la seconda, aggiunta negli ultimi anni, è relativa ai rischi psicosociali (IV fattore di rischio), ‘risultanti dall’interazione tra gestione, organizzazione, contenuto del lavoro, condizioni ambientali da un lato e competenze ed esigenze dei lavoratori dall’altro’ (V. Pasquarella).
L’Accordo quadro europeo dell’8 ottobre 2004 si è poi focalizzato, tra i rischi psicosociali, “sullo stress lavoro-correlato, in quanto ritenuto maggiormente misurabile ‘in forma preventiva e ad approccio collettivo’ (C. Frascheri) e collocabile nel contesto della prevenzione.
E obbligo del datore di lavoro è “di verificare se sussistano tutte le condizioni utili per svolgere il lavoro in modo adeguato, mettendo in atto tutti gli strumenti necessari dal punto di vista tecnico, organizzativo e relazionale per evitare l’emergere di situazioni di stress lavoro-correlato”.
A ricordare con queste parole il rischio stress lavoro-correlato e a fare alcuni rilievi critici sulle problematiche relative alla gestione del rischio in relazione alla legislazione italiana sulla salute
e sicurezza è il contributo/saggio - pubblicato su “Diritto della sicurezza sul lavoro”, rivista dell'Osservatorio Olympus e pubblicazione semestrale dell' Università degli Studi di Urbino – dal titolo “Questioni aperte nella rilevazione del rischio stress lavoro-correlato”.
Dopo aver già analizzato le difficoltà correlate alla definizione del rischio, oggi ci soffermiamo su altri aspetti affrontati dal saggio:
- La diversità della tipologia di rischio fra quelli tradizionali e quelli psicosociali
- La necessità di strumenti normativi, organizzativi e culturali adeguati
La diversità della tipologia di rischio fra quelli tradizionali e quelli psicosociali
Il contributo – a cura di Angelo Avarello e Tiziana Fanucchi, psicologi presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi (Firenze) – indica che l’avere inserito lo stress lavoro-correlato all’interno della normativa che si occupa di tutela della salute e sicurezza (come avvenuto con il D.Lgs. 81/2008) e “averlo considerato come rischio al pari dei canonici rischi presenti in ambito lavorativo (fisici, chimici e biologici), ha fatto sì che, anche l’approccio metodologico per l’analisi di quest’ultimo, fosse sostanzialmente assimilabile a quello utilizzato per quelli tradizionali”. E dalla parificazione “sono emersi i primi problemi di non perfetta sovrapposizione fra il modello metodologico e l’oggetto d’indagine” (che hanno portato a continui rinvii e alla necessità di “ricorrere al pronunciamento della Commissione consultiva”).
Per comprendere meglio i problemi emersi, gli autori alcuni punti utili per una più ampia riflessione.
Ne riprendiamo brevemente alcuni:
- “Gli strumenti e le metodiche adottate per la valutazione dei rischi psicosociali risentono del modello teorico di riferimento, e quasi sempre nell’indagine viene coinvolto il lavoratore”. Si indica che Cox e colleghi “riportano almeno tre principali impostazioni teoriche”: una impostazione tecnica (‘concepisce lo stress sul lavoro come una caratteristica avversa oppure dannosa dell’ambiente di lavoro e considera lo stress come una variabile indipendente’), un approccio fisiologico (‘concepisce lo stress in termini di effetti fisiologici comuni di un’ampia gamma di stimoli avversi o dannosi e lo considera come una variabile dipendente, vale a dire come una specifica reazione fisiologica ad un ambiente intimidatorio oppure dannoso’) e un approccio psicologico (‘concepisce lo stress sul lavoro sulla base di una interazione dinamica tra la persona e l’ambiente di lavoro in cui opera’). Chiaramente “in base al modello teorico di riferimento che si sceglie di adottare, si individuano strumenti e strategie d’intervento differenti, tutti legittimi e scientificamente comprovati ma non sempre in sintonia con quanto riportato nell’Accordo quadro europeo dell’8 ottobre 2004”.
- “La maggior parte degli strumenti per la valutazione dei rischi non segue la logica del cut-off presente nei rischi tradizionali. Le metodiche e gli strumenti in uso per la misurazione dei rischi fisici, chimici e biologici si basano su un sistema di soglie che determina se il livello misurato è tale da potere essere considerato a rischio o meno. I rischi psicosociali, la famiglia di rischi cui appartiene lo stress lavoro-correlato, non si prestano sempre ad una logica di cut-off, ma più ad una descrizione dinamica delle dimensioni considerate”.
- “L’articolo 28, comma 3-bis, del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e s.m.i. stabilisce che ‘in caso di costituzione di nuova impresa, il datore di lavoro è tenuto ad effettuare immediatamente la valutazione dei rischi elaborando il relativo documento entro novanta giorni dalla data di inizio della propria attività. Anche in caso di costituzione di nuova impresa, il datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell’adempimento degli obblighi di cui al comma 2, lettere b), c), d), e) e f), e al comma 3, e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza’. Questo passaggio del decreto legislativo può essere agevolmente rispettato nel caso dei rischi tradizionali (suddetta prima macroarea); diventa un problema nel caso in cui si prende in considerazione il rischio stress lavoro-correlato. In questo caso non si possono non tenere presente le indicazioni metodologiche contenute nella lettera circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 18 novembre 2010”. Il contributo riporta diverse indicazioni sulle criticità relative a questo aspetto;
- “L’articolo 29, comma 3, del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e s.m.i. stabilisce che ‘la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità’. Anche in questo caso, applicando le indicazioni della Lettera circolare si va incontro a una situazione paradossale. In pratica, dovendo rifare la valutazione di tutti i rischi, compreso lo stress lavoro-correlato, che a causa ‘di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori’, e dovendo tenere conto degli indicatori ‘numericamente apprezzabili’ (indici infortunistici, assenze per malattia, turnover, procedimenti e sanzioni, segnalazioni del medico competente, specifiche e frequenti lamentele formalizzate da parte dei lavoratori), con un sistema di misurazione omogeneo come l’andamento nel tempo dei valori, si incorre nel paradosso di rilevare il rischio stress lavoro-correlato di quella organizzazione che non esiste più, dato che è cambiata a seguito di quelle modifiche del cambiamento produttivo per le quali è stato necessario aggiornare la valutazione”;
- “Un altro aspetto legato all’art. 29, comma 3, del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e s.m.i. riguarda la scadenza e la necessità di rivalutazione del rischio stress lavoro-correlato”. A questo proposito gli autori riportano numerose indicazioni di vari enti come l’ex Ispesl, il Coordinamento Tecnico Interregionale e l’Inail. Ad esempio si ricorda che nel 2017 l’Inail, richiamandosi a quanto affermato dal Coordinamento tecnico interregionale nel 2010, riporta che ‘l’adozione del percorso completo richiederà presumibilmente tra i 12 e i 24 mesi, a seconda sia della complessità aziendale che del tempo richiesto affinché gli interventi implementati possano produrre effetti e risultati apprezzabili. È necessario, in ogni caso, considerare il carattere ciclico del percorso metodologico e, come definito dal Coordinamento tecnico interregionale, la necessità di effettuare una nuova valutazione due/tre anni dopo dall’ultima effettuata’. Dunque è presente un limite temporale che è stato “assegnato alla validità di questo particolare rischio”. Tuttavia l’esistenza di un limite “sarebbe in contrasto con lo spirito dell’art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 81/2008, dove la onnicomprensività dei rischi per la salute dei lavoratori spinge verso l’equiparazione”. Il limite temporale della validità della valutazione “confligge, inoltre, con il concetto stesso di ‘monitoraggio’, così come previsto dalla lettera circolare del 18 novembre 2010. Il monitoraggio non è altro che quell’attività di rilevazione periodica e sistematica di parametri mediante appositi strumenti, ciò allo scopo di controllare la situazione o l’andamento del sistema aziendale”;
- Il documento si sofferma, infine, sul monitoraggio stesso, cioè sull’attività di “controllo continuo di parametri o di indicatori (come appunto il caso del rischio stress lavoro-correlato)” che si avvia “quando si riscontra un livello di rischio basso nella valutazione, così come riportato dalla lettera circolare del 18 novembre 2010”. Si riportano a questo proposito alcune indicazioni del Coordinamento tecnico interregionale - ‘il piano di monitoraggio con riapplicazione dello strumento per la valutazione preliminare dovrà essere ripetuto periodicamente (indicativamente ogni 2 anni)’ - “facendo coincidere sostanzialmente il monitoraggio con la periodicità della valutazione, così come suggerito dall’INAIL”: questo “fa emergere un problema in quanto, due processi distinti in fase definitoria, vengono successivamente accomunati nella medesima prassi”.
In definitiva ciò che emerge è “sostanzialmente la diversità della tipologia di rischio fra quelli tradizionali e quelli psicosociali. L’equiparazione tout court dei rischi tradizionali con quelli psicosociali, porta inevitabilmente alla generazione di un ibrido che non può e non riesce a rispondere agli obiettivi del Testo Unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”.
La necessità di strumenti normativi, organizzativi e culturali adeguati
Riportiamo alcune note conclusive degli autori.
Le riflessioni mostrano come la normativa nazionale relativa al rischio stress lavoro-correlato “presenti ancora delle criticità che necessitano di una più attenta riflessione. Sicuramente parte di queste difficoltà possono essere attribuite alla novità e alla breve esperienza di applicazione della norma”.
Queste alcune conclusioni che è possibile trarre da questa trattazione “in merito allo stato dell’arte:
- I rischi psicosociali sono ormai una ‘realtà legislativa’ non solo a livello europeo, ma anche nel nostro paese.
- Se si vogliono sfruttare a pieno le capacità informative e predittive dei rischi psicosociali (di cui lo stress lavoro-correlato è una fattispecie), occorre che la normativa vigente riconosca esplicitamente la peculiarità di questa tipologia di rischio. Quindi sì all’obbligo della valutazione, al pari dei rischi tradizionali, ma con metodologie proprie e in coerenza con l’ampia letteratura scientifica sull’argomento.
- Al fine di rendere possibile il punto b), dati i criteri metodologici specifici di valutazione, potrebbe rivelarsi utile la definizione di un apposito Titolo del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e s.m.i.” che possa “fornire al datore di lavoro quegli strumenti normativi, metodologici e culturali necessari per effettuare un’adeguata analisi per poi giungere ad un intervento più appropriato sul rischio in oggetto”.
- “La metodologia, anche se minima, proposta dalla Lettera circolare non contempla le situazioni principali della vita evolutiva di un’organizzazione, sia in termini di obbligo della valutazione sia per quanto riguarda la rivalutazione del rischio, lasciando il datore di lavoro in una situazione di incertezza normativa e operativa”.
In definitiva “affrontare il tema dello stress nel contesto lavorativo significa non solo prevenire i rischi di malattie o di infortuni, ma soprattutto promuovere la salute nella sua più ampia accezione” e questo significa “potenziare le risorse dei singoli lavoratori e dell’azienda, favorendo la crescita e lo sviluppo dell’organizzazione stessa”.
È di fondamentale importanza “che siano messi a disposizione del datore di lavoro strumenti normativi, organizzativi e culturali adeguati”.
Gli autori sottolineano che “promuovere organizzazioni orientate al benessere non deve essere visto come un lusso accessibile solo alle aziende economicamente più ricche, bensì come una necessità e un’opportunità dettata dal cambiamento culturale, economico e sociale: vedi le problematiche connesse all’invecchiamento della popolazione lavorativa”.
Il rischio che si corre altrimenti – concludono - è “la mancata sopravvivenza della stessa azienda e del lavoro in generale”.
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