Spazi confinati e infortuni sul lavoro: sentenze di Cassazione Penale
Con Cassazione Penale, Sez.IV, 14 marzo 2022 n.8423, la Corte ha confermato la condanna del capocantiere V.C., per il reato di omicidio colposo.
Era accaduto che, nel novembre del 2008, “M.V., lavoratore dipendente della ditta “Nuova L. s.r.l.”, che aveva avuto in appalto lavori di manutenzione dall’E., all’interno di una centrale elettrica, è precipitato a terra da un “riscaldatore d’aria” che era oggetto di manutenzione ed è deceduto dopo quindici giorni per le gravi lesioni riportate.”
I Giudici di merito avevano accertato che la vittima, “che era all’interno della parte alta del macchinario riscaldatore e che era - sì - munita di casco protettivo e di maschera antipolvere ma non era fornita di maschera antigas e nemmeno di cintura di sicurezza (dotazioni che però erano espressamente prescritte dal P.O.S.) e che, dopo avere avvertito un malore a causa della mancanza d’aria, è caduto giù da un’altezza superiore a due metri.”
Un passaggio importante della sentenza è il seguente: “si è ritenuto che il rischio da “ ambiente confinato” era espressamente previsto nel P.O.S., che ciononostante M.V. non era stato sottoposto a visita medica per valutare la idoneità a svolgere lavori in ambienti confinati, che non aveva seguito un corso di formazione specifico per la peculiare attività lavorativa che doveva svolgere, che non era stato munito di tutte le dotazioni di sicurezza necessarie (maschera antigas e cintura di sicurezza) e che non era ancorato ad un punto fisso.”
La Cassazione ha rigettato il ricorso del capocantiere, ritenendo che fosse idonea la sentenza d’appello che ne aveva confermato la condanna per “non avere l’odierno ricorrente, nella qualifica pacificamente rivestita di capo cantiere, controllato che il lavoratore dipendente M.V. fosse idoneo e preparato per l’attività rischiosa da svolgere in ambienti confinati e che fosse provvisto dei necessari mezzi di protezione individuale (mascherina con filtro specifico e cintura di sicurezza ancorata a punto fisso, che non sono stati trovati sul luogo dopo il fatto né risultano essere stati forniti), la cui assenza è stata riconosciuta in diretta correlazione causale con l’incidente mortale”.
Inoltre nella pronuncia di merito si era anche “specificato che i dispositivi di sicurezza venivano forniti ai lavoratori da C.I., che a sua volta riceveva le istruzioni e le disposizioni da V.C., il quale non aveva fornito al caposquadra C.I., considerato ulteriore preposto ma subordinato al capocantiere V.C., le opportune direttive onde verificare, prima dell’inizio dell’attività lavorative del riscaldatore, che all’interno vi fosse sufficiente areazione ed ossigenazione, come previsto non solo dalla legge ma anche espressamente dal P.O.S.”.
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Due anni prima, con Cassazione Penale, Sez.IV, 7 dicembre 2020 n.34734, è stata confermata la condanna di F.F., nella qualità legale rappresentante della S. s.n.c., per omicidio colposo, “per avere causato, con colpa consistita in imprudenza, negligenza ed imperizia, nonché nella violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro di cui all’art.66 d.lgs.81/2008, la morte - per insufficienza multiorgano post ipotermia accidentale - di R.B., che, entrato nella cella di surgelazione I.Q.F. n.6 e, in particolare, nell’apertura di ispezione, a seguito di malore, non era in grado di rispondere al collega L.D., il quale, provvedeva a chiudere la porta aperta, ritenendo che la cella fosse vuota, prima di avviare nuovamente l’immissione di azoto.”
Questi i fatti.
Accadde che “l’operaio R.B., cui erano attribuite mansioni generiche, venne rinvenuto alle ore 18,25 del …2012, all’interno della cella di surgelazione IQF, dove si raccoglieva il prodotto in lavorazione, in stato di incoscienza, dai colleghi di lavoro, intenti a cercarlo da circa 20 minuti. Immediatamente soccorso, decedeva il giorno successivo per insufficienza multiorgano post ipotermia accidentale.”
In realtà, “nessuno poté osservare la dinamica del sinistro e, tuttavia, nel corso delle ricerche del lavoratore il dipendente L.D., trovata la cella aperta e l’erogatore dell’azoto chiuso, dopo avere chiamato il R.B., non ottenendo risposta, richiuse la porta e riavviò l’azoto.”
Furono riscontrate dalle “indagini dello SPISAL le seguenti carenze: assenza nel DVR della valutazione dei rischi connessi all’uso dell’azoto in ambiente chiuso, con conseguente mancata specifica formazione del personale sul punto; assenza di un sistema di sicurezza - ossimetro - finalizzato alla segnalazione di un livello di ossigeno ed idoneo ad impedire l’apertura della porta in condizioni di rischio od a disattivare il funzionamento degli apparati meccanici in caso di porta aperta; assenza di strumenti di protezione individuale (autorespiratori), per coloro che dovevano accedere alla cella, anche per interventi di soccorso.”
Inoltre, è stato “appurato che R.B. osservò due delle tre prescrizioni impartite per l’accesso- mantenimento della porta aperta, disattivazione dell’azoto - senza però provvedere a dare avviso ad almeno un collega del suo ingresso nella cella, come previsto. Mentre non è risultato possibile accertare quanto tempo il lavoratore attese dal momento dall’apertura della porta e dello spegnimento dell’azoto, prima di accedere all’interno, essendo stato stabilito, nelle prescrizioni impartite, un intervallo minimo di almeno un minuto.”
Nel confermare la condanna dell’imputato, la Cassazione “ritiene di escludere l’abnormità del comportamento del lavoratore, posto che dalle testimonianze raccolte in giudizio è emerso che la verifica della lavorazione all’interno della cella fosse pratica comune fra i lavoratori, e che l’ingresso da parte di R.B. - pur gravemente imprudente, per non avere il medesimo avvertito i propri compagni di lavoro, contravvenendo alle istruzioni impartite era compatibile con esigenze connesse alla produzione, quali la verifica del prodotto ancora rimanente nella vasca-tramoggia, collocata all’interno della cella.”
Tutto “ciò, tenuto conto che il medesimo aveva eseguito una specifica fase produttiva, e che le sue mansioni generiche, includevano il processo realizzato all’interno della cella di congelamento.”
Concludiamo questa breve rassegna, condotta come sempre senza pretese di esaustività, con Cassazione Penale, Sez.IV, 27 marzo 2017 n.15124, con cui la Corte ha confermato le condanne “di G.G., G.M.E., G.G.F., G.M.A., T.A., T.G., V.A. e Z.R., chiamati a rispondere in diverse qualità della morte di P.A. e delle lesioni personali patite da T.”
Era accaduto che la “I. Chemicals srl, con stabilimento in P. diretto da Z.R., produttrice di resine, vernici e diluenti per l’industria del legno, il …2008 aveva affidato alla V.-M. r.l. (che aveva nei G.G. i propri amministratori delegati) la fornitura di alcuni serbatoi e dei relativi sistemi di agitazione (apparati costituenti i sistemi di miscelazione utilizzati nel ciclo produttivo), nonché la “modifica serbatoio esistente denominato B4Dx01 ai fine di montare la sella di supporto della LAN 3 di cui ai punto L. La modifica è realizzabile presso il vs. stabilimento con serbatoio messo in sicurezza” (così l’ordine all’impresa esecutrice).”
Dunque, “sulla scorta di un accordo intervenuto nel maggio 2008 la I. aveva assegnato alla It. s.r.l. il compito di eseguire la “sostituzione motoriduttore, inserimento nuova sella motore mescolatore V.”. Era stato concordato che la prestazione sarebbe consistita nello scollegamento dell’albero dal motoriduttore “previa bonifica da parte vostra” - nella fornitura di una piastra destinata a fungere da supporto del motore; nel montaggio del nuovo motore.”
Ed in effetti, “nel luglio la It. aveva provveduto ad eseguire l’installazione della piastra, con opere compiute esclusivamente all’esterno del serbatoio.
Da quel momento il serbatoio, dopo essere stato lavato con acqua e solvente per eliminare i residui delle lavorazioni, rimaneva inattivo ed escluso dal sistema informatico di automazione.”
Successivamente, “in data … ottobre 2008 la V.-M. veniva autorizzata ad affidare alla partecipata C. s.r.l. (avente quali consiglieri delegati del C.d.A. T.A. e T.G.), il subappalto dei lavori, ed il giorno successivo il P.A. (dipendente della prima) ed il T. (dipendente della seconda) si presentavano presso lo stabilimento della I.”
A questo punto, “i due lavoratori venivano accolti in azienda dal V.A. (responsabile progetti e dirigente in staff all’interno dello stabilimento della I), in compagnia del quale e del G.G.F. (responsabile della manutenzione dello stabilimento) aprivano il boccaporto del serbatoio B4DX01, dal quale fuoriusciva un forte odore di solvente.”
Così, “si decideva pertanto di differire al giorno successivo la lavorazione; e veniva inserito all’interno del serbatoio un tubo di gomma volante, collegato all’impianto di aria compressa, in modo da far fuoriuscire i vapori dei solventi.”
Il giorno successivo “il P.A. ed il T. facevano ingresso in azienda verso le ore 9 e si portavano direttamente al serbatoio B4DX01. Dopo aver depositato nei pressi l’imbracatura e gli altri sussidi di sicurezza in dotazione si calavano all’interno del serbatoio utilizzando una scala. Ma la presenza di una insufficiente quantità di ossigeno, dovuta all’insufflazione di azoto, determinava la morte del P.A. per asfissia acuta con insufficienza cardiaca terminale e la perdita di coscienza da ipossia del T.”
In particolare, “l’affermazione di responsabilità per lo Z.R. ed il V.A. veniva derivata dal non aver essi fornito alla V.-M. e alla C. dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui i relativi addetti si sarebbero trovati ad operare e dall’aver omesso l’opera di coordinamento prevista dall’art. 26 d.lgs. n.81/2008, ravvisandosi un rischio interferenziale in corrispondenza delle operazioni di modifica del serbatoio B4DX01”.
Secondo la Cassazione “nel caso che occupa, il rischio specifico dell’ambiente di lavoro rappresentato dal serbatoio era costituito - per tutti e non certo solo per i lavoratori dipendenti dall’affidataria - da quello derivante dalle procedure di inertizzazione, poiché questa veniva eseguita mediante l’immissione di azoto, con l’effetto di ridurre la percentuale di ossigeno.”
Ciò “sicché il rischio era quello derivante dalla presenza nel serbatoio di una miscela con una percentuale insufficiente di ossigeno, come tale possibile causa di anossia.”
Pertanto, “che tale rischio debba ritenersi insussistente perché la committente avrebbe provveduto a rendere l’aria respirabile prima di consegnare il serbatoio agli affidatari è tesi che riposa sull’evidente inversione logica: gli obblighi previsti dalla legge - e tra questi, l’obbligo di informazione - sussistono perché le lavorazioni della committente presentano un determinato rischio e non perché tale rischio non è ‘trattato’ e risolto dal committente.”
In questo senso, “l’opera informativa, come la valutazione dei rischi, attiene ai rischi insiti nelle attività; non ai rischi che permangono nonostante la loro valutazione e l’adozione delle connesse misure.”
Di conseguenza “i committenti erano senz’altro tenuti ad informare gli affidatari del rischio rappresentato dalle modalità di inertizzazione dei serbatoi, e nella specie di quello PD4X01.”
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro
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