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I limiti del diritto all’oblio

I limiti del diritto all’oblio
Adalberto Biasiotti

Autore: Adalberto Biasiotti

Categoria: Privacy

26/06/2017

Il regolamento generale europeo sulla protezione dei dati prevede la introduzione del diritto all’oblio: una sentenza della cassazione chiarisce i limiti di questo diritto, nonché il diritto ad un eventuale risarcimento in caso di violazione.


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La sentenza della cassazione civile, sezione 1, numero 1931 dell’anno 2017 merita di essere attentamente letta da tutti coloro che hanno a che fare con possibili rivendicazioni, legate ad una non corretta applicazione del codice della privacy.

La faccenda è piuttosto complessa e viene così sintetizzata.

Un interessato ha convenuto in giudizio due banche, chiedendo che si provvedesse all’immediata cancellazione del suo nominativo nella centrale rischi, nella categoria “sofferenze”, ivi inserito a seguito di legittima segnalazione effettuata dalla banca convenuta. Il tribunale di Roma ha ritenuto che la segnalazione fosse stata legittimamente effettuata, essendo incontestata l’erogazione di somme da parte della banca e la restituzione non integrale di essi.

 

L’interessato è ricorso in cassazione, una prima volta, che ha riconosciuto che non era stato correttamente individuato il presupposto della segnalazione a sofferenza, in quanto non supportata da una analitica valutazione della complessiva situazione finanziaria dell’interessato.

In altre parole, anche se l’interessato attraversava una situazione economica difficile, essa non aveva connotati talmente gravi da richiedere l’inserimento nella categoria sofferenze.

 

La faccenda però non è finita qui, perché l’interessato ha ritenuto che comunque la situazione, condannata dal tribunale, gli aveva creato dei danni di immagine gravi, tanto è vero che non aveva potuto avere ulteriori finanziamenti presso altre banche.

 

Egli chiedeva pertanto un congruo risarcimento, facendo riferimento all’articolo 2050 del codice civile, che espressamente ricordato del codice della privacy. In altre parole, chiunque tratta dati personali svolge una attività pericolosa e quindi deve adottare ogni possibile cautela per evitare danni a terzi.

 

A proposito, si ricorda che il codice della privacy prevede effettivamente il risarcimento dei danni che possa subire un interessato, a seguito di non lecito trattamento di dati personali. Tale danno però deve essere ampiamente provato, non solo negli aspetti materiali, ma anche negli aspetti immateriali, come ad esempio il danno di immagine, che certamente è ben più difficile da quantizzare.

 

Ricordo ai lettori che il regolamento generale europeo prevede esplicitamente che l’interessato abbia diritto a ricevere risarcimenti per danni sia materiali, sia immateriali.

La cassazione pertanto è passata ad esaminare se il ricorrente avesse presentato una documentazione credibile, in merito ai danni che egli aveva subito per la erronea iscrizione del suo nome nell’elenco delle sofferenze della centrale rischi.

 

La cassazione ha concluso affermando che il ricorrente non aveva presentato alcuna documentazione probatoria o comunque credibile in merito ai danni che egli avrebbe subito, per tale iscrizione nella centrale rischi, e pertanto la richiesta è stata rigettata con addebito di spese.

La morale che deve trarsi da questa sentenza è duplice:

  • da un lato, appare evidente che le banche devono prestare grande prudenza nella gestione dei nominativi dei clienti, che per qualche motivo non hanno potuto rispettare i loro impegni economici,
  • dall’altro lato, l’interessato deve presentare una documentazione probatoria assolutamente credibile perché possa essere applicato non solo l’articolo 2050 del codice civile, ma anche perché possa essere riconosciuto il suo diritto a un risarcimento, conseguente a violazione del codice della privacy.

 

Adalberto Biasiotti

 

Sentenza della cassazione civile, sezione 1, numero 1931 dell’anno 2017 (pdf)



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