Biotecnologie industriali: i rischi nelle bioraffinerie microalgali
Roma, 3 Giu – Riguardo al settore delle biotecnologie industriali (white biotech), da alcuni anni un laboratorio del Dipartimento Innovazioni Tecnologiche (Dit) dell’ Inail ha focalizzato le sue attività sugli aspetti di salute e sicurezza sul lavoro nel settore in relazione anche agli impianti e ai processi biotecnologici.
E nell’ambito della ricerca scientifica del Piano di attività 2019-2021 dell’Inail, il laboratorio (Laboratorio X “Sicurezza delle tecnologie per lo sviluppo sostenibile”) ha proposto dei progetti che riguardano “alcuni aspetti complementari per lo sviluppo in sicurezza di bioprocessi secondo modelli di economia circolare. L’obiettivo è quello di definire protocolli per la valutazione ed il controllo dei rischi professionali di bioprocessi innovativi nei settori delle bonifiche sostenibili” e delle “bioraffinerie di terza generazione da microalghe”.
A questo proposito si rileva che “è crescente l’interesse nell’impiego delle microalghe che contribuiscono, direttamente o indirettamente, a tutti i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile elencati nella, ormai celebre, Agenda 2030 delle Nazioni Unite”.
Le microalghe rivestono infatti “un ruolo significativo nell’ economia circolare, come piattaforme biotecnologiche (bioraffinerie di terza generazione) per la produzione di prodotti di alto valore, quali intermedi biochimici, bioplastiche e biocarburanti”.
A ricordarlo, e a soffermarsi sulla tutela della sicurezza e salute dei lavoratori nelle bioraffinerie microalgali, è il documento Inail “ Salute e sicurezza nelle biotecnologie industriali. Monitoraggio e valutazione degli impatti di bioraffinerie microalgali”, realizzato dal Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti e insediamenti antropici (DIT) e a cura di Biancamaria Pietrangeli, Roberto Lauri e Mara Stefanelli (Inail, Settore Ricerca DIT), Emma Incocciati (Inail, CTSS), Fabrizio Adani, Elisa Clagnan, Giuliana D’Imporzano e Marta Dell’Orto (Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze agrarie, Agroenergia - Gruppo RICICLA) e Anna Risuglia (Sapienza, Università di Roma, Dipartimento Chimica e Tecnologie del Farmaco).
Nel primo articolo di presentazione del documento abbiamo affrontato brevemente l’impatto ambientale ed occupazionale degli impianti di coltivazione, mentre oggi ci soffermiamo, più nel dettaglio, sui rischi professionali con riferimento ai seguenti argomenti:
- Rischi professionali: i sistemi di coltivazione di microalghe
- Rischi professionali: trattamenti della biomassa e impiego di solventi
- Rischi professionali: i sistemi di trattamento di acque reflue
Rischi professionali: i sistemi di coltivazione di microalghe
Dopo aver parlato della tipologia degli impianti produttivi di microalghe, un capitolo del documento si sofferma su alcuni rischi professionali per i lavoratori, ad esempio con riferimento ai sistemi di coltivazione di microalghe.
Si indica che nelle aziende in cui si svolgono “attività di produzione in sistemi aperti, raccolta, eventuale essiccazione e stoccaggio della biomassa non si segnala uso di solventi o agenti pericolosi: alcune sostanze chimiche possono essere utilizzate, sia pur in strutture separate dalle altre e opportunamente attrezzate, per l'estrazione specifica. Tra queste vi sono la ficocianina, l'acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesaenoico (DHA)”.
Il documento che si sofferma su tutte queste sostanze ricorda poi che i sistemi di coltivazione delle microalghe sono responsabili delle emissioni di ammoniaca (NH3). Ma i rischi professionali “associati a tale agente chimico ed in particolare il rischio di esplosione o quello di intossicazione per inalazione sono generalmente bassi in strutture di estensioni contenute e collocate all'aperto”.
Rischi professionali: trattamenti della biomassa e impiego di solventi
Il documento, dopo aver ricordato che la produzione di biodiesel da microalghe “è molto promettente nella ricerca di un combustibile alternativo a quelli di origine fossile”, si sofferma sui trattamenti della biomassa e sull’impiego di solventi di estrazione.
Si segnala che per l'estrazione di lipidi da biomassa algale “si possono impiegare solventi non polari come esano, benzene, toluene, etere dietilico, cloroformio e solventi polari come metanolo, acetone, acetato di etile ed etanolo”.
Si indica poi che una rassegna dei diversi metodi utilizzati per estrarre oli o lipidi dalla biomassa di microalghe per la produzione di biodiesel (Mubarak et al., 2015) “attesta che l'uso di solventi tossici come l'esano e il cloroformio causa, come conclamati in altri ambiti, rischi per la salute e per l'ambiente e costituisce il principale svantaggio del metodo di estrazione con solvente dell'olio di alga (Aresta et al., 2005)”.
Si indica anche che “se le tecniche di estrazione con solvente sono più economiche e facili da applicare, l'uso di agenti tossici e tempi di esecuzione più lunghi costituiscono criticità molto rilevanti che occorre superare”. E nella ricerca di sistemi di solventi alternativi a quelli tossici, “alcuni studi (Jeevan Kumar et al., 2017) hanno dimostrato che l'estrazione dei lipidi può essere fatta con solventi a base biologica che sono efficienti, convenienti ed ecologici”. Tuttavia, nonostante l’impiego dei solventi bio-based sia promettente, “ai fini dell’impiego su larga scala, risultano ancora da esaminare attentamente sia la performance cinetica dei solventi che gli aspetti termodinamici dei processi di estrazione”.
Riguardo ai principali metodi di estrazione dei lipidi da microalghe il documento si sofferma anche su:
- estrazione supercritica di CO2
- estrazione tramite liquidi ionici
- estrazione dell'olio dalla biomassa algale umida
Rischi professionali: i sistemi di trattamento di acque reflue
Il documento affronta poi i rischi connessi ai sistemi di trattamento di acque reflue tramite l’impiego di microalghe.
Riprendiamo dal documento una immagine che mostra il processo di impiego delle microalghe:
In tali impianti di trattamento di acque reflue “costituiscono fonti di rischio professionale sia gli inquinanti presenti nelle acque o che si formano nelle fasi di processo che quelli impiegati per i trattamenti di depurazione, costituiti in buona parte da miscele inorganiche, spesso in soluzione acquosa”. E i profili di esposizione per chi lavora in tali impianti sono “paragonabili a quelli individuabili per gli operatori degli impianti di trattamento di acque reflue con tecnologie tradizionali”.
Se le acque reflue possono contenere, in generale, “un gran numero di sostanze chimiche potenzialmente pericolose”, gli operatori degli impianti di trattamento “possono essere esposti a solfuro di idrogeno, metano, monossido di carbonio, cloroformio e altre sostanze generate nelle fasi di trattamento”.
In particolare, le modalità di esposizione prevalenti “sono di tipo cutaneo ed inalatorio mentre più improbabile anche se non impossibile risulta essere l’ingestione”.
Inoltre le principali fasi dei processi cui è associata una potenziale esposizione ad agenti chimici possono essere “lo scaricamento da mezzi di trasporto, il rifornimento di serbatoi e cisterne e il campionamento di rifiuti liquidi”.
E “in associazione a tali impianti sono rilevabili condizioni di:
- esposizione cronica per inalazione o ingestione di sostanze chimiche utilizzate nel trattamento delle acque reflue (agenti ossidanti quali cloro, biossido di cloro, ipoclorito, ozono, acidi e alcali forti, coadiuvanti di sedimentazione o flottazione);
- dermatosi causate dall'esposizione della pelle ad acque di scarico, a formulazioni detergenti, a soluzioni acide e alcaline, ecc.;
- irritazione delle membrane mucose (in particolare del tratto respiratorio) da vapori o aerosol acidi o alcalini, da solfuro di idrogeno e altre sostanze (ILO; 2020).
Si sottolinea poi che infortuni di tipo chimico “possono verificarsi per avvelenamento acuto causato da varie sostanze chimiche presenti nei rifiuti, usate come reagenti (per esempio, cloro gassoso) o rilasciati durante il trattamento; un pericolo particolare è causato dal possibile rilascio di una serie di gas velenosi, per esempio acido cianidrico (dalla placcatura dei metalli o dal trattamento dei rifiuti per acidificazione), idrogeno solforato, ecc. Tra i possibili infortuni vanno segnalate anche le ustioni chimiche causate da liquidi corrosivi”.
Si indica poi che gli impianti di trattamento delle acque reflue sono stati studiati tramite l’impiego delle tecniche dell’analisi di rischio e che il metodo semiquantitativo HIRA (Hazard Identification and Risk Assessment) “è stato applicato a tali impianti con la finalità di individuarne i pericoli e la probabilità, frequenza e gravità associate al fine di valutarne le conseguenze avverse (comprese le potenziali perdite e lesioni) e stabilire una scala di priorità degli interventi di gestione del rischio da mettere in campo”.
Ad esempio uno studio condotto in impianti di trattamento di acque reflue ha “condotto alla identificazione di 22 rischi potenziali dei processi in essi condotti”. E in questo studio si è rilevato che “costituiscono condizioni di rischio estreme, oltre ai corto circuiti elettrici, solo le perdite di cloro e gli incendi cui possono essere imputati veri disastri industriali con gravi impatti sulla vita umana e sull'ambiente. Condizioni di rischio elevato si riscontrano anche nell’esposizione ad H2SO4 per effetto di anomalie di funzionamento dei relativi sistemi di stoccaggio e di dosaggio (Falakh e Setiani, 2018)”.
Sono riportati gli esiti di vari altri studi sui rischi prioritari e si segnala che “la prevenzione dei rischi connessi all’impiego di sostanze chimiche negli impianti di trattamento delle acque reflue richiede, in via preliminare, un inventario delle sostanze pericolose impiegate e la valutazione degli impatti sulla salute e sulla sicurezza degli operatori, cui segue necessariamente lo sviluppo e l’implementazione di un programma di monitoraggio (Dejan et al., 2018)”.
E tra le misure di prevenzione più efficaci al fine del contenimento dell’esposizione professionale ad agenti chimici nel settore del trattamento delle acque reflue “vi sono: la predisposizione e la manutenzione dei sistemi di controllo della ventilazione, l’etichettatura delle tubazioni, l’assicurazione che i lavoratori e la direzione (e i supervisori) comprendano i rischi attraverso l'educazione sui pericoli, l'importanza di seguire pratiche di lavoro sicure e misure igieniche appropriate, la predisposizione di procedure scritte di lavoro per eliminare o ridurre al minimo il rischio di esposizione e per affrontare le procedure di emergenza e di pulizia in caso di fuoriuscita o rilascio accidentale di un agente chimico, l’utilizzo di idonei dispositivi di protezione individuale comprendenti tute e guanti repellenti ai liquidi, stivali, occhiali, respiratori e schermi per occhi/viso a prova di schizzi. Nel caso si rendano necessari i respiratori, un programma completo di addestramento all’uso deve includere test di adattamento del respiratore”.
Mentre ulteriori misure comprendono: “la captazione, aspirazione, depurazione e ricambio adeguato dell’aria inquinata, l’aspirazione da posizione sicura o filtrazione dell’aria immessa nei locali di riposo, la compartimentazione delle aree polverose e la separazione degli uffici amministrativi, l’utilizzo di sistemi di segregazione e contenimento nelle zone di stoccaggio dei prodotti chimici impiegati nelle fasi del processo, la pulizia degli ambienti “ad umido” e/o con aspirazione (Inail-Contarp, 2009)”.
Rimandiamo alla lettura integrale del documento che nel capitolo riporta molti altri dettagli sui rischi e negli altri capitoli si sofferma su altri rischi come i rischi sanitari-ambientali e il biohazard occupazionale.
RTM
Scarica il documento da cui è tratto l'articolo:
Inail - Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti e insediamenti antropici - “ Salute e sicurezza nelle biotecnologie industriali. Monitoraggio e valutazione degli impatti di bioraffinerie microalgali”, a cura di Biancamaria Pietrangeli, Roberto Lauri e Mara Stefanelli (Inail, Settore Ricerca DIT), Emma Incocciati (Inail, CTSS), Fabrizio Adani, Elisa Clagnan, Giuliana D’Imporzano e Marta Dell’Orto (Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze agrarie, Agroenergia - Gruppo RICICLA) e Anna Risuglia (Sapienza, Università di Roma, Dipartimento Chimica e Tecnologie del Farmaco), Collana Salute e Sicurezza, edizione 2023 (formato PDF, 17.17 MB).
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