La percezione del rischio contagio nell’industria e l’organizzazione del lavoro
Il tema della percezione del rischio, ovvero di un rischio effettivamente in atto o che può attivarsi senza preavviso, è uno degli argomenti più rilevanti per la prevenzione di tutti gli infortuni e di molte malattie (quelle a causa “esogena” quali contagi, malattie derivanti dalla alimentazione ecc.). Non è affatto una novità bensì un fenomeno che si studia da quasi cento anni; vale sul lavoro, vale nel resto della vita.
Pare, detto da un non specialista, che si tratti di un istinto di difesa per evitare che un senso di continuo terrore paralizzi le nostre decisioni. Ed era pure necessaria, questa difesa, in secoli non tanto lontani (pensiamo a certi momenti del medio evo), quando nessuno mai poteva sentirsi davvero sicuro.
Non bisogna poi confondere la sottovalutazione del rischio col “coraggio” che invece rappresenta la cosciente presa in carico di un rischio noto al fine di preservare o raggiungere un bene maggiore per la comunità.
Il caso particolare del contagio
Naturalmente la percezione del rischio e le relative contromisure devono, prima di tutto, essere commisurate alla gravità delle eventuali conseguenze della esposizione al rischio. Per questo la attuale pandemia ha riacceso il focus generale sulle malattie, per una serie di ragioni che la distinguono dalla “solita influenza” per un verso, e dallo sviluppo di un tumore per un altro verso.
Non voglio fare politica, io mi occupo di sicurezza industriale; mi limito a due affermazioni asettiche: pare evidente che il contagio possa essere evitato (almeno in linea teorica, se non dovessimo tenere in considerazione le controindicazioni del le misure da adottare); è evidente che la comunicazione, a livello globale, è stata così confusa e contraddittoria che noi persone normali (non specialisti) non possiamo che avere le idee confuse. Per giunta parliamo di qualcosa che i nostri sensi non possono percepire, quindi non possiamo mai avere certezze sulla effettiva presenza del rischio. Viaggiare in mezzo alla nebbia è una delle condizioni che più ostacolano il ragionamento razionale e spingono a scelte non realmente motivate.
Dentro l’industria
Si può legittimamente affermare che il virus è un rischio esogeno; quindi sarebbe corretto dire che una volta che il datore di lavoro ha rispettato quanto impartitogli dal governo, dovrebbe considerare concluso il suo compito.
In realtà la specificità di ogni contesto industriale crea perturbazioni a questo mondo preciso e ripetibile. E quindi già dall’aspetto meramente tecnico / organizzativo è il datore di lavoro che si deve fare carico della scelta delle migliori misure di prevenzione o protezione dal contagio. Ora e anche in futuro, visto che un rischio del tutto ignoto e mai manifestatosi nel nostro paese è divenuto un rischio palese.
Quello che si poteva fare nell’urgenza è stato fatto con coscienza, ritengo, ma sicuramente ci saranno stati degli errori. Come dicevo altrove dobbiamo pensare a eventuali future pandemie visto che l’interconnessione globale e la conseguente mobilità delle persone non permettono, al momento, misure certe per bloccare una epidemia locale evitando che si trasformi in pandemia. Probabilmente chi si occupa di questo aspetto arriverà a soluzioni migliorative che permettano di controllare con più efficacia la diffusione. In fondo è stata la prima volta per tutti e mi sento di affermare che all’inizio nessuno ci capiva nulla.
Tornando alle aziende: le misure tecniche e le disposizioni organizzative consentono, unite a una informazione capillare, di ottenere ottimi risultati nelle situazioni standard, cioè quelle condizioni di produzione, per esempio, che si ripetono quasi uguali tutti i giorni. Come sempre nella antiinfortunistica è la situazione anomala quella che abbatte i presidi di prevenzione e protezione. Sono le situazioni che, inevitabilmente, il datore di lavoro non ha potuto sottoporre ad una valutazione puntuale che gli consentisse di prevedere e realizzare / ordinare precise regole di prevenzione. Nella mia personale esperienza situazioni di questo genere si manifestano per esempio nella manutenzione (urgente) su guasto.
È evidente che tante altre sono le situazioni inaspettate e mai “provate”, si pensi solo alla gestione delle emergenze “tradizionali” che molto spesso accendono comportamenti pienamente contro deduttivi.
Però voglio restare con un esempio sulla manutenzione; il caso si è verificato nel 2019, lo racconto brevemente e poi cerco di rileggerlo alla luce della situazione attuale. Entrando in reparto lo vedo mezzo vuoto: mancano il capo reparto, il capo turno e almeno tre manutentori. Che succede? Si è rotta la “reggiatrice” (collo di bottiglia della azienda per motivi storici inesplicabili) e se non riparte fra due ore dobbiamo fermare la produzione. Vado in magazzino dove trovo un vero e proprio assembramento di persone (ci sono quelli detti ma anche il capo delle spedizioni, l’ASPP e il planner), tutti a cercare di capire cosa è successo, come rimediare nel minor tempo possibile naturalmente evitando che il problema si ripeta di lì a pochi minuti. Poi, durante la parziale fermata del fine settimana si procederà a una manutenzione seria.
La situazione descritta è già critica: nella foga di fare presto e bene i manutentori possono esporsi a rischi meccanici che non percepiscono correttamente. Per giunta, con tante persone presenti, la linea di comando è completamente saltata e dunque sono facilissimi fraintendimenti potenzialmente pericolosi. Se inseriamo in questo contesto il tema contagio … è evidente che non si può sperare nel distanziamento quindi si dovrebbe dare per scontata la necessità di indossare la mascherina e gli occhiali. Elementi che rendono difficile il lavoro in spazi angusti (davvero non se li levano per lavorare meglio?). Per quanto riguarda la protezione delle mani il problema non si pone in quanto tutti coloro che operano su organi meccanici si proteggono da tagli, abrasioni ecc. con dispositivi assolutamente impermeabili al virus (bisognerebbe poi vedere cosa ne fanno di questi guanti dopo l’uso …).
È evidente che quanto a me balza agli occhi per la manutenzione vale per altre situazioni aziendali e non. Ma vorrei utilizzare la manutenzione come esempio per cercare di capire come si potrebbe tentare di migliorare la percezione del rischio, pur sapendo quanto sia difficile.
Educare tutti o privilegiare alcune categorie?
È ovvio che la capacità di riconoscere e gestire i rischi è una abilità utile a tutti, lavoratori e non. E quindi restringendo il campo è utile a tutti i lavoratori.
I concetti sono facili da spiegare ed apprendere e dunque è più che giusto che tutti siano coinvolti in una formazione di base che faccia ampio uso di esempi ed esercitazioni per stimolare le parti del nostro intelletto coinvolte. Purtroppo, il tempo è tiranno, come si suol dire; è altresì evidente che esistono alcune categorie di lavoratori che hanno maggiori probabilità di trovarsi a gestire, senza l’aiuto immediato della struttura sicurezza aziendale, situazioni quasi del tutto impreviste. È su di loro che concentrerei le risorse formative destinate a un approfondimento.
A mio avviso esistono due aspetti da curare; li dico in senso inverso al percorso logico che si deve sviluppare in campo, perché dal punto di vista formativo / addestrativo credo che sia questa la migliore sequenza da seguire, ovvero concentrare l’attenzione su:
- Capire che ad un pericolo (già individuato dal lavoratore stesso o da un preposto) è associato un rischio così significativo da obbligare ad adottare specifiche misure di controllo.
- Identificare i pericoli ignoti derivanti da situazioni di lavoro specifiche e poco conosciute.
Come formare davvero?
Il problema resta comunque il modo di formare, sempre che questo sia il termine giusto. Trasferire conoscenze è relativamente facile, qui purtroppo si parla di sensibilità e competenze. Le polemiche sulle misure anti COVID adottate nel tempo sono sicuramente un buon indice della diversa sensibilità individuale al rischio, anche da parte di chi non ha interessi specifici da tutelare (sia chiaro che non è questo il contesto per prendere posizione).
Tanti sostengono che la formazione (diciamo teorica) e un breve addestramento ottengono dei buoni risultati; personalmente l’esperienza mi dice il contrario in modo consistente. Anche perché i dati INAIL sugli infortuni sul lavoro confermano che in una larga maggioranza dei casi fra le con-cause degli infortuni c’è qualche forma di imprudenza dei lavoratori (questo ovviamente non assolve i soggetti che hanno permesso l’esistenza delle altre con-cause).
Vorrei osservare anche che affermazioni riguardanti altri paesi e altre culture (giapponese, scandinava, tedesca ecc.) hanno poco senso: per evitare quasi totalmente i rischi associati alle situazioni anomale o impreviste è chiaro che basta fermarsi e non affrontarle, secondo un assunto di principio che ha effetto (non lo vorrei definire positivo) in alcuni contesti culturali e che risponde alla seguente descrizione: ogni mansione lavorativa ha la sua job description sulla cui base il datore di lavoro (o chi per lui) identifica i pericoli, valuta i rischi residui e impone le adeguate misure di contenimento; nessuno può operare al di fuori della propria job description. Ho buona esperienza del modo di lavorare che si attua in gran parte dei paesi europei e posso sostenere che in alcuni funziona proprio così; con evidenti riduzioni degli indici infortunistici (quelli veri, avendo previamente depurato i dati dalle storture di computo nazionali, e in particolare della questione delle restricted work conditions).
Torniamo alla situazione nazionale: ammettiamo di avere trasferito ai destinatari tutte le conoscenze necessarie per identificare i pericoli – valutare (sommariamente) i rischi – identificare le misure di controllo da adottare; non è, ovviamente, essenziale la numerologia tipica del documento di valutazione dei rischi ma solo qualche concetto fondamentale. Supponiamo anche di avere avuto un discreto successo nel convincere, almeno dal punto di vista intellettuale, della necessità della attività di cui stiamo dicendo. A questo punto si rende necessario un vero e proprio tutoraggio sul campo di durata non trascurabile, nel senso che la numerosità dei casi anomali non è alta e quindi, per coinvolgere anche solo una parte della popolazione aziendale, è necessario che qualcuno dedichi del tempo a girare nell’azienda, considerando con gli interessati le situazioni che si vengono a presentare in modo da ripercorrere congiuntamente il percorso logico di cui abbiamo parlato.
L’esperienza mi dice che il metodo funziona quasi sempre, si ottiene la acquisizione delle competenze, è più difficile raggiungere uniformità sulla sensibilità individuale (ovvero sulla “disponibilità” ad esporsi ai rischi).
Naturalmente c’è da chiedersi come risolvere la questione dell’affiancamento ai trasfertisti che operano lontani dal perimetro aziendale, spesso in piccole squadre. Lascio in sospeso il tema.
Torniamo al caso specifico del contagio
Sul contagio dobbiamo spendere un ragionamento specifico: il primo riguarda una migliore conoscenza dei metodi NOTI di trasmissione del contagio e della loro estensione. Evidentemente se gli scienziati ancora discutono non tutto sarà così ben noto. Sappiamo per certo che si trasmette per via aerea per almeno un metro, ovviamente in assenza di ostacoli (incluse le mascherine ma non solo) o di condizioni particolari che comunque difficilmente sapremmo valutare (vento negli spazi aperti?). quindi è chiara l’importanza del distanziamento o della completa separazione (ci parliamo attraverso un “vetro”). Quale distanziamento, io risponderei: il massimo possibile e sempre oltre i limiti MINIMI indicati [1] (questo ultimo è un concetto mai ben veicolato ai cittadini).
Nella gran parte dei casi spetterebbe al datore di lavoro la definizione concreta di modi di lavoro adeguati a mantenere comunque (indipendentemente dalle mascherine) tale distanziamento. In verità è un tipico lavoro da “tempi e metodi” che richiederebbe, per essere fatto bene, davvero tanto tempo.
Per la completa separazione il problema non si pone; il virus contagioso si ferma inevitabilmente contro il setto di separazione, ma… la separazione deve essere completa! Non uno schermo che divide in due una scrivania o un tavolo, schermo dotato di una altezza tale che quando mi alzo in piedi sono più alto dello schermo stesso [2].
C’è poi la questione delle mascherine. Premesso che in azienda le renderei obbligatorie per tutti coloro che non indossano DPI con caratteristiche ancora migliori, credo che sia a tutti evidente il fatto mai smentito che le mascherine riducono la probabilità di emissione del virus (in uscita) ma proteggono sino a un certo punto chi le indossa. Comunque, se tutti le indossano, anche in caso di mancato rispetto della distanza di sicurezza, e anche in generale, dovrebbero ridurre la probabilità di contagio (o meglio la probabilità di presenza del virus nell’aria), e questo è un fattore positivo a prescindere.
Quindi, stabilito che tutti indossano le mascherine, che tutti sanno che le mascherine sono utili ma non garantiscono sicurezza, la capacità da sviluppare è quella di riconoscere le situazioni impreviste in cui la distanza di sicurezza MINIMA potrebbe essere violata, e a quel punto di sapere trovare misure e modi di lavoro alternativi che evitino questa condizione.
Se parliamo di manutenzione ciò farebbe parte della fase di progettazione del lavoro, che per i lavori elettrici è strettamente normata, mentre per gli altri lavori di manutenzione e affini è quanto meno suggerita. Il concetto si può estendere anche ad altri lavori non abituali diversi dalla manutenzione o dai lavori elettrici in genere.
È un presupposto, quello della VERA progettazione del lavoro, che molto spesso non viene applicato con alcune debite eccezioni (aziende elettriche, aziende che usano sistematicamente il permesso di lavoro, fra cui praticamente tutte le multinazionali di cultura anglosassone). Questo per un motivo in verità legato all’iper perfezionismo delle norme piuttosto che alla volontà dei singoli. La progettazione (dei lavori complessi o non ripetitivi) richiede du fatto la presenza di un preposto che conosce bene il contesto, e quindi può portare a ingolfamenti organizzativi non da poco.
È forse il caso, tornando al tema contagio, di formare e affiancare prima i preposti, ma poi tutti coloro che possono inaspettatamente trovarsi esposti al contagio devono avere la capacità di capire e reagire. Siccome le risorse per l’affiancamento sono, gioco forza, poche, proporrei una sequenza del genere (per il tutoraggio, intendo, dando per acquisita la formazione e l’addestramento che valgono per tutti):
- Prima di tutto i preposti che devono gestire anche attività non ordinarie
- Poi i rispettivi lavoratori
- Ancora dopo i preposti in genere
- Infinse, se concretamente possibile, i lavoratori tutti.
Privilegiare la consapevolezza riguardo al contagio
Facendo un paio di conti, considerando che gli infortuni mortali si attestavano, prima del covid, fra i mille e i duemila all’anno, pensando che i morti o i malati gravi con conseguenze permanenti contagiati dal covid sul posto di lavoro potrebbero essere di più (fra l’altro contagiando a loro volta persone più deboli), direi, senza oltre approfondire, che “capire il covid” sarebbe la cosa più importante per prendere decisioni consapevoli e a basso rischio. Questo avrebbe anche il vantaggio di fare “filtrare” cultura fuori dai posti di lavoro con evidente vantaggio per la società.
Conclusioni
Spero tanto che questo virus si ridimensioni e che si arrivi ad un vero vaccino in tempi brevi; se così non sarà non ci resta che dire che siamo solo all’inizio. Fare funzionare il mondo con il covid pesantemente attivo come oggi richiederà molte più conoscenze di quelle che abbiamo oggi, e anche qualche forma di allineamento del mondo scientifico; altrimenti le indicazioni contrastanti porteranno certo qualcuno a commettere, in perfetta buona fede, errori gravissimi. Come dire: sperare per il bene ma prepararsi al peggio, e a questo prepararsi ho cercato con questo articolo di dare un piccolo contributo.
Alessandro Mazzeranghi
[1] Al di là delle discussioni ancora ampiamente in atto su quale sia il corretto valore minimo (mi pare comunque si resti in un ambito circoscritto agli 1 – 2 metri), è ovvio che non esiste ancora una base statistica sufficiente a tracciare una curva (decrescente) di probabilità riguardo alla presenza di virus contagianti nell’aria mano a mano che ci si allontana da una persona infetta. Che la curva sia decrescente è una certezza (ha a che vedere anche con la diluizione oltre che col tempo di sopravvivenza del virus nell’aria, altro argomento delicato e non ancora sufficientemente studiato).
[2] Per inciso: nessuno ha mai detto che il virus si propaghi secondo una traiettoria rettilinea, e tanto meno orizzontale. Quanti ne sanno tenere conto agendo di conseguenza?
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