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Operazioni di travaso di sostanze di vari tipi e infortuni: sentenze

Operazioni di travaso di sostanze di vari tipi e infortuni: sentenze
Anna Guardavilla

Autore: Anna Guardavilla

Categoria: Sentenze commentate

08/06/2023

Le ustioni causate da una manichetta bucata e una tuta inidonea nel travaso di acido nitrico, l’incendio seguìto al travaso di vernice da una cisterna su un carrello elevatore, l’operaio precipitato da un silos: pronunce di Cassazione.

Procediamo come di consueto, nell’analisi delle pronunce di Cassazione Penale, dalle sentenze più recenti alle più risalenti.

 

Ustioni subite da un lavoratore che travasava acido nitrico con una manichetta bucata e che indossava una tuta inidonea a proteggerlo dalla corrosione: responsabilità del datore di lavoro

 

Con Cassazione Penale, Sez.IV, 8 febbraio 2022 n.4450, la Corte ha confermato la responsabilità di F.F. - quale datore di lavoro della U. s.r.l. - per il reato di lesioni personali colpose gravi per avere, “consentendo ai dipendenti l’utilizzo di manichette per il travaso dell’acido nitrico alla concentrazione del 65%, pericolose perché prive dei necessari requisiti di resistenza chimica nei confronti dell’aggressività dell’acido ed in assenza di misure che ne garantissero il buono stato di conservazione, cagionato all’operaio J.P. - intento a riempire dei fusti mediante una manichetta di travaso che si rivelava bucata - lesioni personali (causticazione arto inferiore sx ed in piccola parte anche all’addome) della durata di oltre 40 giorni di malattia, dovute alle ustioni riportate dal predetto operaio a seguito del contatto con l’acido nitrico - con l’aggravante di avere commesso il fatto con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni”.

 

Nell’ambito degli accertamenti di merito, la Corte d’Appello (che aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti del F.F. per intervenuta prescrizione e aveva confermato le statuizioni civili), aveva ricostruito i fatti nel modo che segue.

 

In particolare, “lo J.P. e il suo collega B.A. erano intenti a travasare acido nitrico, in assenza di apposite cautele, quando vedevano fuoriuscire dalla manichetta di plastica, che era bucata, detto liquido, che attingeva entrambi, quanto alla persona offesa ustionandola sulla gamba e sull’addome, in quanto indossava un indumento inidoneo a proteggerlo dall’effetto corrosivo dell’acido e, diversamente dal collega, non provvedeva tempestivamente a detergere le parti nude del corpo interessate dalla contaminazione e a togliere la tuta. C.F., autista che assisteva all’incidente, e il B.A., anch’esso infortunato, confermavano tali circostanze.”

 

La sentenza precisa che “l’isp. … dello Spisal evidenziava le seguenti problematiche: a) l’esigenza di un esame tecnico trimestrale (e non semestrale come previsto dal datore di lavoro) della resistenza del materiale di composizione delle manichette all’effetto corrosivo dell’acido nitrico, al fine da poterle sostituire prima di cagionare danni (quali quelli verificatisi); b) la non resistenza all’acido nitrico delle manichette usate - in materiale resinoso siglato EPR - come emergente dalle tabelle allegate al prodotto dal fabbricante; c) l’omesso uso di una tuta resistente all’aggressione appartenente alla terza categoria da parte della persona offesa, più protettiva di quella di seconda categoria indossata dal lavoratore.”

 

Inoltre, “a suo avviso, la qualificazione con indice 2 delle manichette non costituiva proprio la soluzione ottimale; a differenza della tuta indossata di seconda categoria, quella di terza categoria avrebbe potuto essere resistente rispetto ad un travaso di acido con una concentrazione pari a 65%. Precisava altresì che l’azienda aveva già a disposizione tale indumento di terza categoria, adottato per il travaso dell’acido fluoridico; conseguentemente aveva ritenuto di prescrivere anche per l’attività di travaso dell’acido nitrico a concentrazione pari a 65% la tipologia di indumenti di terza categoria”.

 

Dunque, “secondo la Corte territoriale, stante l’utilizzazione di uno strumento di lavoro, che non garantiva in maniera assoluta la sicurezza del travaso, proprio in relazione all’elevatissima concentrazione dell’acido nitrico versato, il F.F. avrebbe dovuto fornire dei mezzi di protezione individuali adeguati.

Sul datore di lavoro, infatti, grava l’obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i dipendenti che debbano utilizzare macchinari sofisticati e di adottare tutti i più moderni strumenti offerti dalla tecnologia, al fine di garantire la sicurezza dei medesimi, sempre che il pericolo sia riconoscibile con l’ordinaria diligenza”.

 

Per quanto riguarda infine la condotta dell’infortunato, “è stata esclusa la rilevanza del comportamento dello J.P., che, in quanto “spaventato”, non aveva dismesso immediatamente gli abiti intrisi di acido e non aveva provveduto ad un lavaggio ed alle cure adeguate, a differenza del compagno di lavoro che, grazie a tali precauzioni, non aveva riportato lesioni (i testi B.A. e C.F. riferivano che l’infortunato si era lavato con la tuta addosso). Il J.P. comunque si era recato in bagno nell’immediatezza e si era cambiato.”

 

In conclusione, “nella fattispecie, pertanto, correttamente, la formazione e l’informazione del lavoratore sono state ritenute insufficienti ad esonerare il datore di lavoro dalla responsabilità.”

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Decesso di un lavoratore precipitato da un silos mentre travasava vino nel capannone di una cantina vinicola a fronte di un indicatore di livello guasto: condanna del datore di lavoro per non aver realizzato una scala fissa ancorata al silos

 

Con Cassazione Penale, Sez.IV, 18 gennaio 2019 n.2316, la Corte ha confermato la condanna per omicidio colposo di F.R.V., quale datore di lavoro della Società Cooperativa Agricola del G. a rl., per aver cagionato la morte dell’operaio A.Z. il quale decedeva mentre era “intento a travasare del vino da un silos in acciaio di maggiore capienza ad uno di minore capacità” presso il capannone della cantina vinicola, unitamente ad un altro operaio.

 

Nello specifico, “la dinamica del fatto è stata così ricostruita: l’operazione di travaso, che sarebbe durata un’ora circa e che si svolgeva mediante un sistema di pompe posizionate nella parte bassa dei silos, doveva essere monitorata; normalmente il monitoraggio avveniva mediante l’osservazione di un indicatore di livello, che il giorno dell’incidente era guasto, per cui si sarebbe dovuto procedere osservando direttamente il livello raggiunto dal vino mediante l’apertura di un bocchettone collocato a distanza compresa tra i 20 ed i 50 centimetri dalla sommità.”

 

Così “i due lavoratori si erano alternati nel salire sulla scala per raggiungere il bocchettone del silos; al secondo turno di salita dello A.Z., il collega gli aveva suggerito di non salire sulla scala finché egli non fosse tornato da un breve allontanamento per dissetarsi, ma il lavoratore era salito sulla scala in ferro che era solo appoggiata, ma non assicurata, al silos ed aveva posto un piede sulla sommità del serbatoio per sporgersi; così facendo, aveva perso l’equilibrio ed era rovinato al suolo unitamente alla scala, riportando lesioni gravissime che il … 2012 lo avevano condotto a morte.”

 

Per quanto riguarda gli addebiti, “all’imputato F.R.V. era contestato: a) di aver omesso di realizzare, quale misura di prevenzione e protezione collettiva, una passerella all’altezza delle sommità del silos, alta circa tre metri, tale da consentire di sollevare il boccaporto superiore dei silos e verificare la quantità di vino contenuto; b) di aver omesso di realizzare una scala fissa ancorata ai silos; c) di aver omesso di fornire al lavoratore una scala adeguatamente ancorata e/o di verificare che la stessa fosse trattenuta al piede da altra persona.”

 

Nel confermare l’impostazione della sentenza impugnata e rigettare il ricorso, la Cassazione ha ricordato che la Corte d’Appello ha “richiamato la correttezza degli addebiti mossi all’imputato, a seguito degli accertamenti eseguiti nella cantina vinicola nell’immediatezza dell’infortunio, ponendo particolare attenzione, in replica alle censure dell’appellante, al tema della sussumibilità  del fatto nell’ambito della disciplina prevenzionistica dettata per i lavori in quota ed alla natura intrinsecamente pericolosa dell’operazione svolta dal lavoratore e confermando la necessità, già riconosciuta in primo grado, che la scala fornita al lavoratore fosse saldamente ancorata al silos.”

 

Decesso di un lavoratore e ustioni di tre lavoratori a causa di un incendio nel reparto di laccatura a seguito del travaso di vernice da una cisterna sospesa sulle forche di un carrello elevatore non antideflagrante: condanna del DG e del Direttore di stabilimento

 

Concludiamo questa disamina, che - come sempre - non ha la pretesa di essere esaustiva sull’argomento, con una sintesi di Cassazione Penale, Sez.IV, 16 maggio 2016 n.20129, con cui la Corte ha confermato la condanna di S.G., quale Direttore Generale della divisione alluminio della C. I. A. s.p.a. e di F.L., quale Direttore Responsabile dello stabilimento di …, per l’omicidio colposo ai danni del dipendente I.A.M.M. e per le lesioni colpose subite dai dipendenti B.H., B.M. e B.C.

 

Nello specifico, “secondo i giudici di merito la morte dell’operaio era avvenuta durante le operazioni di travaso di preparati pericolosi e altamente infiammabili, effettuate nel reparto laccatura del citato stabilimento.”

 

Secondo quanto accertato, “era accaduto che da una cisterna sospesa sulle forche di un carrello elevatore non antideflagrante era fuoriuscita una cospicua quantità di vernice per la rottura della valvola di scarico che andava collegata ad un tubo per il travaso; la vernice aveva investito prima l’I.A.M.M.  e poi gli altri dipendenti intervenuti in suo aiuto”.

 

Così, “a un certo punto, dopo che il B.H. si era allontanato perché completamente ricoperto di vernice, tutti gli altri avevano deciso di spostare il carrello con il suo carico per poter raccogliere l’ulteriore sversamento di vernice in altro contenitore poggiato a terra nelle vicinanze; questo movimento, data la presenza di vapori depositatisi a terra per lo spandimento della vernice, aveva innescato un incendio di grandi proporzioni dovuto alla presenza all’interno dello stabilimento anche di altre sostanze infiammabili; tutti gli operai avevano subito gravi ustioni e l’I.A.M.M., investito dalle fiamme sul 90% del corpo, non era riuscito a salvarsi.”

 

I Giudici avevano accertato dunque che “la valvola della cisterna da 1000 litri a cui l’I.A.M.M. aveva attaccato il raccordo si era dissaldata dalla sua sede facendo fuoriuscire la vernice che per l’elevata pressione era defluita velocemente”.

 

Di conseguenza “i vapori di butanone, presente in elevata quantità nella vernice fuoriuscita dalla cisterna, non essendo volatili ma più pesanti dell’aria, si erano diffusi lungo tutto il pavimento, creando intorno alla pozza di vernice un’atmosfera esplosiva” e “all’accensione del motore del carrello si era quindi sprigionata una scintilla che aveva incendiato la nube esplosiva causata dalla evaporazione del solvente contenuto nella vernice. Il muletto utilizzato per le operazioni di travaso della vernice non era, infatti, antideflagrante ed aveva fatto da innesco all’incendio.”

 

In termini di addebiti, “agli imputati veniva contestata una colpa generica e l’inosservanza della normativa prevenzionale, per aver consentito che tali pericolose operazioni di travaso avvenissero: senza una adeguata valutazione dei rischi conseguenti ad un eventuale sversamento dei preparati, altamente infiammabili; senza l’adozione di adeguate procedure da seguire in caso di notevoli sversamenti di prodotti, essendo stati gli operai dotati di semplici “kit di raccolta sversamenti”, costituiti da stracci e pochi chili di materiale assorbente, idonei ad arginare piccole perdite; senza il necessario impiego di carrelli elevatori antideflagranti, presenti nei diversi reparti in numero di appena due su otto; senza la predisposizione di adeguati processi lavorativi, l’adozione di idonee misure organizzative e di protezione collettiva, nonostante analoghi incidenti e incendi, sia pure di minore portata, verificatisi in passato.”

 

Il Documento di Valutazione dei Rischi, “formato nel 2005 ed integrato da successive schede di prevenzione, non era dunque adeguato perché, pur prevedendo il rischio da sversamento di vernice nulla diceva in merito ai grandi sversamenti, manifestando così una evidente carenza sotto il profilo delle misure preventive da adottare.”

 

La sentenza specifica infine che, secondo lo SPRESAL, “l’unica misura adeguata da adottare al fine di evitare i pericoli insiti in un grande sversamento era la previsione di una particolare procedura comportamentale articolata in più fasi: contenere il dilagare della sostanza, allontanarsi dalla zona pericolosa, evitare qualsiasi tipo di innesco ed allertare il responsabile per la sicurezza.”

 

Ma “di tale procedura non vi era traccia alcuna e sul punto, il caposquadra B.C., aveva riferito che non era mai stato istruito su come affrontare sversamenti di proporzioni simili a quello accaduto e che non sapeva come comportarsi.”

 

 

Anna Guardavilla

Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro

 

 

 

Scarica le sentenze di riferimento:

Corte di Cassazione Penale, Sez. 4 – Sentenza n. 4450 del 08 febbraio 2022 - Ustioni durante il travaso dell'acido nitrico. Omesso periodico controllo della consistenza delle manichette utilizzate e utilizzazione di una tuta inidonea.

 

Corte di Cassazione Penale, Sez. 4 – Sentenza n. 2316 del 18 gennaio 2019 - Infortunio mortale durante le operazioni di travaso del vino. Responsabilità del datore di lavoro della cantina per l'assenza di adeguate misure di sicurezza.

 

Corte di Cassazione Penale, Sez. 4 – Sentenza n. 20129 del 16 maggio 2016 - Operazioni di travaso di preparati pericolosi e altamente infiammabili: sversamento di notevole quantità di vernice da una cisterna sospesa sulle forche di un carrello elevatore non antideflagrante.






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