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Sottoprodotto: le condizioni sancite dal d. lgs. 152/2006

Sottoprodotto: le condizioni sancite dal d. lgs. 152/2006

Autore: Mara Chilosi e Andrea Martelli

Categoria: Ambiente

07/04/2016

Cosa occorre dimostrare per qualificare un residuo di produzione come “sottoprodotto”? In questa prima parte dell’articolo ci soffermiamo sulle singole condizioni elencate dall’art. 184-bis, d. lgs. 152/2006. Di Mara Chilosi e Andrea Martelli, avvocati.

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1. Premessa
 
Esistono temi, nel pur mutevole mondo del diritto dell’ambiente, che risultano sempre di attualità. Uno di questi è certamente il controverso concetto di “sottoprodotto”. Un concetto che fa discutere, ma che riveste indubbiamente grande importanza, sul piano pratico, dal momento consente di sottrarre la gestione delle sostanze che vi rientrino dal regime dei rifiuti, con evidenti vantaggi in termini di riduzione dei connessi costi e oneri amministrativi.
 
A livello normativo, questo concetto ha trovato una propria “stabilità” grazie alla direttiva 2008/98/CE, che lo ha disciplinato nell’art. 5, ed al suo successivo recepimento nell’ordinamento italiano ad opera del d. lgs. 205/2010, che lo ha trasfuso nell’art. 184-bis, d. lgs. 152/2006 (noto come “Codice dell’ambiente”).
Da oltre 5 anni, pertanto, esiste nella legislazione ambientale italiana una disposizione avente ad oggetto la nozione e le condizioni del “sottoprodotto”, una disposizione che, peraltro, non ha sinora subito alcuna modifica [ [i]] e, ciò che più conta, riproduce fedelmente il citato art. 5 della direttiva-quadro sui rifiuti.
Questo non ha evitato, tuttavia, che, a causa soprattutto della indeterminatezza di alcune delle condizioni che devono essere rispettate per poter qualificare (e gestire) una determinata sostanza come sottoprodotto, sorgessero alcuni contrasti interpretativi, riscontrabili anche nella giurisprudenza.
 
Non è possibile soffermarsi, in questa sede, su tutte le possibili problematiche connesse all’individuazione ed alla corretta gestione dei sottoprodotti, ma può essere utile prendere spunto da qualche recente sentenza della Corte di Cassazione penale per tentare di rispondere ad alcune delle domande che, nella pratica, gli operatori si pongono più di frequente.
E, a questo proposito, va sottolineato come il tema riguardi non tanto le imprese del settore dei rifiuti, quanto piuttosto le imprese produttive, inevitabilmente meno abituate a confrontarsi con una normativa complessa e insidiosa quale è quella in materia di gestione dei rifiuti, nel cui ambito si colloca - appunto - anche la disciplina dei sottoprodotti.
 
Sempre in via preliminare, va ricordato che era in fase di elaborazione da parte del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare un regolamento che, ai sensi del comma 2 dell’art. 184-bis, d. lgs. 152/2006 , avrebbe dovuto indicare dei criteri finalizzati ad agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come “sottoprodotti” e non come rifiuti. Di questo regolamento, all’incirca un anno fa, era stato diffuso alle associazioni di categoria un primo testo (la cui formulazione, peraltro, destava alcune perplessità), del quale tuttavia s’è persa ogni traccia.
 
 
2. Nozione e condizioni sancite dal d. lgs. 152/2006 per il “sottoprodotto”
 
Può non essere superfluo precisare che il “sottoprodotto” è un “non rifiuto”. E lo è, si potrebbe dire, fin dall’origine, nel senso che il sottoprodotto non diventa mai, neppure temporaneamente, un rifiuto (anzi, una volta scomparsa dal nostro ordinamento - sempre ad opera del d. lgs. 205/2010 - la categoria, tutta italiana, delle “materie prime secondarie fin dall’origine” di cui alla Circolare del Ministero dell’ambiente 28 giugno 1999, prot. n. 3402/V/MIN, la qualifica di sottoprodotto rappresenta l’unica alternativa, per un residuo di un ciclo produttivo, rispetto alla sua qualifica come rifiuto).
La possibilità di beneficiare di questa speciale qualificazione è, però, subordinata al rigoroso rispetto di una serie di condizioni fissate direttamente dalla legge.
La normativa, sul punto, è sufficientemente chiara.
Secondo l’art. 183, comma 1, lett. qq), d. lgs. 152/2006, si intende per “sottoprodotto” «qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all’articolo 184-bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all’articolo 184-bis, comma 2».
E l’art. 184-bis stabilisce, a propria volta, che «è un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni (…)».
Non si tratta, dunque, di condizioni alternative fra loro, ma di condizioni cumulative, nel senso che basta il mancato rispetto di una soltanto di esse per far sì che una sostanza non possa essere qualificata come “sottoprodotto” (ma, appunto,  “rifiuto”).
 
I problemi interpretativi sorgono però non appena ci si addentra nell’esame delle singole condizioni elencate dal comma 1 dell’art. 184-bis, d. lgs. 152/2006.
 
Vediamole brevemente.
 
Prima condizione: «a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto».
 
Questa condizione mira a distinguere il sottoprodotto dal “prodotto” vero e proprio, ossia dal “risultato voluto” - appunto, lo «scopo primario» - del ciclo produttivo. Deve trattarsi, in altre parole, di una conseguenza inevitabile (essenzialmente, lo scarto o il residuo), ma non “ricercata”, di un determinato processo produttivo.
L’economia del presente articolo non consente di soffermarsi ulteriormente sull’argomento, e, in particolare, di intervenire nel (tuttora non sopito) dibattito sulla possibilità di far rientrare in questa categoria, oltre ai sottoprodotti originati da processi di produzione “in senso stretto” (cioè, di produzione di beni), anche quelli derivanti da processi di produzione di servizi, dibattito alimentato anche dalla diversa formulazione della nozione di “sottoprodotto” adottata, rispettivamente, dal d. lgs. 152/2006, dal d. lgs. 4/2008 e, infine, dal già citato d. lgs. 205/2010, e su cui si registrano posizioni diversificate anche in seno alla giurisprudenza (paradigmatico è, in proposito, il caso del fresato d’asfalto).
 
Seconda condizione: «b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi».
 
Questa seconda condizione tradisce l’evidente preoccupazione del legislatore che determinate sostanze, laddove non vengano (giuridicamente) qualificate come “rifiuti”, possano essere gestite al di fuori di qualsiasi forma di controllo e possano, di fatto, essere abbandonate, con evidenti ricadute di tipo ambientale.
Essa impone pertanto al “produttore” del sottoprodotto di assicurare, attraverso elementi oggettivi, che questa sostanza venga utilizzata. Da notare che, diversamente dalla più rigida posizione assunta originariamente dalla Corte di Giustizia CE, la disposizione in esame consente espressamente di utilizzare (o ri-utilizzare) un sottoprodotto come “materia prima” non soltanto nell’ambito del medesimo ciclo produttivo da cui esso proviene (ad esempio, per recuperare residui di sostanze ancora utili al ciclo produttivo e risparmiare così in termini di approvvigionamento di materie prime), ma anche presso un diverso processo di produzione o di utilizzazione gestito da soggetti terzi, il quale può dunque avere caratteristiche e finalità del tutto differenti rispetto a quello di origine.
 
Può essere utile ricordare che la prima definizione di sottoprodotto contenuta nella originaria versione dell’art. 183, d. lgs. 152/2006 stabiliva che, «al fine di garantire un impiego certo del sottoprodotto, deve essere verificata la rispondenza agli standard merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore e deve essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell'impianto dove avviene l’effettivo utilizzo». Benché questi requisiti siano oggi scomparsi dalla definizione di legge (e, è bene precisarlo, non siano previsti nemmeno dalla direttiva del 2008, che costituisce una normativa sopravvenuta al “primo” d. lgs. 152/2006 e comunque destinata a prevalere su quella interna), si tratta, e ben vedere, di suggerimenti pratici ai quali gli operatori possono utilmente far riferimento anche oggi.
 
Terza condizione: «c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale».
 
Questa terza condizione comporta che il sottoprodotto, per essere tale, debba poter essere re-immesso nel medesimo o in un diverso ciclo produttivo:
·       o “tal quale”, cioè direttamente, senza essere sottoposto ad alcun trattamento;
·       oppure, laddove l’utilizzo “diretto” non sia tecnicamente possibile, a seguito di un trattamento rientrante a pieno titolo nella “normale pratica industriale”.
Il concetto di “normale pratica industriale” è certamente uno degli aspetti più controversi della disciplina del sottoprodotto, su cui torneremo nella seconda parte del presente articolo perché sul tema si è pronunciata più volte la Suprema Corte. Ci limitiamo qui a segnalare che un ausilio per poter considerare un determinato trattamento come “normale pratica industriale” può indubbiamente essere fornito da documenti tecnici ufficiali, quali ad esempio le BAT (Best Available Techniques) di settore o le norme UNI, e che, a rigore, non dovrebbero rientrare nella “normale pratica industriale” le trasformazioni preliminari di tipo “recuperatorio”, vale a dire quelle finalizzate a mutare l’identità, le caratteristiche merceologiche e le qualità ambientali di una determinata sostanza (con tutte le difficoltà che, sul piano pratico, evidentemente sussistono nella concreta individuazione di una “linea di demarcazione” tra le une e le altre forme trattamento).
Da segnalare che, a differenza delle precedente definizione contenuta nel d. lgs. 152/2006, non è più richiesto che il (re)impiego del sottoprodotto sia integrale.
 
Quarta condizione: «d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana».
 
Quest’ultima condizione - foriera anch’essa di notevoli dubbi interpretativi, stante la sua formulazione assai scarna (quando non addirittura “sibillina”) - impone, secondo la lettura che appare più ragionevole, la dimostrazione del fatto che l’utilizzo del sottoprodotto da parte del destinatario in alternativa ad una materia prima (per così dire, “vergine”): da un lato, non determini una violazione delle prescrizioni autorizzatorie o dei valori-limite (ad esempio, alle emissioni, o allo scarico); dall’altro, non comporti un peggioramento, sotto il profilo ambientale e sanitario, del ciclo produttivo del destinatario stesso. Si ritiene peraltro che tale valutazione (stante anche il richiamo della legge agli “impatti complessivi”) possa e debba tener conto di tutti i benefici ambientali e sanitari, anche indiretti(si pensi, ad esempio, alla riduzione del traffico veicolare, o al risparmio energetico o, ancora, alla diminuzione del consumo di risorse naturali), conseguenti all’impiego del sottoprodotto in sostituzione di una materia prima.
 
Proprio questa quarta condizione offre lo spunto per ricordare un aspetto che, sulla base della nostra esperienza, appare spesso trascurato dagli operatori, vale a dire che non è ammessa, in termini assoluti, l’esistenza di materiali o sostanze da intendesi sempre esclusi dal regime dei rifiuti (o, il che è lo stesso, sempre riconducibili al concetto di sottoprodotto) [ [ii]]; si tratta, infatti, di una valutazione da compiersi caso per caso, poiché il concetto di sottoprodotto ha, per così dire, natura “relazionale”, e dipende in larga misura, oltre che dalle intrinseche caratteristiche qualitative e merceologiche di una determinata sostanza, dalle specifiche modalità di gestione della stessa, dalle peculiarità del ciclo produttivo da cui proviene e dalle caratteristiche del ciclo di (ri)utilizzo.
 
Nella seconda parte del presente articolo esamineremo alcune pronunce della Corte di Cassazione che hanno affrontato il tema dei “sottoprodotti” e, in particolare, il controverso concetto di “normale pratica industriale”.
 
 
 
Mara Chilosi e Andrea Martelli
avvocati
 
 
 
 


[[i]] Eccezion fatta per l’inserimento del nuovo comma 2-bis da parte dell’art. 41, comma 2, D.L. 69/2013 (convertito, con modificazioni, dalla legge 98/2013), che però riguarda esclusivamente le terre e rocce da scavo.
[[ii]] Emblematico è, questo proposito, il caso delle ceneri di pirite, che erano state espressamente qualificate come “sottoprodotti” e quindi escluse dal regime relativo ai rifiuti dall’art. 183 del d. lgs. 152/2006 (prima delle modifiche apportate dal d. lgs. 4/2008). La Corte Costituzionale bocciò la qualifica “automatica” delle ceneri di pirite come “sottoprodotti”, prevista dal d. lgs. 152/2006 antecedente alla modifica del 2008, in quanto lesiva della “verifica in concreto” richiesta - appunto - dalla giurisprudenza europea. Con sentenza 28 gennaio 2010, n. 28, ha infatti dichiarato illegittimo l’inquadramento delle ceneri di pirite come sottoprodotto, conformemente alla giurisprudenza comunitaria che impone, al fine di qualificare o meno come rifiuto un materiale, un accertamento del «complesso delle circostanze (…) che non si arresti alla mera indicazione della natura intrinseca del materiale» e ritenuto illegittima ogni “presunzione assoluta come quella della norma in questione, che ha qualificato come sottoprodotti le ceneri di pirite «quale che sia la loro provenienza e il trattamento ricevuto da parte del produttore».


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