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Raccontare il lavoro: un’intervista a Marco Rovelli

Redazione

Autore: Redazione

Categoria: Approfondimento

11/12/2009

Autore di diversi reportage narrativi, Marco Rovelli ha raccolto testimonianze e affrontato diversi problemi del mondo del lavoro: il numero elevato di infortuni mortali e le condizioni della forza lavoro clandestina. PuntoSicuro lo ha intervistato.

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Marco Rovelli è uno scrittore che si è affermato per la sua abilità di cogliere e di raccontare alcune realtà del nostro paese.
Dopo “Lager italiani” (Bur-2006), dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), Rovelli si è occupato di mondo del lavoro con “Lavorare uccide” (Bur-2008), un reportage narrativo dedicato al racconto e all’analisi del fenomeno delle morti sul lavoro, e “Servi” (Feltrinelli-2009), un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro.

Come si evince dai titoli dei suoi libri, l’autore non usa mezze parole, non sussurra i problemi che incontra quando fa parlare le vittime di un incidente o fa raccontare i soprusi del caporalato in Italia: li grida a gran voce. Riesce a entrare non in punta di piedi, ma a piedi uniti sui ritardi, sulle responsabilità, senza mancare mai - nella sua narrazione - del rispetto che si deve non solo alle sofferenze, ma anche alla delicatezza dei problemi affrontati.


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In “Lavorare uccide” racconta le morti nei luoghi di lavoro raccogliendo diverse testimonianze e addentrandosi in problemi come le logiche della produzione e del profitto, la frammentazione del mercato del lavoro, il labirinto di appalti e subappalti.

In “Servi” l’autore si è mescolato ai lavoratori stranieri clandestini e si è fatto raccontare storie finora inascoltate. Emergono violenze e soprusi, emerge l’estrema ricattabilità della forza lavoro clandestina, emerge a volte il legame con la malavita locale.

Per conoscere meglio questi mondi narrati abbiamo intervistato l’autore.

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

Qualche parola sul percorso che ti ha portato in questi due anni a occuparti di mondo del lavoro …

Marco Rovelli: Io scrivo libri che non saprei definire meglio se non “narrazioni sociali”. Uso lo strumento delle storie, con tutto ciò che il raccontare storie comporta, per raccontare il mondo. L'ho fatto con Lager italiani, raccontando storie di migranti reclusi nei centri di detenzione (ex Cpt, ora Cie). Dopodiché si trattava per me di raccontare il motivo di questa minorizzazione della categoria dei migranti. E la risposta sta nelle necessità della struttura socio-economica: serve forza-lavoro senza diritti. Facendo quel viaggio che poi ho raccontato nel recente “Servi”, ho incontrato storie di “clandestini” morti sul lavoro, morti invisibili. E allora avevo pensato di scrivere delle morti sul lavoro come terreno esemplare di un processo di erosione costante dei diritti e delle garanzie nel mondo del lavoro.

Spesso le morti sul lavoro vengono troppo spesso archiviate e pensate come risultati di un errore, di una dimenticanza. In “Lavorare uccide”, nel tuo viaggio alla scoperta delle vite nascoste dietro le cosiddette “morti bianche”, traspaiono alcuni fili che uniscono gli incidenti e sembrano spiegarne i motivi profondi … Ce li puoi descrivere?

M.R.: Le morti sul lavoro sono sempre sovradeterminate da cause interne al modello di sviluppo del nostro paese: la frammentazione del processo produttivo e dell'organizzazione del lavoro, la catena infinita di appalti e subappalti, la condizione precaria dei lavoratori e la loro conseguente ricattabilità, l'abbassamento del costo del lavoro, la preminenza abnorme della cosiddetta “microimpresa” nel tessuto produttivo italiano. I salari sono fermi, i profitti crescono enormemente: nel decennio 1995/2006, secondo Mediobanca, le medie e grandi imprese hanno fatto profitti mai così alti nella storia della Repubblica, e hanno esponenzialmente diminuito l'offerta di lavoro. Chi crea lavoro, oggi, sono le piccole e micro imprese, che devono far fronte a margini di profitto sempre più piccoli. Perciò la necessità del lavoro nero, e nerissimo come quello clandestino, e il lavoro in condizioni di insicurezza.

Veniamo al mondo del lavoro sommerso. Quali sono i legami tra il lavoro nero, magari straniero e clandestino, con l’economia nazionale e/o globale?

M.R.: L'Italia ha una specificità abnorme, rispetto all'Europa. L'apporto dell'economia sommersa al Pil italiano è del 17%, laddove la media di questo apporto per il Pil dei paesi dell'Europa avanzata (quella a quindici) è del 4%. E' evidente che un'economia in cui quasi un quinto della ricchezza è prodotta al nero, ha necessità di lavoratori privati di ogni diritto, che non possono reclamare niente, che sono costretti ad accettare ogni condizione.

Nei tuoi racconti spesso traspare rassegnazione: una perdita di potere e di interesse dei lavoratori nel richiedere, laddove insufficiente, maggiore sicurezza sui luoghi di lavoro? Da dove arriva questa rassegnazione?

M.R.: Ci si rassegna perché l'isolamento avanza. Avanza nei luoghi di lavoro, con un'organizzazione del lavoro sempre più frammentata, e una competizione che si scatena tra i lavoratori stessi. Se non emerge un soggetto che ricrei un tessuto di coscienza sociale e politica, non vedo grandi possibilità all'orizzonte per uscire da questo buio.

La diminuzione degli incidenti lavorativi non dipende solo dalla qualità della normativa vigente sulla sicurezza sul lavoro. Dai tuoi incontri emergono altri elementi su cui agire per aumentare consapevolezza e percezione del rischio lavorativo?
 
M.R.:
Dico sempre che è necessario un cambiamento culturale – ma nel senso più ampio del termine “cultura”, dove “cultura” è tutto l'insieme di pratiche materiali che formano l'umano, a partire dal suo essere uomo produttore. Cambiamento culturale, allora, significa prendere coscienza di quelli che sono i meccanismi di un intero sistema sociale ed economico che produce, e io credo non possa non produrre, le sue vittime sacrificali. Si tratta di produrre parole invece, di articolare discorsi che facciano senso di eventi che potrebbero apparire casuali.

Dal tuo libro “Servi” emerge in molti territori anche uno stretto e pericoloso legame tra lavoro nero e delinquenza mafiosa…

M.R.: E' un'eventualità possibile, certo. Il caporalato è una pratica illegale che rendi reale nella misura in cui sottrai una grande massa di persone al mercato del lavoro legale. E il caporalato è una realtà viva, oggi, in tutta Italia, da Milano (pensiamo a quel che succederà per le grandi opere per l'Expo) alle campagne foggiane.

Cosa ti rimane oggi dei viaggi che hai fatto attraverso i tuoi libri? Quale potrebbe o dovrebbe essere lo scenario futuro del mondo del lavoro?

M.R.: Mi restano i volti, i gesti, gli sguardi. E solo ripartendo da quelle singolarità, solo ripartendo dal dare diritti a chi oggi ne è privo, posso immaginare un futuro migliore. Un futuro in cui venga riconosciuto ai lavoratori, italiani e stranieri (e sottolineo quella congiunzione, perché se non la si comprende allora il futuro è quello di una guerra sociale), i diritti che gli spettano.
 
 



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Rispondi Autore: Paolo - likes: 0
11/12/2009 (08:18)
Si tratta di Marco Revelli, figlio del partigiano e scrittore Nuto Revelli?
Rispondi Autore: luigi meroni - likes: 0
11/12/2009 (08:50)
Rovelli mette il dito in una grande piaga. Quella di una grande parte d'Italia che lavora irregolarmente o ai limiti della regolarità. In queste enormi sacche i rischi aumentano in modo esponenziale. I DPI sono opzionali, i turni di lavoro massacranti, la formazione sulla sicurezza inesistente, il semplice parlarsi è già un problema per questioni linguistiche.
Qui gli infortuni sono molto più probabili e rischiosi.
Servirebbe un impegno corale delle istituzioni volto alla legalizzazione di tali sacche, alla lotta all'evasione fiscale, al controllo rigoroso sul territorio. Più che di ausiliari al traffico servirebbero ausiliari per la sicurezza sul lavoro per migliorare l'Italia.

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