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Sulla responsabilità per la mancata applicazione dell’art. 2087 cc.

Sulla responsabilità per la mancata applicazione dell’art. 2087 cc.
Gerardo Porreca

Autore: Gerardo Porreca

Categoria: Sentenze commentate

21/12/2015

Per individuare la responsabilità del datore di lavoro in merito a un infortunio non occorre che l’evento sia legato alla violazione di una norma di sicurezza: basta una mancata applicazione delle misure di cui all’art. 2087 cc. Di G.Porreca.

 
Si esprime la Corte di Cassazione in questa sentenza sui criteri di individuazione della responsabilità di un imprenditore in merito a un infortunio occorso a un lavoratore della cui salute e sicurezza lo stesso è garante. In tema di infortuni sul lavoro, ha sostenuto la suprema Corte, non occorre, per configurare la responsabilità di un datore di lavoro, che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la salute e sicurezza dei lavoratori essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall' art. 2087 del codice civile ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore stesso, con la conseguenza che ricadono sullo stesso datore di lavoro che abbia omesso di adottare tali misure ed accorgimenti anche quei rischi derivanti da cadute accidentali, stanchezza, disattenzione o malori comunque inerenti al tipo di attività che il lavoratore sta svolgendo.

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Il caso, l’iter giudiziario e il ricorso in Cassazione
La Corte di Appello ha riformata, con la riduzione della pena a otto mesi di reclusione, la sentenza di condanna emessa dal Tribunale nei confronti di un datore di lavoro imputato del reato di cui agli artt. 113, 589 secondo comma, cod. pen. in relazione all'art. 2087 cod. civ. per avere, nella sua qualità di titolare dell'impresa, cagionata la morte di un lavoratore per averlo posto a lavorare o per avere permesso che lo stesso lavorasse in piedi su una trave di cemento armato posta ad un'altezza di m 1,47 dal piano del solaio e larga m 0,30, tale da non garantire spostamenti o movimenti agevoli, tanto più che la perdita di equilibrio poteva essere determinata altresì dall'operazione eseguita con le braccia rivolte verso l'alto, e quindi omettendo di strutturare il posto di lavoro in modo che il lavoratore non potesse scivolare o cadere.
 
L’imputato ha ricorso in Cassazione adducendo diverse motivazioni. Lo stesso, premesso che dall'istruttoria dibattimentale era emerso che il lavoratore era caduto a causa di un malore, ha sostenuto che i giudici di merito avevano erroneamente applicato la regola cautelare prevista dall'art. 16 del D.P.R. 7/1/1956 n. 164 ritenendo che l'altezza minima di due metri dal suolo potesse desumersi con riferimento al punto in cui operavano le braccia del lavoratore. Ha ritenuto altresì che la sentenza della Corte di Appello fosse viziata laddove la stessa ha ritenuto, benché dal giudizio di primo grado fosse emerso il sospetto che la caduta del lavoratore non fosse legata ad una perdita di equilibrio ma ad un suo malore, che la predisposizione di un ponteggio avrebbe comunque evitato l'evento non tenendo conto del fatto che su di lui non incombesse tale obbligo tendente ad eliminare il rischio da cadute in quota. Nel ricorso l’imputato ha contestata, inoltre, l'affermazione fatta dalla Corte di Appello secondo la quale il datore di lavoro non va esente da responsabilità in caso di caduta conseguente a malore.
 
Le decisioni della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dall’imputato in quanto basato su una interpretazione della sentenza della Corte di Appello non coerente con il testo della motivazione. Con riferimento in particolare alle violazioni allo stesso contestate in materia di sicurezza sul lavoro la suprema Corte ha tenuto a sottolineare che la condotta colposa ascritta all’imputato stesso era descritta nel capo d'imputazione, oltre che in termini di colpa generica, anche quale specifica violazione della regola cautelare posta dall'art. 11 del D.P.R. 27/4/1955 n. 547, a mente del quale “Quando i lavoratori occupano posti di lavoro all'aperto, questi devono essere strutturati, per quanto tecnicamente possibile, in modo tale che i lavoratori non possano scivolare o cadere”, e quindi per avere permesso che l’infortunato lavorasse in piedi su una trave di cemento armato posta ad un'altezza di m 1,47 dal piano del solaio ed avente una larghezza di 30 cm omettendo di strutturare il posto di lavoro in modo tale che il lavoratore stesso non potesse scivolare o cadere. Tale obbligo, ha ancora precisato la Sez. IV, era stato specificato nella sentenza di primo grado in termini di omesso utilizzo di scarpe antiscivolamento e casco protettivo, nonché in termini di utilizzo di un cordolo non munito di alcuna protezione da cadute con una base di appoggio di appena 30 cm sulla quale il lavoratore doveva effettuare le operazioni con le braccia alzate.
 
In merito alla contestata erronea applicazione dell’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956 ed alla ritenuta necessità di adottare una adeguata opera provvisionale (ponteggio) a protezione da una caduta dall’alto  la Corte di Cassazione ha sostenuto che “se è, infatti, vero che la necessità di predisporre un ponteggio nel caso in esame non avrebbe potuto comunque desumersi da una precisa previsione normativa, non essendo applicabile l'art. 16 d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164 che disciplinava i lavori eseguiti ad un'altezza superiore ai 2 metri, deve sottolinearsi che la censura, seppure suggestiva, trascura gli altri profili di colpa presi in esame dal giudice di merito e richiamati a pag. 3 della sentenza impugnata, ossia l'omessa predisposizione di scarpe antiscivolamento e di una base di appoggio idonea ad evitare perdite di equilibrio”. Il giudice di primo grado aveva, infatti, rimarcato che l'infortunato non portava casco protettivo né abbigliamento da lavoro (scarpe antiscivolamento) e che il cordolo sul quale egli era salito non era munito di alcuna protezione da eventuali cadute, mentre il lavoro da eseguire comportava una situazione di instabilità dell'operatore anche in relazione alla larghezza della base d'appoggio, pari a 30 centimetri.
 
Per quanto sopra detto, quindi, la Sez. IV ha ritenuta la decisione della Corte territoriale immune da una erronea applicazione della normativa antinfortunistica in vigore all'epoca dell'infortunio, non dovendosi sovrapporre l'obbligo di predisposizione di idonei ponteggi per i lavori da eseguire ad un'altezza superiore ai due metri al più generale obbligo, regolarmente indicato nel capo d'imputazione, di strutturare il posto di lavoro in modo da evitare scivolamenti o cadute. Tale regola cautelare, ha così proseguito la Sez. IV, è peraltro rispondente ai generali principi di diligenza e di prudenza, che impongono a chiunque assuma, in qualsiasi momento ed in qualsiasi occasione, una posizione di garanzia rispetto ad un'attività di lavoro, di operare per prevenire ogni prevedibile ed evitabile rischio e per garantire la sicurezza del luogo di lavoro. Entrambe le regole cautelari, invero, di cui all’art. 11 del D.P.R. n. 547/55 e dell’art. 16 del D.P.R. n. 164/56 possono riferirsi, secondo la suprema Corte, a lavori non eseguiti ad altezza d'uomo, bensì ad un'altezza dal suolo, qualunque essa sia, che ne renda più difficile e rischiosa l'esecuzione, tanto da rendere necessario il ricorso a misure capaci di prevenire il rischio di cadute.
 
È bene, in ogni caso, ricordare”, ha così concluso la suprema Corte, “che, in tema di infortuni sul lavoro, non occorre, per configurare la responsabilità del datore, che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che l'evento dannoso si verifichi a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087 cod. civ. ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore (Sez. 4, n. 4917 del 01/12/2009, dep. 2010, Filiasi, Rv. 246643; Sez. 4, n. 13377 del 28/09/1999, Bassi, Rv. 215537); con la conseguenza che ricadono sul datore di lavoro, che abbia omesso di adottare tali misure ed accorgimenti, anche quei rischi derivanti da cadute accidentali, stanchezza, disattenzione o malori comunque inerenti al tipo di attività che il lavoratore sta svolgendo”.

 
Gerardo Porreca
 

 




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Rispondi Autore: Carmelo Giannì - likes: 0
22/12/2015 (10:20:59)
Finora ho sempre sostenuto che le cautele dovessero essere applicate solo per opere da eseguirsi a m 2,00 dal piano di calpestio. Evidentemente mi è sempre sfuggito il particolare delle braccia sollevate.
Come di pari mi sembra eccessivo addebitare al Datore di lavoro la causa di un infortunio che è stato fondamentalmente dovuto ad un malessere del lavoratore. Aspetto sinceramente poco comprensibile.
Mi risulta comunque difficile capire come un lavoratore caduto da un'altezza così irrisoria possa avere subito un infortunio così grave da essersi risolto con il decesso dello stesso. Questo non è risultato comprensibile dalla lettura dell'articolo.

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