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Sistema prevenzionale da manutenzione a guasto: che fare?

Sistema prevenzionale da manutenzione a guasto: che fare?
Carmelo G. Catanoso

Autore: Carmelo G. Catanoso

Categoria: Valutazione dei rischi

10/05/2018

In Italia, il sistema prevenzionale è da “manutenzione a guasto” e cioè si interviene solo sotto spinte emergeziali. Bisogna cambiare approccio perché non si può continuare a percorrere la stessa strada che, ad oggi, non sta portando da nessuna parte.


 

L’attuale situazione

L’elevato numero di eventi luttuosi sul lavoro che continuano ad avvenire nel nostro Paese, hanno ancora una volta portato all’attenzione della pubblica opinione la gravità e la frequenza degli infortuni sul lavoro facendo emergere ancora una volta che, il modo di affrontare il problema della sicurezza e della tutela della salute, nelle aziende pubbliche e private in Italia, continua ad essere, perlomeno, suscettibile di notevoli miglioramenti.

 

Obiettivamente, va osservato che, in Italia, da anni, il numero complessivo degli infortuni sul lavoro è in costante calo anche se gli infortuni mortali oscillano sempre intorno al migliaio all’anno rimanendo, comunque, un dato inaccettabile per un Paese economicamente e socialmente evoluto come l’Italia.

Nel grafico seguente è evidenziato l’andamento delle denunce di infortuni mortali negli ultimi 20 anni.

 

trend infortuni

La stragrande maggioranza degli eventi infortunistici, va detto, si concentra nelle micro o piccole aziende. Infatti, in Italia le aziende fino a 9 dipendenti, rappresentano l’86,4% del totale mentre le imprese da 10 a 49 dipendenti sono il 12% del totale. In sintesi, il 98,4% delle imprese italiane è rappresentato da micro imprese e piccole imprese [1].

Va anche detto, per completezza d’informazione, che i dati sugli infortuni mortali sul lavoro che ci vengono periodicamente presentati, racchiudono in essi anche il numero di eventi riconducibili ad incidenti stradali che, in percentuale, rappresentano quasi il 50% del totale.

 

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La normativa vigente

L’idea di redigere un “Testo Unico” - che poi Unico non è e, pertanto, d’ora in poi lo si chiamerà con il suo nome e cioè D. Lgs. n° 81/2008 - è stata indubbiamente positiva, visto che l’Italia deteneva e continua a detenere il primato europeo e forse anche mondiale, per numero di leggi, decreti, circolari, ecc. vigenti in materia di sicurezza e tutela della salute.

Tutto ciò rende effettivamente difficile orientarsi tra il numero spropositato di norme ed i conseguenti adempimenti posti a carico dell’imprenditore nell’ambito dell’esercizio d’impresa, nonché rende di difficile attuazione un efficace controllo da parte degli organi di vigilanza preposti.

 

Bisogna anche dire che, obiettivamente, ciò ha fatto e fa ancor oggi più che comodo ad un buon numero d’imprenditori border line in termini di regolarità dell’esercizio d’impresa, che hanno utilizzato la situazione persistente e la gran confusione regnante per continuare ad operare nella evidente non applicazione delle norme vigenti da più di sessanta anni e ciò a scapito, soprattutto, delle altre imprese effettuando, nei loro confronti, una vera e propria concorrenza sleale.

Allora, più che concentrare l’attenzione sulla redazione di un nuovo provvedimento legislativo, sia i legislatori sia la pletora di esperti o pseudo tali, spesso autoreferenzianti che hanno contribuito alla predisposizione del D. Lgs. n° 81/2008, avrebbero dovuto prima chiedersi cosa, almeno negli ultimi decenni non aveva funzionato e perché e, soprattutto, quali potevano essere le azioni da attuare per correggere tale situazione. 

 

Individuare ed attuare una strategia realmente efficace, in effetti, era molto più difficile che emanare un ennesimo provvedimento legislativo che, non essendo stato ben meditato e studiato (ricordiamo tutti l’esistente situazione politica al momento della sua preparazione), non sarebbe mai riuscito a creare quelle condizioni in grado di permettere un effettivo miglioramento della situazione, tenendo conto delle logiche organizzative e decisionali delle aziende nel particolare tessuto industriale del nostro paese. 

 

Anche oggi, il rischio è che il legiferare, come avvenuto per il D. Lgs. n° 81/2008, sotto spinte emozionali o in situazioni emergenziali, produca solo un ennesimo provvedimento che avrà come peculiarità quella di essere ancor più confusionario dell’insieme a cui si vuole sostituire, perpetuando il consueto stato di incertezza interpretativa a cui ci siamo ormai abituati.

Un altro possibile rischio che le esperienze passate dovrebbero aver insegnato è che, una qualunque legge sulla sicurezza sul lavoro, dopo la stesura di una prima bozza, nei vari passaggi, si gonfia di deroghe, particolarità, cavilli vari, esclusioni, ecc. che, quasi sempre, la stravolge.

In teoria, sono tutte leggi che vogliono raggiungere un nobile obiettivo ma finiscono sempre per raggiungerne un altro, molto meno nobile, che, poi, è sempre lo stesso: accontentare tutti (imprese, sindacati, specialisti della prevenzione, enti di vigilanza, magistratura, ordini e collegi professionali, associazioni varie, ecc.).

 

Il problema molto grave, però, è che questi due obiettivi sono tra loro incompatibili.

Andando a guardare agli effetti, per così dire positivi del D. Lgs. n° 81/2008, dei vari provvedimenti emergenziali tipici del sistema prevenzionale italiano che, come noto, è un sistema prevenzionale da “ manutenzione a guasto” e dei vari Accordi Stato Regioni sulla formazione, li possiamo vedere solo pensando al relativo giro d’affari innescato in termini di convegni, corsi di formazione, pubblicazioni editoriali, servizi consulenziali, magici software in grado di risolvere tutti i problemi della valutazione dei rischi, dello stress lavoro correlato, del SGSL, ecc. ecc..

Parlando di cose concrete, e forse con un po’ di cinismo, se andassimo ad analizzare cause e modalità di accadimento degli infortuni mortali o gravemente invalidanti, ci accorgeremmo che queste sono le stesse di sessanta anni fa, quando il legislatore varò i famosi “decreti presidenziali” degli anni ‘50; ad esempio:

  • in cantiere si muore perché si cade dall’alto per la mancanza di parapetti o si viene schiacciati da macchine movimento terra, ecc.;
  • in una carpenteria metallica, si muore perché si viene schiacciati in una pressa o perché si ribalta un muletto, ecc;
  • in un’azienda agricola si muore perché il trattore si ribalta o perché esplode un silo di granaglie o per le esalazioni da una cisterna di liquame, ecc.;
  • in un impianto petrolchimico si muore durante un intervento di manutenzione ……… ma con la differenza che adesso si tratta dei dipendenti delle imprese appaltatrici a cui è stato esternalizzato il lavoro.

 

Insomma nulla è cambiato … e per comprenderlo basta pensare al continuo stillicidio di infortuni mortali in ambienti confinati, ultimo quello di Milano con 4 morti, nonostante, fin dal 1955, gli articoli 235, 236 e 237 del D.P.R. n° 547 dicessero con chiarezza quali dovevano essere le misure preventive e protettive da adottare per operare in sicurezza in questi particolari ambienti.

Del resto, oggi, le cure che vengono indicate sono sempre le stesse: maggiori controlli ed aumenti delle sanzioni.

 

Per quanto riguarda i controlli, va constatato che, fino ad oggi, non esiste ancora una forma di deterrenza adeguata. Nei casi di reati di puro pericolo, la sanzione comminabile, ad esempio, per la mancanza di una protezione su una macchina non è percepita come un deterrente da un’azienda, in quanto non è economicamente significativa e, soprattutto, è legata alla frequenza sia del verificarsi dell’evento infortunistico che delle attività di vigilanza e controllo che, nei fatti, è praticamente inesistente per tutta una serie di ragioni arcinote e che non è il caso di elencare.

Negli ultimi anni si è cominciato a parlare di introdurre il reato di omicidio sul lavoro con tanto di disegno di legge ad hoc. Purtroppo non si è ancora compreso che non è con l'inasprimento delle pene che si migliora la situazione. Andando a guardare cosa è successo con l'introduzione dell'omicidio stradale, la diminuzione è stata praticamente impercettibile tanto da poter constatare che ha avuto un effetto deterrente maggiore l'introduzione della patente a punti.

 

Del resto, un certo Cesare Beccaria, 250 anni fa, diceva che non è l'intensità della pena ad esercitare gli effetti deterrenti ma la certezza e la prontezza della pena. Quindi, forse sarebbe il caso di rivedere prima attentamente il nostro sistema giudiziario prima di uscircene con queste trovate che sembrano nate solo per cercare consensi politico-elettorali. Quindi l’azione prioritaria dovrebbe indirizzarsi verso la velocizzazione dei processi dove ci sono capi d'imputazione per omicidio colposo e lesioni personali colpose gravi/gravissime, in modo da avere,  a parere di chi scrive, un effetto ben più efficace di una possibile pena per omicidio sul lavoro, visto  che, ad oggi, con i tre gradi di giudizio, ci vogliono, come minimo, dai 6 agli 8 anni.

 

L’approccio prevalente

Oggi la sicurezza e la tutela della salute viene percepita, dalla maggior parte dei soggetti coinvolti a vario titolo, come un insieme di norme e procedure, che non produce valore alcuno e, anzi, va ad intralciare le normali attività produttive. Di conseguenza, nelle imprese, l'investimento in risorse umane e materiali è stato, quasi sempre, discontinuo e dispersivo.

 

L’Italia, se paragonata ad altri paesi membri della UE come la Gran Bretagna, la Francia o la Germania, costituisce un’anomalia in quanto è caratterizzata da un tessuto industriale di piccole e piccolissime imprese. Con il piccolo imprenditore, non si può continuare ad insistere veicolando sempre il solito messaggio che gravita intorno alla questione del costo delle sanzioni o degli infortuni in quanto la frequenza di questi eventi non è, ai suoi occhi che guardano la sua realtà microimprenditoriale, statisticamente significativa. Inoltre, va ricordato che qualunque piccolo imprenditore vuole mantenere la propria autonomia e tende a considerare negativamente qualunque intervento che dall’esterno vuole cambiargli le proprie prassi interferendo, così, con il funzionamento interno della sua impresa. Ecco quindi mettere in atto tutto il ventaglio di difese che gli addetti ai lavori ben conoscono.

Purtroppo, è facile constatare che anche in un significativo numero di grandi e grandissime imprese, l’argomento sicurezza e tutela della salute non è considerato realmente importante e, quindi, degno di una rilevanza tale da essere, ad esempio, sempre inserito nell’agenda delle riunioni periodiche dei vertici aziendali.

 

Molti sono gli amministratori delegati che non hanno neanche la minima idea di cosa succeda in questo settore e quali siano, in questa area, le performance dell’azienda da loro diretta.

Nella migliore delle ipotesi, poi, ci si concentra su indicatori reattivi come lo sono gli indici di frequenza e gravità degli infortuni sul lavoro ma quasi mai ci si mette in gioco cercando, ad esempio, di conoscere quale sia il clima aziendale riguardo questa delicata area.

 

Quanti dei direttori di funzione che siedono al tavolo delle riunioni citate hanno tra i propri obiettivi, nell’ambito del sistema di valutazione delle proprie performance, anche quello del miglioramento del livello di sicurezza e tutela della salute?

 

Qual è quella grande azienda che tiene conto, in modo significativo, anche della performance nell’ambito della sicurezza e tutela della salute, nell’erogazione dei premi/bonus annuali/salary plan (dai vertici in giù)?

 

Quante sono le grandi aziende dove chi si occupa di sicurezza e tutela della salute professionalmente, riferisce direttamente al soggetto posto realmente al vertice dell’impresa (e non ad uno spesso artificioso “datore di lavoro” ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera f) del D. Lgs. n° 81/2008) ed illustra periodicamente anche agli membri della direzione, l’andamento dei progetti e delle performance in materia di sicurezza e tutela della salute?

 

Quante sono le aziende che conoscono quali siano i propri costi della non sicurezza?

Quante sono le aziende che considerano concretamente la sicurezza sul lavoro come un investimento e non come un costo?

 

Quante aziende riescono a dare, con le azioni di cui prima, un messaggio chiaro e coerente al proprio personale facendo percepire che la sicurezza e la tutela della salute fa realmente parte del DNA dell’impresa?

Insomma, i supermanager di queste aziende, da una parte riescono con le loro visioni e strategie a soddisfare le aspettative degli azionisti ma, dall’altra, la visione citata si appanna per un’incombente ed incontrollabile miopia e la strategia diventa inconsistente quando si devono analizzare gli aspetti legati alla sicurezza ed alla tutela della salute all’interno della propria azienda e definire le azioni per il continuo miglioramento delle performance specifiche.

Del resto, è palese constatare che queste tematiche e lo studio del loro impatto sociale ed economico, sono quasi assenti non solo nelle Università ma anche nei master post universitari pur essendo, questi, nati sia per traghettare un neolaureato verso il mondo del lavoro, sia per arricchire la cultura manageriale di chi in azienda c’è già. 

 

Ancor più penoso è il bilancio formativo quando si va a verificare quale sia la formazione specifica erogata ai manager ed ai vertici delle stesse (e non stiamo certo parlando della solita panoramica onnicomprensiva una tantum sugli obblighi del datore di lavoro e dei dirigenti!).

Non sono casi sporadici quelli in cui il “datore di lavoro” ed i suoi riporti apicali di una grande impresa, pur rivestendo tali funzioni ai fini prevenzionistici, non hanno mai frequentato uno specifico corso di formazione volto a favorire lo sviluppo di atteggiamenti favorevoli verso l’attività prevenzionale in modo da influenzare i processi di decision making e costruirsi una leadership orientata anche alla sicurezza ed alla tutela della salute quale valore pregnante della propria cultura d’impresa.

 

Allora, se la situazione è questa anche nelle grandi imprese (non in tutte, ovviamente perché ci sono anche quelle realmente virtuose), cosa ci si può aspettare dalle piccole imprese (in Italia quasi 4 milioni) che devono ogni giorno combattere per la loro sopravvivenza?

Ovunque, massmedia compresi, si continua a parlare di cultura della sicurezza facendo riferimento alla conoscenza delle norme di legge e delle procedure tecniche. Questa, però, è solo la cultura oggettiva della sicurezza sul lavoro.

La conoscenza non basta.

 

Quel che è mancata e continua a mancare è la cultura soggettiva della sicurezza, sia nella piccola che nella media e nella grande azienda. Infatti, si potrà parlare di cultura della sicurezza sul lavoro solo quando essa sarà integrata tra i valori ed i principi che regolano i rapporti tra gli individui e l'organizzazione aziendale di appartenenza (a prescindere dalle dimensioni). E’ opportuno ricordare che i comportamenti, a tutti i livelli gerarchici, si modificano solo se si percepiscono nuovi valori e nuovi principi di riferimento.

Se, ad esempio, i top manager delle grandi aziende non si fanno portatori di questi nuovi valori e principi, non ci si può certo aspettare di vedere dei cambiamenti concreti nel middle management che, in genere, orienta i propri comportamenti e le proprie decisioni in funzione degli obiettivi giudicati prioritari dai propri superiori, barcamenandosi nell’attività principale che è l'equilibrismo tra i desiderata dei vari gruppi apicali di potere dominanti in quel momento.

Il legislatore, d’altra parte, deve anche comprendere che ogni provvedimento tendente ad imporre, ad un qualsiasi settore industriale, un aumento delle misure organizzative, tecniche, procedurali, ecc. volte a migliorare la frequenza e la gravità degli infortuni e delle malattie professionali, produce sulle imprese, piccole o grandi che siano, un aumento degli investimenti aziendali e dei costi di produzione. I costi possono essere trasferiti, solo in parte, al cliente, mediante un aumento dei prezzi, mentre una buona parte dell'aumento dei costi incide e inciderà sempre, sul reddito d'impresa.

 

Dato che, fino ad oggi, non sono state certo le norme a mancare, possiamo affermare  che fino a quando l'apparato di controllo e prevenzione non sarà veramente tale e fino a che le sanzioni, ma da comminare in tempi brevissimi, non incideranno in modo economicamente rilevante e, soprattutto, non verranno, parallelamente, introdotti sistemi incentivanti adeguati (le sanzioni anche economicamente rilevanti, da sole, non servono a nulla!) senza rimandare il tutto a decreti dal futuro incerto (quanti sono, ad oggi, i decreti realmente emanati perché previsti dal D. Lgs. n° 81/2008?), la logica economica porterà più d’una impresa a minimizzare i costi totali, tagliando lì dove è possibile farlo, limitando i costi prevenzionali.

In altre parole, appare logico, economicamente, pensare che la sicurezza e la tutela della salute non sia un problema critico e non abbia la necessità di una priorità d’investimenti e si possano, di conseguenza, minimizzare i costi connessi alla prevenzione.

Ed è questo, il retaggio culturale che va demolito adottando strategie di ampio respiro!

 

Alcune proposte … provocatorie

Le considerazioni precedenti, oltre a delineare obiettivamente il quadro della situazione, permettono di individuare anche le azioni da intraprendere per un reale miglioramento dell'attività prevenzionale.

Istintivamente, l'azione che può sembrare prioritaria è quella indirizzata sia verso la richiesta di norme di legge più chiare e burocraticamente più leggere che verso un inasprimento delle sanzioni rendendole economicamente più pesanti, in modo da ricordare alle imprese, nel confronto tra i costi di prevenzione e quelli relativi alla non osservanza delle norme ed al risarcimento dell'infortunio e/o della malattia professionale, che l'attività, volta a tutelare l'integrità psicofisica di tutto il personale, è un problema prioritario, socialmente ed economicamente rilevante che necessita, da parte del soggetto giuridico preposto, un maggiore investimento in risorse, nonché dei risultati che ne misurino l'impegno effettivo.

 

L’incremento delle sanzioni, come detto prima, è una condizione necessaria ma non sufficiente; infatti, a giudizio di chi scrive, si commetterebbe un gravissimo errore pensando di risolvere il problema basandosi solo sulla repressione dei reati.

Le norme di legge ed i controlli sono necessari, ma servono solo a rafforzare le responsabilità attraverso le sanzioni a carico delle imprese ma, proprio per questo, non possono fornire, da sole, sufficienti motivazioni ad investire nella prevenzione.

 

Basta che la fonte del condizionamento (enti di vigilanza, Magistratura, ecc.) diminuisca, per qualunque ragione, la propria intensità per ritornare al punto di partenza.

Dunque, oggi, il problema prioritario non è solo quello di intervenire sul corpo legislativo di riferimento, purtroppo anche con interventi legislativi emergenziali, aspettandosi, poi, il miglioramento della situazione (la condivisione delle norme, da parte di talune imprese, è tuttaltro che automatica).

Il problema prioritario è, invece, quello di individuare ed attuare nuovi interventi in grado di portare ad un reale miglioramento della sicurezza e della tutela della salute grazie alla loro funzione preventiva deterrente ed incentivante esercitata prima che accadano gli eventi.

Certamente va avviata una una campagna di sensibilizzazione generale da parte delle istituzioni, così come avviene per altre problematiche di interesse della Collettività ma non utilizzando quelle forme di comunicazione, tipiche dei Paesi Anglosassoni, che, quasi sempre, tendevano a scatenare meccanismi psicologici di rimozione o, addirittura, gesti scaramantici.

Importante è che il messaggio veicolato, più che puntare sull’affettività e sull’emotività rappresentando, come negli spot episodici degli anni passati, una realtà familiare che sembra uscita da una pubblicità di una nota marca di biscotti e merendine, punti su una rappresentazione di situazioni reali e tipiche di una realtà lavorativa.

 

Comunque, il fine deve essere quello di far comprendere che non ci si deve interessare della sicurezza sul lavoro solo in occasione d’eventi drammatici in cui politici, rappresentanti sindacali delle parti sociali, enti di vigilanza, magistratura, giornalisti ed esperti vari salgono sul palcoscenico offerto loro dai mass media per le esternazioni di circostanza specchiandosi negli obiettivi delle telecamere.

 

Il fine deve essere quello di avviare un processo di comunicazione diffusa in modo da rendere noto a tutti la necessità di un impegno costante da parte di tutti gli attori coinvolti, alimentando nella pubblica opinione la presa di coscienza che un’azienda che non tutela, sotto tutte le forme previste dal nostro ordinamento, il proprio personale è priva di etica e, quindi degna di riprovazione.

 

In altre parole, se oggi comprando, ad esempio, un elettrodomestico, la casalinga di Voghera o il signor Rossi, guardano con attenzione la qualità del prodotto e, da poco, anche la classe d’etichettatura energetica, domani dovranno anche chiedersi prima di acquistarlo, per una presa di coscienza del problema sicurezza sul lavoro, se questo bene è stato prodotto nel pieno rispetto delle più elementari norme di tutela della sicurezza e della salute di chi materialmente lo ha realizzato, orientandosi, in caso contrario, verso prodotti di altre aziende.

 

Per le piccole imprese, la campagna di comunicazione dovrà puntare sull’impegno etico che l’imprenditore assume per tutelare l’integrità psicofisica delle sue persone, sulla possibilità d’incidere su tutti quegli aspetti che influenzano negativamente il funzionamento dell’impresa (assenteismo, conflittualità, turnover, ecc.) e cioè su quello a cui, qualunque imprenditore, come detto prima, è sempre fortemente interessato, facendogli capire che la sua azienda, viste le dimensioni, non riuscirà mai a compensare questi effetti negativi a differenza della grande impresa o della multinazionale in grado di ridistribuire, con facilità i carichi di lavoro. Importante, è anche insistere sulle ricadute positive che gli investimenti prevenzionali possono portare alla piccola azienda, specialmente se spendibili in termini d’immagine e di reputazione nonché di differenziale positivo nell’acquisizione di nuovi clienti e nel mantenimento degli attuali.

 

Essenziale è anche strutturare dei meccanismi seri di accesso al mercato da parte delle imprese vincolandoli al preventivo soddisfacimento dei requisiti minimi richiesti dalle norme vigenti in tema di sicurezza e tutela della salute.

Al momento, invece, si sono perse completamente le tracce del decreto sulla qualificazione delle imprese previsto dall’art. 27 del D. Lgs. n° 81/2008

Ancora una volta, è stato commesso l’errore di non integrare tali previsioni nello stesso provvedimento che mira ad elevare il livello di sicurezza e rafforzando così l’approccio che porta a considerare la sicurezza solo come un costo e non come un investimento che produce un ritorno per l’impresa nel breve o, al massimo, nel medio periodo.

Dieci anni era stata presentata ed approvata dalla Camera dei Deputati una proposta di legge riguardante la sola <<Attività di costruttore edile e le attività di completamento e finitura edilizia>> che intendeva fissare quel livello professionale ed organizzativo minimo per poter esercitare l’attività imprenditoriale edile ivi compresi una serie di requisiti in materia di sicurezza e tutela della salute. Anche di questa iniziativa si sono perse le tracce.

 

E’ necessario intervenire immediatamente sulle pubbliche amministrazioni e far regolarizzare le palesi situazioni di rischio presenti in un qualunque ministero, ospedale, ufficio, scuola, ecc..  Altrimenti quale coerenza e credibilità può avere uno Stato che, da una parte continua a partorire leggi, leggine, circolari, ecc., e, dall’altra, è il primo a non applicarle nei propri luoghi di lavoro, spesso aperti al pubblico!

 

Bisogna anche introdurre in modo diffuso, quale materia di studio, la Sicurezza e la tutela della salute nei corsi universitari ma non solo nelle facoltà tecnico-scientifiche come Ingegneria, Chimica, Fisica, Architettura, ecc. ma anche nelle altre visto che, quasi tutte, hanno come sbocco un’attività lavorativa all’interno delle aziende pubbliche/private o un’attività libero professionale o imprenditoriale; importante è anche approfondire maggiormente questa tematica all’interno dei programmi didattici degli Istituti superiori ma senza dimenticare che, per sviluppare, la giusta attenzione nelle nuove generazioni, si debba cominciare a parlarne, con le opportune modalità e contenuti, fin dalla scuola dell’infanzia (vedasi Giappone, ad esempio). L’art. 11, comma 1 del D. Lgs. n° 81/2008 prevede un sistema di finanziamento per le attività scolastiche ed universitarie ma, anche qui, dopo dieci anni, del successivo decreto a cui si rimandava, non c’è traccia.

 

Per quanto riguarda la formazione del personale, sarebbe ora proporre sistemi evoluti con prodotti che coinvolgano attivamente i partecipanti. Qui si sta parlando di prodotti molto simili ai giochi che girano sulle note console per videogiochi e cioè un qualcosa che coinvolga attivamente, immergendo i partecipanti in una realtà il più possibile vicina a quella che vivono ogni giorno in azienda, presentando situazioni in cui deve essere presa una decisione, adottato un comportamento, eseguito un compito, ecc.. Sappiamo tutti che sperimentando s'impara ... ma si può imparare anche tramite simulazioni ben fatte.

Altrettanto necessario risulta il chiudere definitivamente con la diatriba giuridica relativa all’introduzione del reato di omicidio sul lavoro e pensare, invece, all’l’introduzione di nuovi sistemi deterrenti in grado di indurre comportamenti fortemente dissuasivi.

 

Visto che l’attività di controllo, da parte degli enti pubblici preposti è attualmente fortemente carente, si tratterebbe, dunque, di:

  • rafforzare gli organici, sia con trasferimenti di personale tra le varie amministrazioni (previa adeguata formazione), sia con nuove assunzioni (oggi, ci sono alcune migliaia di funzionari realmente presenti sul campo ma sono poca cosa verso gli oltre 4 milioni di imprese in Italia) con la conseguente necessità di prevedere l’adeguata copertura finanziaria, oppure
  • scegliere una drastica alternativa e cioè quella di esternalizzare le attività di vigilanza e controllo ad organismi privati riconosciuti/accreditati presso i ministeri del Lavoro e della Salute (e ciò previa la modifica/introduzione di una serie di provvedimenti legislativi che ne rendano possibile l’operatività), in modo da poter concretamente esercitare un’attività deterrente, mediante la maggiore presenza e frequenza dell’attività preventiva su quei settori industriali in cui sono concentrati gran parte degli infortuni e delle malattie professionali (basterebbe usare le statistiche INAIL per individuare target mirati), utilizzando per il loro funzionamento, parte dei proventi derivanti dalle sanzioni comminate.

 

Nel secondo caso, all’INAIL si potrebbero riservare le competenze di indirizzo e di controllo sull’operato degli organismi accreditati ed incaricati della sorveglianza (al fine di evitare derive per connivenze utilitaristiche o, soprattutto, per tentazioni derivanti dal meccanismo di sostentamento degli stessi organismi privati), verificando periodicamente la sussistenza dei requisiti etici, organizzativi e tecnici  che ne hanno permesso l’accreditamento presso i citati ministeri; ovviamente, gli enti di vigilanza continuerebbero ad occuparsi delle indagini giudiziarie relative agli infortuni ed alle malattie professionali.

 

Le attuali lungaggini penal-burocratiche in cui sono immersi i procedimenti giudiziari, rischiano di alleggerire qualunque potenziale potere deterrente. Allora, non sarebbe una cattiva idea modificare l’iter dei procedimenti giudiziari per infortuni sul lavoro e malattie professionali, separando il procedimento civile da quello penale, rivoluzionando, così, dalle fondamenta tutto il nostro sistema, trasferendolo all’interno di un rapidissimo processo civile, snodantesi attraverso un canale preferenziale e, quindi, svincolato dal processo penale. Ciò è necessario al fine di separare la responsabilità civile oggettiva dalle responsabilità e dal processo penale e, quindi, dalle lungaggini connesse agli accertamenti del giudice penale per individuare la colpa di uno o più soggetti.

 

Qui si tratta, invece, di introdurre una sanzione economica che derivi dall’accertata ed automatica responsabilità oggettiva per le imprese per l’evento dannoso verificatosi.

Va ricordato che, in questi casi, il trasferimento del rischio, in genere, avviene tramite una specifica polizza; si potrebbe prevedere che la compagnia assicurativa, prima di procedere alla stipula, eserciti, tramite i propri funzionari ispettivi, un controllo sul livello dell’affidabilità dell’azienda cliente riguardo la sicurezza e la tutela della salute, al fine di determinare l’oscillazione del premio. In caso di resistenze agli adeguamenti richiesti e, quindi, di palese inaffidabilità, dovrà essere prevista la mancata stipula della polizza e l’obbligo di invio di una specifica comunicazione della situazione oggettiva esistente agli enti di vigilanza competenti.

In questo modo, si concretizzerebbe un ulteriore deterrente, in quanto, le imprese negligenti, prive di una copertura assicurativa e con l’ente di vigilanza a conoscenza dello stato di fatto, si troverebbero quanto meno invogliate se non costrette ad adeguarsi agli standard minimi di sicurezza richiesti dalla normativa vigente.

 

Ai lettori sembreranno proposte anche fantasiose ma se si volessero cambiare le cose, non si può continuare a percorrere sempre la stessa strada che, appare evidente, non è che stia portando da qualche parte.

 

A parere di chi scrive, la sicurezza sul lavoro è un problema che:

  • non potrà mai essere risolto in modo definitivo ma che può e deve, comunque, essere contenuto e controllato attraverso l’attuazione di un’adeguata strategia che deve vedere coinvolti tutti gli attori;
  • comprende diverse variabili (giuridiche, tecniche, economiche, organizzative, psicologiche, ecc.) e, quindi, qualunque tipo d’intervento non può assolutamente trascurare nessuna di queste componenti, pena l’inefficacia dell’intervento stesso;
  • non permette l’applicazione di modelli prefabbricati buoni per ogni occasione ma si deve sempre tenere conto delle specificità di ogni settore industriale compresa la relativa filiera.

 

In conclusione, a parere di chi scrive, un cambiamento in futuro lo potremo avere, abbandonando l’idea del solo incremento del controllo e dell’inasprimento delle sanzioni e creando, invece, un sistema che dimostri che l’investimento per la sicurezza e la tutela della salute oltre ad essere eticamente riconosciuto ed apprezzato dalla pubblica opinione, produce un ritorno economico tangibile in quanto:

  • permette all’impresa l’accesso e la permanenza sul mercato dove esiste un sistema di controllo efficiente ed efficace da parte degli enti preposti,
  • costituisce un vantaggio competitivo rispetto ad altre aziende dello stesso settore,
  • permette la riduzione dei costi indiretti (assenteismo, turnover, ecc.),
  • aumenta l’efficienza dei processi lavorativi,
  • fa accedere ad agevolazioni fiscali e contributive,
  • migliora l’immagine aziendale e
  • riduce la conflittualità interna ed esterna.

 

 

Carmelo G. Catanoso

Ingegnere Consulente di Direzione



[1] ISTAT Statistiche Focus – L’imprenditorialità in Italia – 22 dicembre 2015



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Rispondi Autore: gpalmisano - likes: 0
10/05/2018 (10:30:46)
ottima riflessione, pienamente condivisibile
Rispondi Autore: gpalmisano - likes: 0
10/05/2018 (12:04:52)
Infatti quanti AD di piccole e medie aziende, si preoccupano di quanto possa costare un infortunio, in termini di:
Organizzazione delle attività
Gestione delle risorse
Qualità dei servizi (immaginate se ad infortunarsi sono due dei migliori saldatori che l'impresa possa avere)
Immagine aziendale
Quanto influenza in un gap analisis aziendale, oppure nel Know how aziendale, ecc...
Eppure, ci sono norme cui fine è quello di tutelare la sicurezza nei luoghi di lavoro, contro qualsiasi pericolo che possa derivare dall'omissione, rimozione o danneggiamento di presidi antifortunistici (art 437 cp). Penso che chi possa tracciare questa politica aziendale proattiva, sono solo quelle che hanno la fortuna di avere consulenti e/o dipendenti capici di influenzare questa politica di coesione. Basti pensare, quanto un DS in una scuola, affronti il problema del rischio incendio e l'efficacia delle misure messe in atto, senza che il problema sia stato evidenziato da qualcuno o da qualche evento, eppure ci sono sanzioni che puniscono il pericolo presunto ( vedi art 437 o 451 cp).
Rispondi Autore: Giuseppe Scarpino - likes: 0
13/05/2018 (21:55:33)
Condivisibile. Lucida. Puntuale. Attuale.
Bella lettura e beneficio dei professionisti della sicurezza ma non solo...
Grazie Catanoso.

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