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La valutazione del rischio stress nella piccola impresa

In un'intervista al Dr. G. Miscetti, responsabile SPISAL ASL 2 di Perugia, le difficoltà di riconoscimento dei rischi psicosociali nelle piccole aziende. Spesso “le imprese sono troppo piccole per reggere l’organizzazione che vorrebbe il decreto 81/08”.

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Come già indicato in un precedente articolo se c’è un problema sanitario in continua crescita che fatica a prendere il giusto spazio nei provvedimenti normativi e operativi di tutela della sicurezza e salute dei lavoratori, questo è lo stress.
 

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Con l’obiettivo di mantenere alta l’attenzione su questo problema, che può essere fonte di moltissimi incidenti fisici e di serie patologie in ambito psichiatrico, continuiamo la nostra ricerca di documenti e di risposte che possano mettere in luce la dimensione del problema e contribuire alla soluzione dei problemi di prevenzione.
 
Presentiamo a questo proposito una nostra intervista realizzata durante la manifestazione Ambiente Lavoro Convention di Modena e in concomitanza con il seminario “La valutazione dei rischi nelle PMI: metodologie e strumenti”.
Ci interessava approfondire in particolare le problematiche della valutazione del rischio stress lavoro correlato nelle piccole e medie imprese con uno dei relatori del seminario, il Dr. Giorgio Miscetti, Responsabile del Servizio di Prevenzione Igiene e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro (SPISAL) dell’ASL 2 di Perugia.
Medico del lavoro, il Dr. Miscetti ha un’esperienza professionale che comprende sia gli aspetti clinici - come medico di famiglia e come medico di una clinica del lavoro a Perugia - sia quelli relativi ad attività di controllo e di vigilanza come dirigente di un servizio di prevenzione. Si è occupato in passato anche delle problematiche correlate allo stress, come il mobbing.
 
Intervista a cura di Tiziano Menduto
 
Sembrerebbe, per il numero di documenti e studi prodotti, che l’interesse per i problemi psicosociali in ambito lavorativo stia crescendo. Tuttavia si rileva come queste problematiche, ad esempio in relazione al mobbing o al burnout, siano spesso state nascoste o non identificate. Che fatica ha fatto lo stress lavoro correlato per emergere in questi anni tra gli elementi di rischio riconosciuti in ambito lavorativo?
 
Giorgio Miscetti: “Ci sono due aspetti che incidono sulla percezione del problema.
Da una parte lo sviluppo del tema in questi ultimi anni, per lo meno dal punto di vista scientifico, dipende dall’accresciuta sensibilità in generale delle persone su questi temi. Sensibilità cresciuta anche per la maggiore diffusione dell’informazione. Ciò ha fatto sì che ci fossero più persone ad accorgersi di avere un problema di questo tipo: prima magari lo sentivano, ma non sapevano dargli un nome.
Inoltre gli studi scientifici tendono sempre più a dimostrare che tante manifestazioni cliniche sono legate al contesto ambientale. Gli ultimi studi, ad esempio, sul rapporto tra contesto ambientale, inteso come elemento di stress, e sistema immunitario sono la dimostrazione che ci siano queste due verità che hanno fatto sì che il problema dello stress correlato si presenti ora in una dimensione evidente.
Bisogna vedere se questa sia ancora la dimensione reale. Probabilmente una dimensione reale non c’è, perché i problemi stress lavoro correlati sono legati al contesto, dunque sono per definizione destinati a crescere e diminuire in relazione allo sviluppo della società produttiva. Facciamo un esempio. L’introduzione dei nuovi contratti di lavoro ha introdotto un elemento stressogeno che è quello della precarietà istituzionalizzata. Parlare di una dimensione in termini assoluti dello stress sui luoghi di lavoro è difficile, forse inutile. È una dimensione dinamica, destinata a mutare nel tempo”.
 
C’è ancora una resistenza nelle imprese a pensare e a parlare di questo aspetto del rischio lavorativo?
 
G.M.: “C’è una forte resistenza delle imprese. Ma non tanto rispetto al rischio in quanto tale, alla conoscenza o all’idea che dentro l’azienda possano esistere problemi di stress. La resistenza è all’idea di farne un problema. La tendenza è di relegarlo molto spesso, sopratutto nella piccola impresa, ad atteggiamenti individuali, a problemi caratteriali, legati esclusivamente al profilo psicologico del lavoratore. Dimenticando, in questo caso, il contesto relazionale-ambientale, il contesto tecnologico che sono due elementi pesanti. Come diceva lei, in questa situazione, alcune forme particolari di stress, come il burnout, hanno grande difficoltà ad emergere... Insomma il problema è ormai percepito come titolo, ma c’è la difficoltà a farne un problema. C’è la tendenza a pensare che sia un problema di insoddisfazione che inizia e finisce con il lavoratore”.
 
Consultando diversi documenti relativi allo stress in ambito lavorativo, si può notare come spesso l’accezione, la definizione di stress non è sempre la stessa...
 
G.M.: “In realtà lo stress è nato con un’accezione prettamente fisiologica, come reazione di allarme. Poi successivamente con l’aumento delle conoscenze relative agli stressor (fattori di stress, ndr) nascosti nel clima riorganizzativo e relazionale, l’accezione di stress si è connotata per lo più per gli aspetti negativi, riferendosi alla discrepanza tra le risorse in senso lato del lavoratore e un contesto che è sempre più pressante. Questo il motivo per cui se ne parla spesso in termini negativi. Pochi sono quelli che si ricordano che esiste una parte buona dello stress che è il motore della nostra vita, quello che ci consente di vivere le nostre emozioni. Nel contesto lavorativo lo stress è invece più spesso vissuto come figlio della pressione lavorativa. Una pressione che si ribalta su tutti gli aspetti del lavoro”.
 
Una cosa che lei ha detto nel suo intervento al seminario è che le metodologie di rilevazione dello stress in ambito lavorativo non sono sempre le più corrette. Veniamo al mondo delle piccole e medie imprese. Quali sono gli errori più frequenti nelle valutazioni?
 
G.M.:  “Se ne può parlare per quelle che sono le esperienze fin qui valutabili, perché questo è un tema che solo adesso entra tra gli adempimenti.
L’errore che io vedo più frequentemente nell’approccio è quello di valutare l’elemento stress al di fuori del circuito organizzativo classico dei rischi di lavoro. Anche questo è un rischio che deve essere valutato nel contesto organizzativo che vuole la norma: datore di lavoro, responsabile del servizio di prevenzione, medico competente e consultazione del rappresentante dei lavoratori. Senza questo contesto organizzativo anche la parte più prettamente tecnica, realizzata con il contributo di psicologi e di altri esperti, può perdere totalmente significato.
Questa valutazione non serve solo per dare una dimensione al fenomeno stesso, ma per avere una dimensione che permetta poi di porre in atto delle misure. Quindi il fatto di dargli una dimensione in termini scientifici, può non essere sufficiente rispetto al percorso del decreto 81/2008. Il decreto vuole che questa dimensione serva a derivare delle scelte di priorità dal punto di vista del miglioramento. E l’errore che si vede è spesso quello di dissociare questo percorso dalla parte dell’attuazione degli adempimenti. Un percorso che, certo, è piuttosto complicato dal punto di vista tecnico, con uso di questionari, anche molto complessi; però alla fine il risultato non si concretizza nella possibilità di orientare il miglioramento. Oppure lo fa in termini molto generici, perché dire che migliorare la comunicazione e migliorare le relazioni potrebbe essere banale. Bisogna vedere come, in che punto, in quale area, in quale momento del processo. E purtroppo, ad oggi, devo dire che, da questo punto di vista, grandi esperienze non se ne vedono”.
 
Quali difficoltà specifiche, in questo ambito valutativo e operativo, hanno le piccole e medie imprese?
 
G.M.:  “La piccola e media impresa ha una difficoltà legata alla propria dimensione. Spesso numericamente è talmente ridotta che calare su di essa l’organizzazione che vuole il decreto 81/2008 è realmente complicato. In queste aziende anche l’assetto organizzativo molto stabile, controllato, noto, regolabile, che richiede la valutazione e la prevenzione dello stress, è difficile. È come voler fare indossare alla piccola impresa un abito troppo grande. L’impresa è, insomma, troppo piccola per reggere l’organizzazione che vorrebbe il decreto.
Molto spesso il responsabile del servizio di prevenzione è anche datore di lavoro, quindi è chiaro che viene assorbito da quel ruolo. In altri casi il rappresentante dei lavoratori non esiste o è territoriale, e comunque non ha alle spalle un numero di lavoratori tale da consentirgli il termine di rappresentanza in termini sostanziali.
Anche il medico competente non ha quella frequentazione, anche di conoscenza del contesto, che magari ha invece in altre imprese più grandi dove passa più tempo.
Nella piccola impresa tutti questi argomenti si inaridiscono un pochino. E parlando di un tema che proprio nasce dalla interazione tra lavoratore e contesto, lei capisce che la sofferenza più grossa in termini valutativi e preventivi sia ha proprio nella piccola impresa”.
 
Quale consigli dare a un legislatore che in un futuro volesse favorire l’applicazione di questi aspetti del Testo Unico nelle piccole e medie aziende?
 
G.M.:  “Il decreto di cui parliamo oggi era nato con cinque o sei parole di base, tra cui semplificazione, chiarezza e coordinamento. Temo che alcune di queste parole siano rimaste nella penna, in particolare la semplificazione.
Per il futuro spero che il decreto possa risuddividere gli adempimenti diversificandone la complessità in proporzione al numero di persone occupate.
Ad esempio per la piccola impresa, una volta definita, penserei ad un’attuazione dal punto di vista formale che preveda delle semplificazioni. Anche dal punto di vista dell’allestimento del documento, magari indicando un telaio standard, definito.
Questo la piccola impresa lo gradirebbe. Oggi, se ha un numero di addetti superiore a dieci, si trova di fronte alle stesse problematiche valutative, anche dal punto di vista dei percorsi, della grande azienda. E questo spesso la mette fortemente in difficoltà.
Parliamo di sistema di gestione della sicurezza: una cosa è parlarne alla Fiat dove ci sono dei puntelli organizzativi su cui fare riferimento, una cosa è parlarne in un piccola impresa, magari con un idraulico che ha 15 dipendenti.
Penserei a una semplificazione anche per il livello culturale che spesso c’è nella piccola impresa. Non lo nascondiamo. Io vengo dall’Umbria, vengo dall’esperienza della ricostruzione e le assicuro che abbiamo un bel novero di imprenditori con un titolo di studio che, non per colpa loro, non è compatibile col dettato della legge”.
 
 
Tiziano Menduto


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Rispondi Autore: docente "inidoneo" - likes: 0
09/12/2010 (08:38:31)
Sono un docente inidoneo , sono contento che ci sia una normativa che valuti lo stress soprattutto tra gli insegnanti ,però siete a conoscenza del destino dei docenti "inidonei"? La parola inidoneo già la dice lunga sulla nostra condizione , perdiamo la titolarità , abbiamo un orario uguale agli ATA ma non siamo nè carne nè pesce , siamo considerati dei malati mentali e maltrattati . Il caro ministro Brunetta ci vuole licenziare perchè deve risparmiare i soldi su di noi persone che hanno superato un concorso che hanno dato tanto alla scuola e solo perchè hanno avuto problemi psichici devono starsene a casa per voi è giusto?
Spero tanto che sia realizzata una normativa anche per dare una dignità prima umana e dopo professionale ai cinquemila docenti inidonei italiani .

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