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Rischi cancerogeni: quando il rischio non ha un’etichetta

Rischi cancerogeni: quando il rischio non ha un’etichetta

Un intervento si sofferma sul rischio cancerogeno e sulla necessità di valutarlo anche in assenza di un’etichetta o una scheda dati che lo indichi. I rischi della deriva negazionista e la necessità di un nuovo atteggiamento.

 

Bologna, 30 Lug – In Italia, nel corso degli ultimi trenta/quaranta anni, è molto cambiato il quadro delle esposizioni occupazionali ad agenti cancerogeni. Ed è ormai “nozione diffusa e condivisa” che le esposizioni occupazionali ad agenti cancerogeni “siano complessivamente diminuite di intensità media, intensità di picco, frequenza e durata”, al di là della disparità tra un contesto e l'altro e con eventuali sacche di esposizioni ancora importanti.

 

Infatti “molti agenti e molte lavorazioni di particolare pericolosità (a iniziare da quelle che prevedono l'amianto come materia prima) sono scomparsi dal nostro tessuto produttivo, magari semplicemente perché esportati dai Paesi di più antica industrializzazione verso Paesi ‘in via di sviluppo’ (dove, ovviamente, esercitano i medesimi effetti patogeni che ‘da noi’)”. E in ogni caso “i fenomeni di parcellizzazione e terziarizzazione del tessuto produttivo, unitamente a quelli di precarizzazione dei rapporti di lavoro, hanno reso relativamente rara la condizione dell'operaio che trascorre gran parte della sua vita professionale in regime di dipendenza presso un'unica grande fabbrica, all'interno della quale viene addetto a produzioni massive con pochi cambi di reparto e di mansione”.


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A raccontare come “da noi” il problema del rischio cancerogeno occupazionale non sia scomparso, ma sia “davvero cambiato profondamente”, è un intervento al convegno bolognese “REACH  2016. TU2016, REACH e CLP. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP e le novità nella gestione del rischio chimico nei luoghi di vita e di lavoro” (Ambiente Lavoro, 19 ottobre 2016). Un intervento che vuole sottolineare come sia importante valutare ancora oggi se nella propria azienda esista o meno un rischio cancerogeno.

 

La deriva negazionista del rischio cancerogeno

Nell’intervento “Il rischio cancerogeno con e senza etichetta: lo scenario, gli interpreti, le sostanze e la sostanza del problema”, a cura di Roberto Calisti (SPreSAL Civitanova Marche - ASUR Marche – Area Vasta 3), si ricorda, infatti, che nel nostro Paese “spesso è critica già la semplice identificazione di un problema ‘rischio cancerogeno’ in un ambiente di lavoro”. E se è cambiato lo scenario – “per cui le situazioni eclatanti, che immediatamente evocano l'esistenza di una situazione pericolosa, sono divenute infrequenti” – in realtà “anche gli interpreti che in tale scenario si muovono non sono rimasti uguali a sé stessi”.

 

Si segnala poi che con meno aziende produttive di grandi dimensioni, “sono diminuiti anche i grandi ‘Servizi Salute e Sicurezza’ che all'interno di esse producevano indagini di igiene industriale con campionamenti e analisi propri”. E il relatore segnala che se è “ben difficile trovare ambienti sindacali che, in un'epoca dominata da una crisi economica e sociale profonda e duratura, inseriscano tematiche di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nelle proprie programmazioni strategiche e nelle loro contrattazioni”, questo vale per il problema ‘ rischio cancerogeno’ ancora più che per altri, “dato che le sue ricadute si manifestano dilazionate nel tempo”. E anche gli ambienti universitari, con sporadiche eccezioni, “si sono rivolti ad argomenti diversi dallo studio dei cancerogeni negli ambienti di lavoro, in termini sia di ricerca, sia di indagini sul campo”. Inoltre ormai “molti organismi pubblici centrali e molti Servizi per la Prevenzione e la Sicurezza negli Ambienti di Lavoro del Servizio Sanitario pubblico hanno ampiamente dismesso il proprio ruolo di produzione scientifica e di governance, con ampie parti di territorio nazionale particolarmente ‘scoperte’”.

 

Non deve dunque stupire che “vi sia una deriva ‘negazionista’ del problema ‘rischio cancerogeni negli ambienti di lavoro di oggi’, che si tenda a dare per scontata l'inesistenza di tale rischio fin quando non accada ‘qualcosa di grosso’ (da una pur rara richiesta dell'organo di vigilanza a un caso di cancro tra i lavoratori che in qualunque modo agiti le acque)”.

E non stupisce che “non solo molti datori di lavoro (la natura della cui attività professionale è certamente altra dalla valutazione dei rischi), ma anche molti studi di consulenza che per questi operano e che dovrebbero occuparsi e sapersi occupare di valutazioni dei rischi dal punto di vista tecnico, abbiano omesso e omettano di porsi la domanda ‘c'è o può esserci un rischio cancerogeno in questo contesto lavorativo?’ a meno che non siano un'etichetta o una scheda di dati di sicurezza (SDS) a mettere la cosa in piena evidenza”.

 

Un nuovo atteggiamento verso il rischio cancerogeno

È indispensabile – continua il relatore - che si adotti “un atteggiamento diverso, prudente e pragmatico, da parte di tutti gli interpreti in scena: porsi più domande, non fermarsi alle etichette o alle SDS, informarsi e studiare (già le sole banche - dati gratuite liberamente disponibili in rete sono ricchissime di informazioni utili), cercare soluzioni per la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è o lo è meno, consultarsi”.

Dove consultarsi “vuol dire anche fare delle riunioni periodiche di prevenzione che non siano meri atti rituali e ascoltare i lavoratori che possono raccontare come si svolge il lavoro, anche in situazioni non codificate da procedure aziendali”.

 

Per una reale prevenzione nei luoghi di lavoro è poi necessario “tenere presente che agenti cancerogeni possono comparire in un ciclo produttivo non solo perché presenti ab initio nelle materie prime o in qualunque altra cosa che nel processo produttivo entri dall'esterno, ma anche perché essi si generano durante il processo produttivo medesimo”.

 

Inoltre “non bisogna dimenticare che non esistono soltanto i cancerogeni chimici, che una qualche probabilità di essere menzionati in un'etichetta o una SDS ce l'hanno: gli agenti fisici, biologici e relazionali un'etichetta e una SDS non ce l'avranno mai”.

 

Tenendo conto di tutto questo sarà, dunque, “con minore aleatorietà e maggiori probabilità di una gestione utile dei problemi che si giungerà a concludere in una parte dei casi per la completa assenza di agenti cancerogeni, in altra per la presenza di rischi cancerogeni solo potenziali, in altra ancora per la presenza di esposizioni a cancerogeni in atto, che per poter essere affrontate andranno caratterizzate a fondo anche chiarendone il profilo in termini di timing e intensità”.

 

Concludiamo segnalando che la relazione, che vi invitiamo a visionare integralmente, si sofferma su molti altri aspetti relativi ai rischi cancerogeni:

  • le difficoltà nel caratterizzare le esposizioni;
  • le dimensioni e l’identificazione dell’esposizione;   
  • cosa fare dopo il riconoscimento della presenza del rischio.

 

 

   

Tiziano Menduto

 

 

Scarica il documento da cui è tratto l'articolo:

Regione Emilia Romagna, Inail, Ausl Modena, “REACH. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di vita e di lavoro”, pubblicazione che raccoglie gli atti dei due convegni “REACH  2016. TU2016, REACH e CLP. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP e le novità nella gestione del rischio chimico nei luoghi di vita e di lavoro” e “REACH edilizia. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nell’ambiente da costruire e nell’ambiente costruito” (formato PDF, 13.34 MB).

 

 

Vai all’area riservata agli abbonati dedicata a “ I regolamenti REACH e CLP e i luoghi di lavoro”.

 

 

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