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Infortuni sul lavoro: i primi responsabili

Infortuni sul lavoro: i primi responsabili
Redazione

Autore: Redazione

Categoria: Valutazione dei rischi

07/02/2018

Scarsa cultura della sicurezza e frammentazione del lavoro sono i primi responsabili degli incidenti. L’analisi dell’esperto Stefano Palumbo in 10 punti.

Stefano Palumbo, ricercatore sociale e formatore, specializzato sui temi del lavoro e delle trasformazioni aziendali, ha incrociato la strada dell’ANMIL all’inizio degli anni 2000, in occasione di un’iniziativa di ricerca promossa dall’Associazione sulle tematiche di genere legate alle donne vittime del lavoro.

 

Ci dica di più sui contenuti della collaborazione con l’ANMIL?

Alla fine del 2002, l’ANMIL promosse un sondaggio sulla condizione della donna infortunata, in vista della Giornata della Donna, l’8 marzo del 2003. Mi fu chiesto di compiere un’analisi interpretativa di quei dati. Allora il fuoco del ragionamento fu il concetto di segregazione di genere nel lavoro, che utilizzai come chiave di lettura della condizione di donne che, a causa dell’infortunio subito, si trovavano escluse dal mondo del lavoro. Una delle cose che notavo allora era che, per quelle donne, risultava difficile dire di sentirsi discriminate in quanto donne, nonostante i dati oggettivi testimoniassero senza dubbio la presenza di discriminazioni. Il mancato riconoscimento di un problema reale colpiva in parte anche le vittime di tale problema.

 

Che cosa è cambiato per le donne nel lavoro da allora ad oggi?

Direi non moltissimo. I miglioramenti della condizione lavorativa femminile sono proseguiti, secondo la tendenza lentissima di allora. Nel 2002 circa il 37% degli occupati italiani era di genere femminile. Oggi (dato medio del 2016, l’ultimo disponibile, ndr) siamo al di sotto del 42%. 

La crisi della fine degli anni 2000 e la stasi economica degli anni più recenti ha rallentato la crescita della presenza femminile, ma non l’ha bloccata. Certo, se tale crescita continuerà così lentamente, prima di avere l’equilibrio di genere nel mondo del lavoro dovremo aspettare il 2050: di tale parità di opportunità godranno le nostre figlie e nipoti. Va notato che gli anni della crisi hanno agito in maniera diversa da paese a paese, a seconda della condizione femminile pre-esistente. Negli Usa, ad esempio, gli anni più duri della crisi, in cui molti persero il lavoro, furono anche quelli del “sorpasso”: per la prima volta le donne occupate superarono la soglia del 50%. Fu quindi un sorpasso regressivo, ma in sostanza le donne nordamericane dimostrarono di essere più capaci di mantenere il proprio lavoro rispetto ai colleghi uomini. Oggi, comunque, a mio avviso la questione di genere pesa un po’ meno nel mondo del lavoro, mentre sta emergendo sempre più la questione generazionale.

 

 

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Oggi le nuove generazioni lamentano la difficoltà di trovare lavoro. Ma, come dicono gli ultimi dati statistici, il lavoro nero e irregolare sono sempre più diffusi. Come si può spezzare questo circolo alimentato dagli stessi lavoratori che si rendono “complici” di un ricatto?

Il lavoro nero, in effetti, è aumentato, ma va considerato che, analizzando i dati di medio-lungo termine, l’economia sommersa è calata, rispetto agli anni precedenti alla grande crisi che ha colpito l’economia mondiale e la nostra: eravamo attorno al 17% del nostro Pil, ora siamo al 12-13%. Mettendo insieme questi due dati – il “sommerso” è in calo, ma ci stanno dentro più lavoratori – si possono trarre a mio avviso due conclusioni. La prima è che esiste un sommerso sempre più “misero”, a cui si rivolgono tanti disperati che però non ne traggono benessere, a danno della comunità, bensì solo lo stretto necessario per sopravvivere. Un’altra considerazione è che probabilmente è aumentata l’osmosi fra area sommersa e area emersa del lavoro. Credo che siano aumentati i lavoratori che fanno prima un lavoro in chiaro, poi uno o due in nero, poi ne trovano per un po’ un altro con contratto regolare, magari nel frattempo arrotondano con qualche altro lavoretto non dichiarato, etc. Insomma, temo che sia una palude, in cui una parte crescente della nostra forza lavoro viene risucchiata. Quindi – sebbene sia vero che il sommerso volontario, strategico, di chi evade per scelta per arricchirsi a scapito della società, coinvolga non solo gli imprenditori, ma anche una fascia di lavoratori – non va scartata l’ipotesi che sempre più persone non abbiano più veri margini di scelta per rimanere nell’economia regolare. Il termine “complici” quindi, lo userei con prudenza. Si tratta di quello che la psicologia sociale chiama un “doppio legame” e che credo ci aiuti a capire anche un fatto sociologico come questo: chi offre un lavoro in nero ci sfrutta, ma ci evita di pagare le tasse, dandoci l’illusione che ci convenga. Che è come dire: ”Mi fai male, ma mi fai anche bene (apparentemente)”. Credo che sia difficile spezzare questo doppio legame dall’interno, anche perché ha basi culturali profonde fra noi italiani, che abbiamo l’idea che le tasse siano qualcosa che si paga a “loro” (lo Stato, i gabellieri, i potenti, i politici) e non che serva a noi per avere una società efficiente, sicura, confortevole. È una sindrome che si può spezzare soprattutto dall’esterno, con politiche pubbliche. Io non sono esperto di materia fiscale, ma credo che si debbano combinare misure come il prosciugamento dell’economia in contanti, l’aumento della deducibilità fiscale di alcune spese per le famiglie (per fare in modo che i contribuenti onesti siano alleati dell’erario), controlli più duri e a “tolleranza zero”. Credo che, se si mettesse nella Costituzione l’impossibilità di fare condoni fiscali, faremmo molti progressi anche sul versante del lavoro nero.

 

Per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro, quale crede sia la leva su cui puntare per invertire un fenomeno che non riesce a cambiare? L’ANMIL ritiene che le colpe non siano mai da una sola parte e che per questo serva una formazione incisiva degli stessi lavoratori e non solo sulla carta.

Sul rischio di infortunio sul lavoro – e sulla quantità di morti che ne derivano – agiscono forze contrastanti: da un lato le nuove tecnologie e migliori modelli organizzativi consentono di rendere più sicuro il lavoro anche in quei luoghi (le industrie e i cantieri) in cui i pericoli sono da sempre più alti; dall’altro però vi sono alcuni fattori che rallentano i possibili progressi. Qui io collocherei in misura prevalente due aspetti, che però derivano da un fattore unico: il lavoro molto più frammentato che in passato. Il fatto che il lavoro sia molto più diffuso, meno concentrato, sia dal punto di vista del suo luogo fisico, sia in chiave di rapporto di lavoro, rende innanzitutto molto più difficile controllare le condizioni di sicurezza e garantire che esse siano implementate. Inoltre, la frammentazione rende molto più difficile istruire il lavoratore sui comportamenti che è prudente e salubre tenere e su quelli che invece vanno evitati. Negli ultimi 20-25 anni il diritto del lavoro ha, via via, visto ridurre l’ampiezza della sua influenza: sempre più attività e sempre più persone sono fuori dall’ambito in cui esso interviene. Questa deregolazione ha fatto, a mio avviso, arretrare anche la penetrazione dei controlli e delle garanzie sulla sicurezza. Molto importante, in tal senso, è stato per decenni il ruolo delle organizzazioni sindacali, agenti diretti del diritto del lavoratore ad essere garantito sulle condizioni del proprio lavoro. Oggi i sindacati sono assenti da “spazi” crescenti del territorio del lavoro e questo non può non influire anche sui comportamenti dei lavoratori stessi.

 

Le leggi in materia di sicurezza però ci sono e sono anche molto precise. Perché non vengono rispettate e che cosa si potrebbe fare per cambiare la situazione?

La sfida mancata è certamente la scarsa cultura della sicurezza, anche sul lato dei lavoratori. Nella vita quotidiana noi non vediamo ciò che avviene nelle fabbriche, ma possiamo osservare con facilità i cantieri, i lavori pubblici, le ristrutturazioni di edifici: in molti casi sono gli stessi lavoratori a trascurare le condizioni di sicurezza. Il fatto che molta di questa forza lavoro sia di origine straniera e non abbia alcun rapporto con i soggetti preposti a garantire la sicurezza (rappresentanti sindacali e responsabili aziendali per la sicurezza) peggiora certamente la situazione. La cultura della sicurezza, dunque, è decisiva; ma non dobbiamo illuderci che essa dia frutti nel breve termine, che possa abbassare il tasso di incidentalità e di mortalità lavorativa. Io temo, fra l’altro, che le nuove generazioni siano abbastanza sguarnite di fronte a questi temi (anche perché spesso mancano della socializzazione al lavoro, che una volta si aveva entrando nelle grandi organizzazioni della produzione di massa), mentre potrebbero e dovrebbero essere portatrici di una cultura diversa.

 

I giovani sono i principali candidati ad essere i protagonisti della digitalizzazione del lavoro. A suo parere sta avvenendo?

No, io credo che avvenga solo parzialmente, per una minoranza di giovani. Il fatto che i giovani siano, come si usa dire, “nativi digitali” non garantisce di per sé che siano capaci di usare efficacemente (e in maniera sicura!) le tecnologie digitali. L’abilità manuale non significa necessariamente capacità di uso evoluto, non significa capire che ci possono essere danni alla salute (per la vista, per la postura del collo e della schiena, per gli arti), non significa essere consapevoli dei rischi di dipendenza. Anche qui, dunque, la sfida centrale è quella dell’educazione. Una sfida che non si risolve affatto con la possibilità di portare gli smartphone a scuola, come un po’ alla leggera si è recentemente deciso, ma con una formazione specifica, per la quale non credo che siano numerosi i professori già preparati. Si tratta di un’educazione oggi affidata solo ai genitori: ammesso che ne siano consapevoli, ammesso che ne siano capaci, ammesso che siano attenti, ammesso che siano in grado di farsi ascoltare dai ragazzi.

 

 

Tuttavia il digitale è al centro delle trasformazioni del lavoro. Lei ha condotto recentemente alcune ricerche su questi temi.

Sì, ho diretto fra il 2016 e il 2017 un paio di studi previsionali, che hanno tracciato un affresco su dove andranno il lavoro e l’azienda nei prossimi anni. Ho utilizzato una metodologia – il Delphi – che si basa sulla consultazione di panel di Esperti, in forma sistematica e con una verifica dettagliata delle singole ipotesi previsionali. Ho quindi coinvolto complessivamente una ventina di persone, in parte del mondo accademico, in parte protagonisti, come imprenditori e manager, del mondo dell’impresa. In sostanza abbiamo analizzato le implicazioni della trasformazione digitale che va sotto il nome di “Impresa 4.0” e che è recentemente entrata anche nel “radar” delle politiche pubbliche. Tale modello di organizzazione delle attività economiche significherà varie cose. Innanzitutto una ridefinizione dei prodotti e dei servizi e del modo di proporli sul mercato (fenomeni come Amazon, Airbnb, Uber, TripAdvisor, Spotify, etc. saranno sempre più frequenti e nasceranno anche qui da noi). In secondo luogo, si tratterà di riorganizzare i modi di lavorare, abbattendo le barriere organizzative, favorendo l’autonomia e il coinvolgimento del personale, prendendo le decisioni in base ai dati, che la digitalizzazione rende disponibili in grande quantità e varietà, anziché con criteri “nasometrici”. Infine, in funzione di questi due mutamenti, serviranno anche molte più competenze, non solo digitali, ma anche di altro genere (comunicare, negoziare, organizzare le informazioni e le idee, gestire autonomamente progetti articolati, valorizzare il contributo dei propri collaboratori e colleghi, etc.).

 

E secondo le sue ricerche le imprese italiane sono pronte per questa sfida?

Solo in parte. L’Italia imprenditoriale è spesso creativa nell’ambito dell’innovazione di prodotto (e in parte di servizio), ma è assai conservatrice sul terreno dell’innovazione organizzativa e del ricorso alle competenze manageriali. Inoltre è assai riottosa ad investire nella formazione del personale, che è spesso considerata un lusso, anziché una necessità (come invece andrebbe considerata). Questo è un fattore decisivo per la nostra competitività nei mercati globali, ma anche per le chance professionali delle persone, di chi è appena entrato o entrerà nei prossimi anni nel mercato del lavoro. Il differenziale (negativo) di competenze, che si genera quando si lavora in organizzazioni avare di investimenti formativi, è una delle ragioni per cui molti giovani vanno all’estero.

 

A proposito di formazione, che cosa pensa dell’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro?

Mi lasci fare un passo indietro. All’inizio del Novecento fu introdotta (negli Stati Uniti) la catena di montaggio, una delle forme più alienanti e pericolose di lavoro della nostra epoca. Si semplificavano le mansioni operaie, si affidava il ritmo del lavoro alla catena anziché al lavoratore, si faceva in modo di definire con estrema precisione perfino i singoli gesti che l’operaio doveva compiere. Erano lavori semplicissimi, che spesso venivano svolti da immigrati europei (italiani, irlandesi, polacchi, etc.), semianalfabeti, incapaci di parlare inglese, dediti fino a quel momento al lavoro contadino. Ma i lavori erano così semplici che si imparava a svolgerli bene in una settimana al massimo, a volte in soli due giorni. Non c’era bisogno di formazione, si guardava l’operaio a fianco e si facevano gli stessi gesti.

 

Ora torno ai giorni nostri. Mio figlio ha 11 anni ed è appassionato, da vari anni, dei panini di McDonalds. Tre-quattro anni fa, quando ce lo portavamo, ci teneva ad essere lui a controllare che il vassoio contenesse tutto ciò che avevamo ordinato e a portarlo al nostro tavolo. A 7-8 anni era perfettamente in grado di farlo. Ora, se mandiamo degli adolescenti in alternanza scuola-lavoro a fare i camerieri da McDonalds, cosa pensiamo che imparino, oltre le abilità che mio figlio aveva da piccolo? Veramente siamo convinti che, portando panini ai tavoli, uno studente di 16 anni apprenda capacità coerenti e utili per i suoi studi? Gli stage e l’alternanza hanno senso se insegnano capacità più sofisticate di quelle che può dare la scuola, altrimenti sono solo sfruttamento del lavoro gratuito da parte delle imprese e, per i ragazzi, perdita di tempo e distrazione dallo studio. Il paragone con la catena di montaggio non l’ho fatto a caso: oggi molti di quei lavori alienanti e pericolosi di un secolo fa vengono svolti in maniera migliore e più veloce da sistemi di robotica industriale e gli ambienti industriali sono complessivamente più sicuri e più salubri. Nel prossimo futuro – prossimo, eh, non fra 30 anni! – anche molti dei lavori di servizio alle persone verranno svolti da robot, perché sono talmente semplici da richiedere pochissima intelligenza e abilità fisica. Se si vogliono accostare i giovani al lavoro, va fatto in maniera molto più evoluta, progettando esperienze sfidanti, capaci di suscitare la loro attenzione e di spronarli a studiare di più e meglio.

 

I robot dunque elimineranno molti lavori alienanti, sgradevoli, nocivi, pericolosi. Ma creeranno disoccupazione?

Attenzione, non svolgeranno solo lavori semplici, noiosi o nocivi, ma via via si inseriranno in spazi lavorativi più sofisticati e professionalmente complessi. Sono cose che stanno già succedendo oggi. Uno degli Esperti dei panel, di cui parlavo prima, raccontava durante uno dei nostri seminari che la sua azienda ha già automatizzato – con strumenti di Intelligenza Artificiale – una tipica funzione manageriale: fare offerte economiche ai clienti. La sua azienda ne emette centinaia di migliaia all’anno e su ognuna vanno proposti sconti che invoglino i clienti. Si sono accorti che, affidando ai computer la decisione sul livello di sconto da praticare, gli ordinativi aumentavano, gli sconti praticati si potevano ridurre e quindi il profitto cresceva. I loro manager, però, si sono ritrovati una funzione in meno. Tanto i lavoratori quanto i dirigenti, quindi, si dovranno confrontare con la riduzione di numerose delle loro mansioni, se non con la sparizione della loro figura professionale. La disoccupazione, tuttavia, si avrà soltanto se non si accetterà l’idea che vada ridotto l’orario di lavoro, per redistribuire il tempo lavorativo fra più persone possibili. In Germania lavorano meno ore di noi, 1.363 per occupato nel 2016, contro le 1.730 degli occupati italiani, ma producono di più. In Francia se ne lavorano 1.472; persino nel Regno Unito, dove i sindacati sono molto più deboli che da noi, se ne lavorano solo 1.676; in Grecia, invece, dove sono molto più poveri, se ne lavorano 2.035 all’anno. Naturalmente, per stare al passo con l’innovazione tecnologica, una parte cospicua del tempo che si libererebbe dal lavoro dovrebbe essere rivolta ad una solida formazione, dedicata a competenze più sofisticate. Studiare ed apprendere tutta la vita dovrà diventare sempre più un diritto e un dovere per tutti.

 

 

 

Fonte: ANMIL



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Rispondi Autore: Paolo Marzollo - likes: 0
07/02/2018 (13:19:55)
La valutaione è molto interessante, ma mi permetto di lanciare un sasso: come mai percentualmente gli infortuni avvengono soprattutto nell'età compresa tra i 35 e 45 anni? Vi è forse una sommatoria di troppa sicurezza del lavoratore (abitudine) unita ad una riduzione dei tempi di reazione?

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