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Considerazioni sul DVR: il linguaggio, la struttura e la valutazione

Considerazioni sul DVR: il linguaggio, la struttura e la valutazione

La seconda parte delle riflessioni e considerazioni, a quasi trent’anni dal D.Lgs. 626/1994, sul documento di valutazione dei rischi. La struttura, il linguaggio, la sintesi e i rischi da valutare. A cura di Alessandro Mazzeranghi.

Pubblichiamo la seconda parte di un interessante contributo scritto da Alessandro Mazzeranghi sul delicato tema della realizzazione e gestione del documento di valutazione dei rischi.

 

Nel contributo “A quasi trent'anni di distanza: considerazioni sul documento di valutazione dei rischi” l’autore non solo si sofferma sull’importanza di un documento che sia realmente il centro focale dell'organizzazione aziendale e che sia fruibile da tutti, ma presenta, in questa seconda parte, anche una possibile struttura del DVR ricordando la necessità di un linguaggio unico e comprensibile.

 

Insomma un contributo che offre utili indicazioni, come indica l’autore nelle conclusioni, per favorire “una più semplice e più efficace gestione del documento di valutazione dei rischi”, un documento che sia realmente uno “strumento di condivisione e comunicazione fra azienda e lavoratori”.

 

Ricordiamo che la prima parte del contributo è stata pubblicata nell’articolo “ Considerazioni sul documento di valutazione dei rischi”.

 


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A quasi trent'anni di distanza: considerazioni sul documento di valutazione dei rischi – seconda parte

 

La struttura del DVR

Probabilmente molti hanno già identificato il problema maggiore che si presenta a voler creare un documento con le caratteristiche sopra descritte (descritte nella prima parte dell’articolo, ndR): i metodi di valutazione dei rischi, considerando per esempio quelli esplicitamente nominati nel decreto legislativo 81 del 2008, sono diversi fra loro o almeno appaiono tali, e quindi per rispettare sia i principi generali sulla valutazione dei rischi espressi al titolo 1 che quelli specifici espressi nei titoli successivi, ancora una volta dando per scontata la conformità legislativa, ci troviamo spesso in difficoltà.

 

Ad esempio il rischio chimico e il rischio di potenziali atmosfere esplosive non si valutano allo stesso modo, o perlomeno hanno tutta una parte di studio che potremmo definire preliminare ma assolutamente necessaria che segue metodologie logiche completamente diverse, perché gli effetti dell'uno e dell'altro sono assolutamente diversi: il rischio chimico, che influisce sulla salute delle persone ma non provoca un danno istantaneo quando si presenta, è ben diverso dal rischio Atex, che invece provoca un danno istantaneo ovvero infortunistico. Questi due aspetti hanno delle peculiarità talmente specifiche e un'importanza tale che ci spinge a studi ben approfonditi di diverso tipo: da una parte un'accurata analisi delle sostanze chimiche e degli effetti che queste possono provocare sulle persone, oltre naturalmente dei modi d'uso e del tipo di utilizzo che se ne fa (in circuito chiuso o in circuito aperto, e così via); dall'altra, invece, lo studio, per determinate sostanze infiammabili (gas o polveri), di quali siano le possibili concentrazioni che in caso di guasto prevedibile o di situazione prevedibile si potrebbero presentare in aria, per capire se queste concentrazioni sono compatibili con una esplosione significativa. È evidente che le due attività di studio preliminare sono completamente diverse fra loro e richiedono addirittura competenze specialistiche diverse, per cui la lettura dei loro risultati da parte di un non specialista sarebbe del tutto inutile, nel senso che non riuscirebbe a trasmettere tutte le informazioni utili e necessarie, ma potrebbe addirittura generare confusione o inutili timori.

 

Per tale ragione, a mio avviso, il DVR deve essere un documento di sintesi dei vari studi, volto a trasmettere a tutti una visione completa dei rischi presenti in un determinato luogo di lavoro senza entrare in dettagli specialistici, ma facendo piuttosto ben capire le conseguenze di certi eventi, che possono essere evitate a patto di tenere comportamenti adeguati. Per citare un caso piuttosto semplice ma fondamentale nella realtà dell'infortunistica storica industriale: se abbiamo una zona in cui si possono formare atmosfere esplosive, è assolutamente vietato utilizzare fiamme libere, tipo per eseguire saldature, a meno che la zona non sia stata messa in sicurezza e bonificata e infine controllata e dichiarata priva di presenza di gas, che in gergo si dice “gas free”. Come vedete, a fronte di una situazione che non può essere gestita integralmente per via tecnica, vi è tutta una serie di comportamenti, di diverse persone con diverse competenze, che rendono sicura, rispetto al rischio di esplosione, quella operazione di saldatura, che può essere necessaria perché, poniamo, dobbiamo stendere una nuova linea di trasporto gas adiacente a una esistente che è in uso.

 

In un documento di sintesi ovviamente devo utilizzare un linguaggio unico, che consenta di confrontare a prima vista i vari rischi a cui il singolo soggetto è sottoposto: in caso contrario il documento fallirebbe il suo obiettivo perché non permetterebbe di dare una priorità realistica alle misure di controllo dei rischi residui. E quindi è necessario che dai vari studi specialistici emergano delle sintesi omogenee e chiare, come del resto chiede la legge, che possano essere comprese e classificate da chiunque. L'unico modo per ottenere questo risultato è quello di stabilire un metodo di descrizione del rischio relativamente semplice, sia in merito alle fonti di rischio (restando nell'esempio: presenza di sostanze chimiche dannose per la salute, oppure presenza di sostanze infiammabili che possono, sotto particolari condizioni, essere fonti di esplosione), sia in merito alle conseguenze (danni irreversibili all'apparato respiratorio oppure ustioni o effetti di violenti spostamenti di aria, fino alla morte a causa dell'esplosione).

Occorre particolare chiarezza nell’esporre le misure da adottare per evitare che determinati rischi residui esistenti possano trasformarsi in fonti di infortunio o malattia professionale.

 

L'ordine in cui indichiamo questi fattori naturalmente ne cambia in parte la natura, ma non la sostanza, perché qualunque sistema utilizzato per la stima e la valutazione del rischio sarà sempre basato sui fattori di probabilità e gravità, e quindi si tratterà di stabilire se la probabilità del rischio residuo - unico fattore variabile - la consideriamo prima o dopo l'applicazione delle misure di controllo del rischio stesso.

 

Nel prossimo paragrafo cercheremo gli chiarire meglio questo aspetto, ma già da ora vorremmo sottolineare che è la possibile gravità del danno che influenza l'attenzione al comportamento da tenere, sia che questo comportamento sia semplicemente il rispetto di una regola non proprio istintiva, sia che invece corrisponda con l'evitare azioni assolutamente innaturali ma evidentemente possibili e prevedibili in senso astratto, sebbene siano al tempo stesso scomode e inutili sotto tutti i profili, compreso quello di una migliore efficacia produttiva.

 

Una possibile strutturazione della sintesi del DVR

 

 

Ho detto che la sintesi del documento di valutazione dei rischi deve essere facilmente comprensibile e anche organica, ovvero organizzata secondo un unico metodo che utilizzi terminologie e concetti di uso comune e quindi comprensibili a tutti i soggetti che hanno nel loro bagaglio culturale una comprensione della lingua italiana che potremmo collocare, nel flusso degli studi tipici di un cittadino italiano, a livello di terza media. Ripeto ancora che il problema generato dalla mancanza di una buona conoscenza della lingua da parte di lavoratori che provengono da paesi stranieri, e in particolare da parte di quelli che non solo hanno difficoltà linguistiche ma anche calligrafiche (dovute al fatto che provengono da paesi orientali o dal Nord Africa, dove gli alfabeti sono diversi dal nostro) è un problema che esiste ed è serio, e non può essere risolto ignorandolo, ma piuttosto aiutando queste persone ad acquisire le conoscenze minime linguistiche e di scrittura per poter operare in piena autonomia e libertà all'interno del nostro Paese. Pensare di tradurre le istruzioni di sicurezza nella lingua madre dei lavoratori, come fece a suo tempo una regione dell'Est dell'Italia con uno sforzo notevole e con un'efficacia encomiabile, è comunque solo un palliativo temporaneo che deve essere superato, perché operare regolarmente e continuativamente in un ambiente lavorativo in cui o di cui non si capisce perfettamente la lingua è di per sé una serissima fonte di rischio, perché i possibili fraintendimenti comporterebbero equivoci che a loro volta causerebbero comportamenti assolutamente pericolosi.

 

Di tale questione non intendo occuparmi in questa sede, perché si tratta di qualcosa che deve essere risolta a monte, a livello di conformità legislativa, poiché ogni persona deve essere messa in una situazione lavorativa in cui la comprensione di ciò che è necessario per la salute e per la sicurezza è assolutamente garantita e lineare. Occupiamoci invece di chi capisce perfettamente la lingua italiana e quanto viene scritto nella medesima lingua, naturalmente attraverso linguaggi non specialistici, o comunque che siano stati perfettamente insegnati ai destinatari dell'insieme di indicazioni che costituisce la valutazione dei rischi.

È evidente, ad esempio, che la differenza fra i termini “rovesciamento” e “ribaltamento” interesserà al conduttore di carrello elevatore e non all'operatore di macchina, per cui anche la conoscenza terminologica a cui faccio riferimento sarà diversa in funzione della mansione lavorativa svolta. In altri termini, qualunque strumento documentale noi vogliamo utilizzare per spingere i lavoratori ad adottare comportamenti il più possibile sicuri dovrà essere adeguatamente illustrato e spiegato per le parti di interesse, per ridurre al minimo il rischio di fraintendimenti.

 

A questo punto vorrei fare un piccolo elenco di quei campi che un’ipotetica tabella dovrebbe contenere, secondo la mia opinione, per rendere ogni lavoratore edotto sulla situazione di salute e sicurezza a cui è esposto e sulle misure da adottare, oltre che sull'importanza effettiva di tali misure, non tanto perché ce ne sia una più importante e un’altra meno, ma piuttosto perché alcune misure, come si dice anche dei dispositivi di protezione individuali, proteggono da danni relativamente modesti, mentre altre salvano la vita. Devo però prima di nuovo precisare che la misura primaria di salute e sicurezza che ognuno deve adottare è quella di operare solo ed esclusivamente nell'ambito di propria competenza lavorativa, ovvero rispettare la propria mansione operativa senza mai andare oltre; in caso contrario tutto il sistema decade, perché se ognuno decide autonomamente qual è il suo compito, l'intera organizzazione degenera rapidamente verso l'anarchia.

 

 

Detto questo, l'ipotetica tabella riepilogativa dei rischi presenti in una determinata area per tutti coloro che vi operano, considerando comunque che non tutti sono soggetti agli stessi rischi ma a un sottoinsieme dell'elenco completo di rischi per quell'area, potrebbe contenere questi campi:

 

  • Area di riferimento

 

  • Rischi residui, ovvero effettivamente presenti in relazione anche a una sola attività lavorativa svolta correttamente nel rispetto delle regole generali, specie quella di non rimuovere senza autorizzazione specifica predisposizioni di sicurezza per la propria persona o per le altre persone:
    • Tipici dell'area
    • Tipici di ciò che è presente nell'area (siano esse attrezzature di lavoro, sostanze chimiche, agenti fisici ecc.) che possa influire sulla sicurezza e la salute di chiunque si trovi in tale area, anche senza che effettui specifiche attività operative
    • Tipici delle attività lavorative che si svolgono in quell'area, distinti chiaramente per attività lavorativa

 

  • Misure da adottare per tenere pienamente sotto controllo i rischi sopra elencati, che ribadisco essere rischi residui, cioè che non possono essere eliminati a meno di rendere impossibile l'attività lavorativa, ma che possono essere totalmente tenuti sotto controllo mediante adeguate misure

 

  • Valutazione del rischio residuo a valle delle misure; io qui suggerirei di concentrare l'attenzione sull'aspetto umano, e quindi valutare il rischio sulla base di due categorie concettuali:
    • Gravità del possibile danno, considerata sempre secondo un criterio di ragionevolezza che qualche norma tecnica posiziona come il massimo danno possibile per il novantacinquesimo centile dei casi, escludendo quindi quel 5% (in cui, per esempio, uno scivolamento su un pavimento liscio porta alla morte perché la testa urta in un punto particolarmente sfortunato provocando un'emorragia arteriosa immediata) che renderebbe troppo piatta la stima dei rischi, o meglio della loro gravità, ma cercando di essere abbastanza inquietanti per aumentare il livello di preoccupazione e attenzione dei lavoratori
    • Probabilità che si verifichi il danno, che però non può essere legata strettamente a un fattore statistico (perché i fattori statistici li abbiamo già superati, almeno in gran parte, quando abbiamo stabilito che parliamo di rischi residui): quello che ci interessa a questo punto è la oggettiva probabilità che ci sia un comportamento umano che elude o ignora le misure di controllo del rischio indicate, e che quindi espone il lavoratore al rischio medesimo. Le categorie potrebbero essere le seguenti:
      • rischio a cui comunque ci si espone lavorando correttamente, e un rischio di tal fatta può essere ammesso solo se il danno è talmente insignificante da essere poco più che un arrossamento della pelle o un lieve fastidio a un arto
      • rischio a cui ci si espone se non si rispettano regole di sicurezza che indichino comportamenti sicuri ma non del tutto istintivi; quindi che un lavoratore non adeguatamente cosciente potrebbe non osservare senza rendersi pienamente conto di esporsi a un rischio
      • rischio a cui si può esporre solo chi tiene un comportamento abnorme, ovvero non solo vietato ma anche inutile, non istintivo e chiaramente soggetto a un rischio grave o gravissimo.

 

Qualcuno a questo punto domanderà: “Ma perché non vogliamo valutare anche il rischio prima delle misure di controllo del medesimo?”.

Forse dal punto di vista logico, come a suo tempo ho sempre sostenuto, sarebbe interessante, ma dando per scontato che le misure devono essere adottate, e che la nostra valutazione del rischio in realtà è relativa alla possibilità che le misure non vengano adottate, mi pare che nel caso di rischio residuo come lo abbiamo descritto sinora una doppia valutazione non dia assolutamente valore aggiunto. La doppia valutazione era utilissima quando si parlava di misure tecniche, perché dimostrava che il rischio aveva una certa entità prima dell'adozione della misura, e che la misura stessa portava un determinato vantaggio che poteva in qualche maniera entrare in un ragionamento costi/benefici da parte del datore di lavoro (che diceva, secondo una normale logica aziendale: “Io adotto le misure che col minor impatto economico mi portano la maggiore riduzione del rischio”).

 

Qui nessuno dice di non adottare le misure di controllo dei rischi, ma si vuole semplicemente evidenziare, tramite la valutazione legata appunto alla mancata adozione delle misure da parte dei lavoratori, quanto i lavoratori stessi si espongano a un rischio più o meno elevato, e quindi si vuole indirizzare i lavoratori ad adottare prima di tutto e con la massima attenzione le misure che potremmo definire più rilevanti.

 

Il fine della valutazione dei rischi passerebbe quindi, secondo questa logica, dal convincere il datore di lavoro a spendere dei soldi per la sicurezza e la salute, al convincere i lavoratori ad adottare determinati comportamenti per la propria salute e sicurezza. E questo viene ad avere un valore anche in termini di vigilanza, perché il preposto che vigila ha così ben presenti su quali aspetti concentrare maggiormente la propria attenzione, e anche quali comportamenti devono essere più severamente sanzionati, perché immaginando un cammino educativo della forza lavoro verso comportamenti sicuri sarà opportuno procedere per gradi, poiché anche l'adozione di un sistema di vigilanza rigido e totalitario può comportare gravi controindicazioni e resistenze.

 

Tutti i rischi

Questo paragrafo è forse superfluo nel contesto del presente articolo ma ritengo che sia una questione da ribadire continuamente quando si parla di documento di valutazione dei rischi. Tale documento deve prendere in considerazione tutti i rischi, non solo quelli sommariamente elencati all'interno dei titoli dal secondo in poi del decreto legislativo 81 del 2008: esistono rischi che in tale decreto non sono presenti e che invece sono importanti, talvolta citati in altri documenti legislativi, talaltra completamente ignorati.

Propongo solo alcuni esempi e poi lascio alla fantasia e al buon senso dei lettori il completamento di questa lista che francamente, anche con la miglior buona volontà e impegno, non sarei mai sicuro di fare completa:

  • Rischi associati alla guida in strada pubblica dei mezzi aziendali durante l'attività lavorativa
  • Rischi associati alle piccole attività di manutenzione presso i clienti, attività che quindi non vengono svolte in regime di DUVRI
  • Rischi associati all'esercizio di impianti di processo che erroneamente, salvo i casi rientranti in direttiva Seveso, non vengono considerati come parte del titolo III capo 1 del decreto legislativo 81 del 2008
  • Simile al precedente: rischi chimici associati alle reazioni fra sostanze diverse e non all'effetto di una singola sostanza
  • Rischi di esplosione in situazioni che esulano dai criteri di classificazione Atex: per esempio rischi di esplosione derivanti dalla rottura di un big bag contenente polveri infiammabili durante il trasporto in un montacarichi non Atex

 

Chi svolge il mestiere di responsabile del servizio prevenzione e protezione non è un avvocato ma un tecnico, dotato di capacità di riconoscimento delle fonti di pericolo e di valutazione dei rischi grazie alla sua formazione personale e alla sua esperienza; in caso contrario non ha assolutamente diritto o titolo per fare il responsabile del servizio prevenzione e protezione all'interno di un'azienda complessa e caratterizzata da molteplici rischi. In certi contesti aziendali non basta assolutamente essere diplomati al liceo scientifico o tecnologico e aver seguito un corso di un centinaio di ore e superato un esame ridicolo per asserire di avere i titoli per svolgere il ruolo di RSPP. E inviterei i datori di lavoro a scegliere bene i loro responsabili, ovvero i loro consulenti di fiducia, a cui affidano la sicurezza dell'azienda e dei suoi lavoratori e la propria fedina penale, perché ricordiamoci che quando il datore di lavoro chiede all’RSPP di sviluppare per suo conto la valutazione dei rischi si assume integralmente la responsabilità del risultato conseguito, e ogni mancanza o errore sarà a lui attribuita sotto il profilo penale, sia che venga rilevata da un ente di controllo durante una normale ispezione, sia che emerga in caso di infortunio o malattia professionale. Valutare tutti i rischi è in questo specifico ambito la principale responsabilità del datore di lavoro, che non potrà mai delegare ad altri.

 

Conclusioni

Forse questo articolo presenta una visione sbilanciata verso quelle aziende che negli ultimi trent'anni scarsi si sono davvero impegnate per migliorare le condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori e che così facendo hanno modificato i loro layout, le attrezzature di lavoro (spesso sostituendole), i modi di lavoro, che hanno cercato di eliminare le sostanze chimiche pericolose, che hanno scelto dispositivi di protezione individuali sempre più performanti e idonei alle situazioni presenti, che hanno attentamente seguito lo sviluppo della legge che di anno in anno ha posto l'attenzione su aziende problematiche che prima erano sottovalutate, e così via. Però francamente esiste un gran numero di aziende di medie e grandi dimensioni che hanno seguito questo percorso (pur con errori oppure dimenticanze o con un certo livello di superficialità tecnica), e mi sembra giusto che a questo punto le aziende di cui sto parlando facciano un passo avanti verso una più semplice e più efficace gestione del documento di valutazione dei rischi, che non deve essere più un documento riservato alla sola dirigenza aziendale e ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, ma che invece deve diventare uno strumento di condivisione e comunicazione fra azienda e lavoratori, per migliorare radicalmente la gestione della sicurezza e della salute sul lavoro. In quest’ottica credo che l'idea proposta possa effettivamente avere un effetto migliorativo, senza nulla togliere alla coerenza pratica del documento di valutazione dei rischi dal punto di vista legale e difensivo.

 

 

 

- fine della seconda e ultima parte -

 

 

Alessandro Mazzeranghi

 

 

 

Il link per leggere la prima parte del contributo di Alessandro Mazzeranghi.

 


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Rispondi Autore: Giancarlo - likes: 0
09/06/2023 (09:16:52)
Credo che fare una valutazione dei rischi sia una delle cose più complicate del mondo, in quanto il comportamento umano di per sè è imprevedibile. Aggiungo che, come correttamente descritto, per valutare tutti i rischi e non solo quelli previsti dall 81/08 ci vuole un buona dose di fantasia che mal si concilia con le competenze puramente tecniche e che ci porta in un campo indefinito e indecifrabile.
Rispondi Autore: Unico - likes: 0
09/06/2023 (19:28:45)
Buongiorno se magari anche i lavoratori esperti e con anzianità di servizio venissero ascoltati molti danni si potrebbero evitare
Rispondi Autore: Franco Rossi - likes: 0
10/06/2023 (09:31:01)
Leggo e ... resto basito: " il rischio chimico, che influisce sulla salute delle persone ma non provoca un danno istantaneo quando si presenta, è ben diverso dal rischio Atex, che invece provoca un danno istantaneo ovvero infortunistico"! Ma l'autore ha mai sentito parlare di ustioni chimiche per acido solforico, di intossicazioni acute da ammoniaca, di morti per acido fluoridrico? Non gli dice niente il "Caso Molfetta"?
Si legga l'art. 223 dell'81 dove si dice chiaramente che occorre valutare "i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori".
Rispondi Autore: Autore - likes: 0
13/06/2023 (07:32:34)
Mi scuso ma sono stato frainteso: condivido che il caso molfetta sia infortunio e non malattia

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