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Training on the job: la trasmissione dell’abilità professionale


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La trasmissione dell’abilità professionale è un tema di grande attualità poiché riguarda la difficoltà dei giovani nell’ingresso del mondo del lavoro ed è strettamente collegato alla questione dell’ invecchiamento della popolazione aziendale.

 

L’abilità professionale non riguarda ovviamente la pura conoscenza teorica né tanto meno la mera emulazione delle pratiche del soggetto esperto: essa si configura piuttosto come una continua dialettica di teoria e pratica nella quale è possibile distinguere il soggetto esperto dal principiante proprio per la capacità di adattarsi in modo produttivo ai diversi contesti.

La dimensione del professionista è caratterizzato dalla compresenza e dalla complementarietà di due aspetti apparentemente opposti: è infatti un soggetto che abbina un massimo di automatismo con un massimo di flessibilità: l’automatismo dei processi operativi, la flessibilità dei processi decisionali.

 

La trasmissione dell’abilità professionale è come un processo di doppia conversione: si tratta di una conversione da analogico a digitale nel soggetto esperto, il quale per poter insegnare il proprio lavoro deve fermare il fluire dell’esperienza quotidiana, scomporlo, analizzarlo e verbalizzarlo per il soggetto inesperto; al contrario il soggetto che apprende deve operare una conversione da digitale ad analogico, deve quindi tradurre delle strategie, comunicate e acquisite in forma verbale, nella pratica del comportamento professionale.

 

Il soggetto esperto può trovarsi in difficoltà nella conversione dall’analogico al digitale: può essere consapevole della sua abilità ma non per questo essere in grado di trasmetterla. Gli aspetti molto automatizzati possono essere inaccessibili all’introspezione soprattutto quando sono stati appresi molto tempo prima. Questo ci riconduce allo scenario di aziende con popolazione esperta ma anziana che faticano a trasmettere le loro conoscenze ai nuovi assunti. La frase “faccio prima a farlo da solo che a spiegartelo” spesso scaturisce proprio da questa difficoltà di traduzione da analogico a digitale ma i suoi effetti sul soggetto in formazione possono essere molto distruttivi poiché può venire interpretata invece come una svalutazione delle proprie potenzialità.

 

Le difficoltà nella trasmissione dell’abilità professionale possono anche riguardare il soggetto inesperto: a volte, per studi scolastici, egli possiede vaste conoscenze teoriche, addirittura, in alcuni casi, in misura superiore al soggetto esperto. Basti pensare all’esempio dei neolaureati negli studi professionali: in questi settori quasi sempre le conoscenze del soggetto inesperto sono più aggiornate rispetto a quelle dei suoi mentori. Questa “superiorità” sul piano teorico rischia di predisporre il soggetto inesperto a un atteggiamento critico che gli impedisce di descrivere e ripetere le pratiche professionali.

 

Un altro tipo di difficoltà, di segno opposto, è quella dei giovani che tendono a classificare l’esperto in termini di bravura o doti personali e non in termini di organizzazione e processo. Questo tipo di giudizio conduce ad una visione statica dell’abilità professionale che tende a demotivare o addirittura bloccare il soggetto che apprende poiché considera irraggiungibili le performance dell’esperto.

 

A questo tipo di atteggiamento possiamo collegare le ricerche di Carol Dweck, psicologa della Stanford University, sulle credenze e teorie sull’intelligenza e le capacità. In psicologia sociale si studiano le cosiddette teorie implicite: sono delle credenze inconsapevoli su un determinato argomento che ognuno di noi possiede senza esserne cosciente. Carol Dweck ha scoperto che le persone si collocano lungo un continuum dove agli estremi abbiamo due diverse teorie implicite su cosa siano l’intelligenza e le capacità. Alcuni possiedono una fixed mindset, vale a dire una mentalità statica in merito a cosa sia l’intelligenza. In parole povere queste persone credono che l’intelligenza ed il talento siano innate e non modificabili e che il successo sia il risultato di abilità innate. Altri invece si caratterizzano per una growth mindset (mentalità dinamica) che considera le capacità e l’intelligenza come un processo in divenire dove il successo è conseguenza principalmente di studio, tenacia ed esperienza. Queste persone hanno un rapporto molto diverso con l’errore e il fallimento: le persone con fixed mindset fanno di tutto per evitare l’errore poiché, visto che considerano la performance come l’esito del proprio talento, fallire significa automaticamente non avere talento e quindi valere poco. Le persone con growth mindset hanno meno paura dell’errore perché considerano il fallimento un inevitabile passaggio nel processo di crescita ed un’occasione per migliorarsi. L’altra grande differenza tra i due tipi di mentalità è la concezione dell’impegno: per i primi l’impegno e lo sforzo non sono desiderabili perché per dimostrare il proprio talento prediligono attività con alto rendimento senza necessità di impegno, in altre parole: se l’insuccesso è dimostrazione di inadeguatezza e lo sforzo e l’impegno sarebbero solo delle strategie per cercare di nascondere la propria insufficienza. Per i secondi invece l’impegno è la chiave per il miglioramento poiché lo sforzo è una strategia che potenzia l’abilità. 

 

Queste due diverse concezioni della mente hanno importanti effetti sulle motivazioni e sugli obiettivi che le persone si pongono. Le persone con fixed mindset tenderanno a porsi unicamente obiettivi di prestazione: ad esempio sono gli studenti che puntano unicamente al bel voto per avere conferma del proprio valore. Gli individui con growth mindset, invece, si porranno degli obiettivi di padronanza, saranno maggiormente orientati al compito e alla crescita. Queste persone di fronte ad un compito che non sanno svolgere invece che affermare: “non sono capace” diranno “non sono ancora capace”.

 

Per i soggetti sia junior che senior che si cimentano nel complesso processo della trasmissione dell’abilità professionale è importante quindi orientarsi il più possibile verso una growth mindset, ricordandosi sempre che ciò che fa crescere le competenze sono l’impegno e un buon uso degli errori e dei fallimenti.

 

Massimo Servadio

Psicoterapeuta e Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni, Esperto in Psicologia della Salute Organizzativa e Psicologia della Sicurezza lavorativa

 

Bibliografia

Dweck, C. S. (2006). Mindset: The new psychology of success. New York: Random House

 



Creative Commons License Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.
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Rispondi Autore: Federico Trolese - likes: 0
23/11/2017 (08:30:52)
Interessante spunto di riflessione e chiave di lettura, utile per calibrare meglio gli affiancamenti o addestramenti che dir si voglia.

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