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Ci sono differenze di genere nel riconoscimento di infortuni e malattie?

Ci sono differenze di genere nel riconoscimento di infortuni e malattie?

Un intervento per parlare delle ineguaglianze nel riconoscimento delle malattie professionali e negli infortuni in itinere delle donne. Gli studi mostrano come la tabella delle malattie professionali non sia neutrale rispetto al genere.

Trieste, 11 Set – Se la prima legge italiana sul lavoro delle donne (Regio Decreto 242/1902) fu promulgata nei primi anni del secolo scorso attraverso l’impegno di un movimento femminile “che spese molte delle sue energie per migliorare le condizioni di lavoro nelle fabbriche riempite di bambine e di donne sottopagate”, sono diversi gli esempi, in Italia come tra le nostre immigrate negli Stati Uniti d’America, delle gravi carenze che hanno contrassegnato il Novecento in materia di sicurezza sul L'esposizione femminile a stress, violenze e stalking.

 

Per ricordarne alcuni possiamo fare riferimento ad un intervento raccolto nel volume “ Sicurezza accessibile. La sicurezza sul lavoro in una prospettiva di genere” curato da Giorgio Sclip ( Università degli Studi di Trieste) ed edito da EUT Edizioni Università di Trieste. Un volume che contiene i contributi del seminario di studi “ La sicurezza sul lavoro in una prospettiva di genere. Uomini e donne sono uguali?”, che si è tenuto l’8 marzo 2018 a Trieste.

 

Nell’intervento “Ineguaglianze nel riconoscimento delle malattie professionali e negli infortuni in itinere delle donne”, a cura di Silvana Salerno (ricercatrice dell’Enea), si mostra come la storia dell’insicurezza delle lavoratrici non si fermi tuttavia al Novecento, ma arrivi anche ai giorni nostri attraverso una costante ineguaglianza nel riconoscimento degli infortuni e delle malattie professionali tra lavoratori e lavoratrici.

 

Gli argomenti affrontati nell'articolo:



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Le differenze nel riconoscimento delle malattie professionali

Infatti la relatrice segnala come, a partire dagli anni novanta, diversi studi in Canada e in Svezia mostrano “come il tasso di riconoscimento delle malattie professionali nel genere femminile sia costantemente più basso di quello maschile” e come si assista ad una “sistematica discriminazione nel riconoscimento delle malattie professionali femminili”:

  • lo studio svedese indica che sono respinte il 77.2% delle denunce femminili verso il 56.4% di quelle maschili;
  • lo studio canadese mostra che sono riconosciute il 32% delle denunce femminili verso il 44% di quelle maschili.

 

Nel nuovo millennio un altro studio, curato da Isabelle Probst, “conferma il dato per la Svizzera (40% femmine vs 64% dei maschi per quanto riguarda le malattie professionali riconosciute)”. E altri dati riportati riguardano studi in Francia (48.9% femmine vs 51.1% dei maschi) e in Belgio.

 

Si segnala poi che in Italia è stato avviato un analogo studio che “mette a confronto il tasso di riconoscimento di tutte le malattie professionali per genere negli anni 2010-2013” e il confronto “viene effettuato per le malattie tabellate (Tabella 1), che rappresentano le malattie professionali per le quali in presenza dell’esposizione e della malattia il nesso di causa-effetto è acquisito e per quelle non tabellate, in cui il nesso causale va dimostrato dalla lavoratrice (Tabella 2)”. Lo studio considera le differenze anche per paese di nascita.

 

 

Rimandiamo alla lettura integrale dell’intervento che riporta ulteriori indicazioni e tabelle su un gruppo di malattie professionali da “sovraccarico biomeccanico dell’arto superiore”.

 

I dati dello studio evidenziano anche per l’Italia una “significativa diminuzione del riconoscimento delle malattie professionali nell’Industria-servizi per il genere femminile sia tra le nate in Italia sia tra le nate all’estero”.

Inoltre le differenze di genere “si evidenziano anche nel numero delle ‘malattie non tabellate’ che sono denunciate più frequentemente dalle donne”.

 

Si segnala poi che una differenza significativa, anche in questo caso penalizzante per il genere femminile, “permane anche nel ‘sovraccarico biomeccanico dell’arto superiore’, che rappresenta la prima voce tabellare delle denunce femminili”.

 

In definitiva la tabella delle malattie professionali “non è neutrale rispetto al genere”, ma appare “costruita sui mestieri maschili”.

Ed è stata proprio “l’esclusione delle più frequenti malattie professionali femminili, come quelle del sovraccarico biomeccanico dell’arto superiore, che ha determinato l’inserimento nel 2008 di questa voce tra le malattie tabellate”. Tuttavia non tabellate risultano ancora molte malattie da lavoro femminili quali “quelle delle infermiere, insegnanti, badanti (sindrome del bruciarsi, burn-out), violenze psicologiche (mobbing), molestie sessuali (sexual harrasment)”.

 

Rimandiamo, anche in questo caso alla lettura dell’intervento che riporta ulteriori indicazioni sulle malattie da disturbi psichici con diagnosi prevalenti di Disturbo dell’Adattamento (DDA) e di disturbo post-traumatico da stress (DPST), non tabellate, e su altri casi di malattie professionali meno riconosciute nelle donne, come, ad esempio, il mesotelioma pleurico dovuto all’esposizione ad amianto. 

 

Le differenze nel riconoscimento degli infortuni

La relatrice riporta diversi casi di infortunio in itinere, con o senza coinvolgimento di un mezzo di trasporto, e segnala che gli infortuni in itinere “rappresentano la prima causa di morte per le donne italiane e immigrate”.

 

Si indica che le differenze di genere negli infortuni in itinere, rilevate anche in altri Paesi europei, “potrebbero essere dovute alla mancanza di flessibilità degli orari di lavoro con un aumento di rischio di infortuni in itinere con mezzo di trasporto legati nella prima ora di lavoro. La sonnolenza potrebbe essere un’altra causa visto che la fascia oraria maggiormente interessata è quella mattutina. I mesi di ottobre-dicembre sono i mesi che potrebbero essere più critici per ragioni meteorologiche e/o forse anche organizzative per la conciliazione casa-lavoro”. 

 

In ogni caso in un’analisi puntuale dei singoli casi di donne morte per infortunio è stato confermato “come le donne muoiano maggiormente nel nord-est d’Italia, area di maggiore occupazione femminile, siano sposate con bambini, abbiano mediamente 40 anni di età, le immigrate più giovani, muoiano alla guida di autovetture medio-piccole, andando al lavoro nei servizi (cura, ristorazione, commercio) nell’arco temporale 4-9 del mattino, soprattutto il mercoledì nella stagione invernale a circa 15 chilometri dal domicilio”. E per quanto riguarda le inabilità da infortuni in itinere “il genere femminile si trova ad avere maggiori eventi in totale con una percentuale superiore per il genere femminile legata maggiormente alle inabilità da infortuni in itinere senza mezzo di trasporto”.

Inoltre – continua la relatrice – le donne “presentano un maggior numero di eventi che non hanno prodotto menomazione permanente ma esclusivamente una disabilità temporanea”, e questo elemento “necessita di essere approfondito”. Infatti potrebbe rappresentare una “discriminazione indiretta nel riconoscimento dell’invalidità permanente e in particolare di quella più grave (26-100%). Anche in questo caso, come per le malattie professionali, si tratterebbe dunque di riorientare per genere il riconoscimento delle menomazioni”.

 

In definitiva la relatrice rileva come infortuni e malattie professionali siano “differenti per genere e per Paese di nascita” e la lista delle malattie professionali “deve essere orientata a queste differenze che rappresentano condizioni lavorative diverse non ‘neutrali’ rispetto al genere e alla provenienza geografica”.

 

In particolare le ineguaglianze nel riconoscimento delle malattie professionali devono essere studiate e sanate “anche in termini assicurativi oltre che preventivi” e analoga attenzione “va posta alla valutazione delle disabilità, in particolare quelle da infortuni in itinere, e al loro riconoscimento che, in analogia con le malattie professionali, sembra essere meno tutelato nel genere femminile”.

 

 

Tiziano Menduto

 

 

 

Scarica il documento da cui è tratto l'articolo:

La sicurezza sul lavoro e le differenze di genere”, a cura di Giorgio Sclip (curatore della collana “Sicurezzaccessibile”, membro del Network Nazionale Focal Point Italia dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, Università degli Studi di Trieste), intervento tratto dal volume “Sicurezza accessibile. la sicurezza sul lavoro in una prospettiva di genere”, curato da Giorgio Sclip ed edito da EUT Edizioni Università di Trieste, correlato al seminario di studio “Sicurezza accessibile. La sicurezza sul lavoro in una prospettiva di genere. Uomini e donne sono uguali?” (formato PDF, 784 kB).

 

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Rispondi Autore: Vittorio Lodolo D'Oria - likes: 0
11/09/2019 (19:02:31)
Questo articolo mette in evidenza la "pagliuzza" (differenza tra generi) ma non ci accorgiamo che stiamo vivendo con la "trave". Si consideri l'83% del milione d'insegnanti donne e si noti il fatto che all'alba del terzo millennio non sono ancora riconosciute le loro patologie professionali. Queste non sono le condizioni "fuffa" descritte come burnout, stress lavoro correlato o disturbi psicosociali (tutte terminologie inutili ai fini degli indennizzi), ma vere e proprie patologie psichiatriche diagnosticate dai Collegi Medici di Verifica del MEF. Le inidoneità all'insegnamento per motivi di salute presentano VERE diagnosi mediche psichiatriche nell'80% dei casi. Francia e UK hanno presentato i dati che vedono la categoria professionale degli insegnanti come quella più esposta al rischio suicidario. E l'Italia non presenta i dati, che pur possiede all'Ufficio III del MEF per timore di scoprire la verità e terrorizzare l'opinione pubblica o più semplicemente per paura degli indennizzi.
La "trave" è dunque il fare finta di nulla in questa categoria ignorando le patologie professionali di un popolo di lavoratori che è donna all'83%

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