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La valutazione dei rischi su misura per ciascun lavoratore

Tiziano Menduto

Autore: Tiziano Menduto

Categoria: Lavoratori

07/04/2010

Indicazioni e domande guida per una corretta valutazione dei rischi secondo il D.lgs. 81/08: differenze di genere, culturali, sociali, di età, provenienza da altri Paesi, tipologia contrattuale.

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Abbiamo presentato nei giorni scorsi una pubblicazione, disponibile sul sito Inail, intitolata “ Genere e stress lavoro-correlato: due opportunità per il “Testo Unico” - Verso l’elaborazione di linee guida".
Una pubblicazione che vuole essere di stimolo per tradurre le indicazioni normative del Decreto legislativo 81/2008, in merito alle differenze di genere, in efficaci e chiare Linee Guida sulla tutela dai problemi relativi a rischi psicosociali e stress lavoro-correlato.

Di differenze di genere e di valutazione dei rischi parla uno dei contributi, a cura di Attilio Pagano e Giusi Vignola, dal titolo: “Verso la valutazione non neutra dei rischi”.

 

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Nelle premesse dell’articolo gli autori ricordano che, nella loro attività di formazione e consulenza, hanno verificato che “nella maggioranza delle situazioni le valutazioni dei rischi svolte con crescente diffusione dall’entrata in vigore del D.Lgs. 626/94 sono state condotte con riferimento ad astratte caratteristiche dei lavoratori, prescindendo dalle differenze di genere, di età e di provenienza, come, invece, viene oggi richiesto in modo esplicito dalla nuova norma vigente”.
E dunque si può affermare che per lo più le valutazioni dei rischi su cui oggi le imprese e gli enti pubblici basano le proprie attività di prevenzione sono neutre.
Infatti, con l’eccezione di “alcune esplicite richieste normative relative alla protezione delle lavoratrici con riferimento al tema della fertilità” (per esempio in attuazione della direttiva 92/85/CEE), chi valuta i rischi “ha, sino a oggi, assunto un’idea generica di essere umano”: un’idea che sostanzialmente coincide con “l’idea di un lavoratore maschio di età matura, in buone condizioni di salute individuale e non troppo vicino né all’inizio né alla conclusione della sua fase di vita lavorativa”.

Tuttavia il concetto di genere non si esaurisce nelle sole “differenze biologiche legate al sesso”.
A distinguere i generi “concorrono anche aspetti che sono oggetto di studio della psicologia sociale e della sociologia”. E con “valutazione dei rischi in ottica di genere” si intende quindi una valutazione che tenga conto “della specificità femminile, per differenza da quell’idea astratta di essere umano a cui ci si è riferiti nelle valutazioni dei rischi”.

Nel contributo vengono ricordati i punti qualificanti di una normale valutazione dei rischi emergenti da interazione con pericoli fisici, chimici e biologici con riferimento a individuazione dei pericoli, stima del rischio, valutazione del rischio e programmazione delle misure di prevenzione.
Inoltre sono riassunte anche le specificità della valutazione del rischio di stress lavoro correlato: un processo conoscitivo e decisionale “che si articola in fasi di attività diverse da quella dei rischi relativi all’esposizione a fattori fisici, chimicie biologici”:
- “rilevazione di indicatori di manifestazione, rischio generico e condizioni protettive;
- valutazione organizzativa basata sulle frequenze degli indicatori “oggettivi”;
- valutazione delle percezioni soggettive;
- programmazione delle misure”. 

Passiamo direttamente ai suggerimenti per un approccio alla valutazione dei rischiin ottica di genere.
Infatti, sottolineano gli autori, “ogni singola fase dei due processi di valutazione dei rischi può essere svolta con una sensibilità non soltanto alle somiglianze, ma anche alle differenze tra le persone”.
Per farlo è tuttavia necessario porsi alcune “domande guida”.

Il primo tipo di domande riguarda l’eventuale “esistenza di caratteristiche del mondo fisico, chimico e biologico che possano dare luogo a danni diversi se le persone esposte sono di sesso diverso”:
- “in questo luogo di lavoro - o in questa attività lavorativa - le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche sono tali da assumere la caratteristica del pericolo in modo diverso se le persone sono di sesso diverso?
- queste eventuali differenze riguardano la probabilità o l’intensità del danno?
- e queste differenze possono riguardare anche le misure di prevenzione (a esempio la forma e le dimensioni dei DPI)?”.
Ci sono studi che hanno fornito molte risposte a queste domande “identificando, a esempio, i rischi per le funzioni riproduttive e le implicazioni per la prole (in gestazione o durante l’allattamento) derivanti dalle diverse esposizioni di maschi e femmine ad agenti chimici, fisici e biologici”.
Gli autori ricordano che un importante riferimento per elaborare un’ampia lista di controllo, anche se non esaustiva, di queste situazioni di rischio è la “Comunicazione della Commissione sulle linee direttrici per la valutazione degli agenti chimici, fisici e biologici, nonché dei processi industriali ritenuti pericolosi per la sicurezza o la salute delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (direttiva 92/85/CEE del Consiglio)”. Documento che, ad esempio, indica che “condizioni suscettibili di essere considerate accettabili in situazioni normali non possono più esserlo durante la gravidanza”.

Ma il genere, come indicato all’inizio, non si esaurisce nelle differenza biologiche legate al sesso. Con genere si fa riferimento a un “costrutto culturale” in cui “convergono molteplici aspetti della vita degli individui, dalla educazione a svolgere un certo ruolo nella società, alle forme di categorizzazione sociale e di aspettativa che comunemente usiamo per regolare il nostro comportamento nelle diverse situazioni di interazione sociale”.
E dunque nella valutazione dei rischi - per una migliore programmazione delle misure di prevenzione – si devono tenere in considerazione non solo “le differenze ‘naturali’ di sesso, ma anche le differenze ‘culturali e sociali’ di genere”.
Dunque ci si deve porre anche questa domanda: “le frequenze degli indicatori di manifestazione, di rischio generico e di contrasto variano in funzione delle differenze di genere?”. Dove con “indicatori di manifestazione” si considerano i comportamenti dei lavoratori che possono essere ricondotti a uno stato di stress, con “indicatori di rischio generico” le “caratteristiche del lavoro e dell’organizzazione del lavoro che la letteratura più frequentemente associa alla presenza di elevati livelli di stress” e con “indicatori di contrasto” i “provvedimenti organizzativi e manageriali orientati a rendere disponibili risorse individuali e sociali di coping” (reazioni di adattamento ai fattori stressogeni).
Questa domanda può essere ancora più radicale: “gli indicatori di manifestazione, di rischio generico e di contrasto da considerare variano se la valutazione del rischio passa da neutra a ‘sensibile al genere’?”.

A questo proposito gli autori riportano alcuni esempi, che vi invitiamo a leggere nel documento originale, in merito ad esempio all’assenteismo e al numero di lavoratori che partecipano ai corsi di formazione.

Viene poi ricordato che in alcune realtà “sono state realizzate prime esperienze di valutazione del rischio di stress lavoro correlato con la rilevazione dal sistema informativo aziendale di indicatori di manifestazione, di rischio generico e di azioni di contrasto”.
Gli indicatori rilevati in queste esperienze possono essere riassunti in questemacrofamiglie:
- “tempo di lavoro (durata e struttura dell’ orario);
- movimenti di personale (ingressi e uscite);
- effetti sul risultato del lavoro (raggiungimento obiettivi, errori ecc.);
- relazioni sociali nell’organizzazione (informazioni ai lavoratori, feedback sulle prestazioni, funzionalità delle relazioni sindacali ecc.); 
- formazione (tipologie di obiettivi di apprendimento, numero di persone coinvolte, durata dei corsi ecc.); 
- organizzazione del lavoro (esistenza di sistemi di gestione, vincoli all’autonomia di compiti priorità, pause ecc.);
- infortuni (frequenza e gravità);
- condizioni ergonomiche e microambientali (complessità del controllo, ripetitività ecc.);
- situazioni gravi o degradate (casi di molestie, mobbing, suicidi ecc.);
- attività del medico competente (richieste di visite non programmate, inidoneità ecc.)”.
È evidente che per ogni indicatore utilizzato nell’analisi “neutra” ci si può chiedere “se lo si può misurare separatamente per il sottogruppo dei lavoratori maschi e delle lavoratrici femmine” o se la stessa formulazione dell’indicatore “non possa essere rielaborata sulla base di ipotesi di differenze rilevanti nella concezione sociale di genere”.

 

Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Inail e Sintagmi, “ Genere e stress lavoro-correlato: due opportunità per il “Testo Unico” - Verso l’elaborazione di linee guida" (formato PDF, 2.28 MB).



Tiziano Menduto



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