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La Cassazione sui lavoratori esposti all'amianto

Gerardo Porreca

Autore: Gerardo Porreca

Categoria: Lavoratori

15/12/2008

Il datore rischia una condanna per i decessi e per le malattie contratte anche se il dipendente era già stato sottoposto al rischio amianto o se la sostanza viene accertata nei pressi della sua abitazione. A cura di G. Porreca.

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Una dura condanna è stata confermata dalla Corte di Cassazione con questa sentenza nei confronti degli amministratori di una società in conseguenza del decesso per mesotelioma di un lavoratore dipendente, decesso ritenuto legato alla esposizione di fibre di amianto durante la sua attività lavorativa. In  particolare la Suprema Corte ha cassato una sentenza di assoluzione della Corte di Appello la quale, a sua volta, aveva rivisto la sentenza di un Tribunale con la quale erano stati condannati per omicidio colposo gli amministratori di una società  per aver causato il decesso di un lavoratore dipendente in servizio presso il locale caldaia del loro stabilimento. Agli amministratori era stato addebitato di non aver adottato delle misure idonee ad evitare la dispersione delle fibre di amianto nel locale e di non aver evitato la inalazione delle stesse da parte del lavoratore durante il suo servizio.
 
Secondo la Cassazione la Corte di appello è pervenuta alla pronunzia assolutoria ipotizzando che il lavoratore avrebbe potuto contrarre l’affezione altrove presso altri opifici o anche presso la sua stessa dimora ubicata nei pressi di una stazione ferroviaria, non raccogliendo però sufficienti elementi di prova che supportassero tali conclusioni e non prendendo, altresì, in considerazione gli elementi in base ai quali il giudice di primo grado aveva invece emanata la sentenza di condanna degli imputati benché questi fossero fondati su circostanze concrete, quali la presenza nella centrale termica, presso la quale aveva prestato servizio la vittima per lunghi anni, di tubazioni coibentate con sostanze contenenti amosite, che costituisce una delle forme più aggressive dell’amianto, nonché che il lavoratore era adibito alla manutenzione periodica della caldaia durante la quale veniva provocata la dispersione delle fibre di amianto nell’ambiente, che il lavoratore stesso non aveva svolto in precedenza attività lavorative che lo avessero esposto a tale sostanza e che erano state escluse anche esposizioni significative extralavorative.
 
La Corte di appello aveva sostenuto che il mesotelioma non è malattia di origine esclusivamente professionale ma può essere connessa, infatti, a fattori ambientali uniti alla predisposizione soggettiva e dunque l'accertamento in concreto della sua causa avrebbe richiesto il vaglio di un più ampio spettro di possibilità. Invece, nel caso in esame nulla era dato sapere del rischio amianto imputabile alle precedenti attività lavorative, sulle quali piuttosto superficialmente si era ritenuto di non indagare perché non più esistenti. Aveva inoltre osservato la Corte di appello che non erano state esaminate ulteriori possibilità di contatto con l’amosite, contatto che la parte lesa avrebbe potuto avere anche in ambito extra lavorativo, e che la presenza di amosite avrebbe dovuto essere accertata risalendo all'epoca del supposto contatto del lavoratore con le tubazioni, ovvero oltre 20 anni prima. Tale prova, e cioè la presenza sin da allora di alterazioni del rivestimento delle tubature della caldaie, dalle quali avrebbe potuto generarsi la dispersione di fibre di amosite, non era stata affatto raggiunta essendo emerso dalle indagini anzi il contrario perché, come risulta dalla deposizione dell'ex capo reparto, all'epoca dell'attività di accensione e pulizie svolta dalla vittima, il rivestimento delle tubature della caldaia era intatto e dunque ben difficilmente avrebbe potuto disperdere nel locale apprezzabili particelle di quella amosite che si assume essere  stata inalata dalla parte lesa.
 
Contro la pronunzia assolutoria della Corte di appello hanno fatto ricorso le parti civili facendo presente che, a seguito di alcune indagini svolte due anni dopo la chiusura dell’opificio, era emersa la presenza nei luoghi di lavoro, che si presentavano nelle stesse condizioni nelle quali erano al momento della chiusura, di amosite in elevate concentrazioni e ponendo in evidenza, altresì, che nel corso del dibattimento diversi testi avevano evidenziato che la coibentazione delle tubazioni, essendo passato già qualche anno dalla loro installazione, si era deteriorata nel tempo a causa della temperatura e degli sfregamenti verificatisi durante l’esercizio ed ancora che le indagini processuali avevano inoltre escluso la presenza di ulteriori fattori causali come il fumo o l'inalazione dell'amianto in altri contesti. La Corte di appello inoltre, secondo i ricorrenti, aveva omesso di considerare il ruolo eziologico dell'esposizione all'amianto non solo quale possibile causa primaria del mesotelioma, ma anche quale acceleratore dei tempi di insorgenza dell'affezione, come ripetutamente ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità e quindi aveva errato nel non cogliere il nesso causale tra la presenza dell'amianto nel locale caldaia e l'evento morboso.
 
La Corte di Cassazione ha ritenute fondate le motivazioni del ricorso ed in merito alle decisioni della Corte di appello ha sostenuto che “la sentenza d'appello è affetta da grave vizio logico che la corrompe radicalmente. Essa, infatti, ha dato corpo ad un dubbio che non è sorretto da basi fattuali ma si presenta come meramente congetturale” ed ancora che “la motivazione trascura o distorce emergenze concrete ben esposte ed analizzate nella pronunzia del primo giudice. Si tratta di approccio che non solo confligge con i canoni della logica formale ma si pone in contrasto con l'insegnamento di questa Corte a Sezioni unite, secondo cui il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e dì confutare specificatamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (S.U. 12 luglio 2005, Mannino)”.
 
La Sez. IV ha poi posto in evidenza che il Tribunale aveva invece accertato alcune circostanze concrete e decisive non prese in considerazione dalla Corte di appello e cioè che “Le tubazioni del locale caldaie erano rivestite con una sostanza costituita da un impasto contenente amosite in misura superiore al 50%”, che “tale materiale si presentava sgretolato, come riscontrato in occasione di sopralluogo eseguito dopo i fatti. L'effetto era dovuto alle sollecitazioni termiche ed all'attività di manutenzione” ed ancora  che “La caldaia era vetusta. La vittima provvedeva alla periodica pulitura del locale e in conseguenza movimentava la polvere di amianto” ed inoltre che “L'amosite costituisce una varietà di amianto, ritenuta dagli studi recenti come la principale causa delle patologie respiratorie per via delle microscopiche dimensioni della fibra facilmente penetrabile negli alveoli polmonari” ed infine che dagli accertamenti compiuti “non era emersa altra fonte di esposizione all'amianto” ed “erano state escluse anche esposizioni significative extralavorative”.
 
Sulla base  di tali elementi il Tribunale era pervenuto a ritenere che le coibentazioni furono sottoposte ad una costante e progressiva azione di sgretolamento con conseguente continua dispersione di fibre di amianto, che si volatilizzavano e venivano quindi inalate anche per effetto delle pulizie del locale. “Tali fibre”, prosegue la Corte di Cassazione, “hanno un privilegiato ruolo causale, sulla base di affidabili acquisizioni scientifiche, poiché particolarmente sottili e quindi dotate di elevata capacità di penetrazione nei tessuti. E' stata quindi individuata una causa definita mentre non si sono riscontrate altre concrete, plausibili fonti di esposizione alla sostanza nociva”.
 
La Sez. IV ha invece cassato le decisioni alle quali è pervenuta la Corte di appello in quanto è giunta “ad un giudizio di dubbio irresolubile sulla causa dell'evento, senza analizzare e confutare compiutamente e le valutazioni espresse dal primo giudice. La sentenza, infatti, si muove su due enunciazioni di fondo: non vi è prova che nell'epoca, ormai remota, in cui l'amosite avrebbe dovuto innescare il processo carcinogenetico, fossero in atti dispersioni della sostanza. Tale enunciato oblitera decisive emergenze di segno contrario poste in luce dal primo giudice e già accennate, il primo dato è che l'amosite è particolarmente efficace nell' innescare il meccanismo tumorale per le ridotte dimensioni della fibra e che tale attività non dipende significativamente dalla dose: anche l'inalazione dì poche  fibre può essere eziologica. Altro dato di non minore rilievo, pure esso pretermesso, è che la coibentazione pericolosa conteneva ben il 50% di amosite e che essa era soggetta ad un procedimento di progressivo deterioramento dovuto alle sollecitazioni termiche ed alle attività manutentive” .
 
Conclude, quindi, la Suprema Corte affermando che “dunque, sin dall'inizio dell'attività lavorativa da parte della vittima era in atto un processo che determinava dispersioni altamente pericolose anche in piccoli quantitativi. Infine si pretermette di considerare che l'attività di pulizia svolta dal lavoratore ridetto determinava la continua volatilizzazione delle microfibre che, così, potevano essere facilmente inalate”.
 
Sulla base delle sopraindicate osservazioni la Corte di Cassazione ha in definitiva annullata la sentenza della Corte di appello ed ha rimesso gli atti al giudice civile competente per materia in grado di appello.
 
 
 
 
 


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