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Ambienti confinati e infortuni: la prevenzione del rischio chimico

Ambienti confinati e infortuni: la prevenzione del rischio chimico
Tiziano Menduto

Autore: Tiziano Menduto

Categoria: Spazi confinati

28/10/2021

Per comprendere le cause dei tanti infortuni in ambienti confinati riportiamo alcune indicazioni tratte da un documento sulla valutazione e prevenzione del rischio chimico. Gli infortuni e il rischio di asfissia.

I tanti infortuni mortali professionali che stanno capitando in queste settimane e che hanno giustamente aumentato l’attenzione di politici e opinione pubblica sulla sicurezza nel mondo del lavoro, ci raccontano molte cose. Ad esempio che per molti rischi conosciuti, malgrado le campagne di prevenzione e le normative dedicate, ci sia ancora tanto da fare in termini di prevenzione.

 

Stiamo parlando in questo caso dei problemi connessi con i rischi chimici negli spazi confinati, che hanno visto con il DPR 14 settembre 2011, n.177 un regolamento per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi, e con le campagna dell’Eu-Osha sulle sostanze pericolose due anni di incontri, documenti, approfondimenti sul tema.

Malgrado tutto questo negli spazi confinati e negli ambienti “sospetti di inquinamento si continua a morire, come ricordano le cronache di questi giorni in ambito lavorativo (2 morti per asfissia a causa dell’azoto in un deposito di una clinica in provincia di Milano) o anche in ambiti non professionali (4 morti in provincia di Cosenza in una vasca di mosto d’uva).

 

Torniamo dunque a parlare di spazi confinati, dopo anche le varie interviste che abbiamo pubblicato in materia, e lo facciamo ricordando un documento che il nostro giornale ha presentato in passato, con riferimento alla rubrica “ Imparare dagli errori”, ma che può ancora fornire utili informazioni sulla prevenzione dei rischi.

 

Si tratta di un documento presentato al convegno “RisCh 2011 - Le nuove valutazioni del rischio da agenti chimici pericolosi e dell’esposizione ad agenti cancerogeni, mutageni” (Modena, 22 settembre 2011) e correlato ad una campagna di prevenzione promossa dall’ ULSS 5 dell’Ovest vicentino (ora ULSS 8 Berica).

Il documento, dal titolo “La valutazione e la prevenzione del rischio chimico negli ambienti confinati: un caso storico di rischio chimico per la sicurezza”, è a cura di Lucio Ros, Alberto Brocco, Celestino Piz, Franco Zanin con riferimento al Gruppo di lavoro “Rischio Chimico” (Coordinamento Tecnico della Prevenzione nei Luoghi di Lavoro delle Regioni e Province autonome).

 

Questi gli argomenti trattati nell’articolo:


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Le dinamiche infortunistiche che non cambiano

Il documento ricorda come l’analisi degli incidenti in attività all’interno di ambienti di lavoro confinati mostra, nelle dinamiche degli infortuni e nei fattori causali, una “scarsa informazione e formazione degli operatori su questo tipo di pericoli, la mancata valutazione del rischio e il non rispetto di quanto previsto dalla normativa”.

 

Si segnala poi che spesso in questi incidenti “sono coinvolti anche i soccorritori, perché l’intervento di soccorso è improvvisato e non, invece, oggetto di una pianificazione tarata sulla conoscenza dei numerosi e insidiosi fattori di rischio presenti”.

 

Il documento vuole fornire alcune informazioni, ad uso dei datori di lavoro e dei lavoratori, per meglio identificare i pericoli e favorire una adeguata valutazione dei rischi

 

Il rischio di asfissia e la carenza o sostituzione dell’ossigeno

Il documento ricorda che i rischi nella maggior parte dei casi “sono determinati dalla presenza di un’atmosfera asfissiante, cioè incompatibile con la vita umana, che può agire con modalità diverse incidendo sull’assunzione (anossia anossica), sul trasporto (anossia anemica), sull’utilizzazione a livello cellulare (anossia istotossica) dell’ossigeno”.

 

In particolare l’atmosfera asfissiante – continua il documento - si può avere per:

  • carenza di ossigeno a seguito del suo consumo o sostituzione;
  • inalazione/assorbimento di sostanze tossiche con conseguente intossicazione acuta.

 

Riguardo al primo caso la carenza di ossigeno (atmosfera sotto-ossigenata) “si ha quando la concentrazione di ossigeno (pO2, pressione parziale di ossigeno) è inferiore al 21%. Con concentrazioni inferiori al 18% si ha riduzione delle prestazioni fisiche e intellettuali, senza che la persona se ne renda conto. Con tenori inferiori all’11% c’è il rischio di morte. Sotto l’8% lo svenimento si verifica in breve tempo e la rianimazione è possibile se effettuata immediatamente. Al di sotto del 6% lo svenimento è immediato e ci sono danni cerebrali, anche se la vittima viene soccorsa”.

 

Si indica poi che si ha carenza di ossigeno “in tutte quelle situazioni in cui l’ossigeno viene consumato, senza venir rimpiazzato (come in ambiente confinato), a causa di una reazione chimica di ossidazione/combustione con formazione di CO2, H2O, CO, NOx, di ossidi metallici e di altri composti ossigenati”.

 

Tale carenza di ossigeno nell’aria respirata può “essere provocata dalla presenza voluta o accidentale di altri gas”. La relazione si sofferma sui gas inerti.

 

In questo senso l’utilizzo del termine ‘ gas inerte’ “può essere equivoco e ingenerare l’idea che si tratti di gas non pericolosi. In effetti l’inerzia è primariamente riferibile al pericolo di infiammabilità/esplosione. La loro presenza genera un’atmosfera sotto-ossigenata (pO2 < 21%) per effetto della diminuzione (per diluizione) della concentrazione dell’ossigeno presente nell’aria. I gas inerti (es.: N2, He, Ar) sono particolarmente insidiosi, perché incolori, inodori e insapori; agiscono pertanto senza ‘preavviso’ e rapidamente. La CO2, pur essendo un gas reattivo (ossido acido), agisce come i gas inerti, provocando anossia anossica”.

Ed è importante “conoscere la densità relativa del gas rispetto all’aria per prevedere la possibilità di stratificazione o di mescolamento. La densità dipende, oltre che dalla massa molecolare del gas, anche dalla sua temperatura”.

 

Si segnala poi che i gas infiammabili “presentano lo stesso rischio dei gas inerti per quanto concerne la possibilità di formare atmosfere sotto-ossigenate. Se la loro concentrazione è all’interno dell’intervallo di esplosività (LIE < C < LSE), sussiste inoltre il pericolo di incendio/esplosione. Per questa categoria di gas, questo rischio è ovviamente quello principale”.

 

Il documento si sofferma poi sulle sostanze tossiche che “hanno meccanismi diversi di azione e provocano l’anossia anemica (es. CO), che è provocata dal mancato trasporto dell’ossigeno da parte del sangue o l’anossia istotossica (es. HCN), che è determinata dal mancato utilizzo dell’ossigeno a livello tissutale. Le sostanze irritanti (es. aldeidi, Cl2, SO2) agiscono sulle prime vie aeree o più in profondità, determinando in questo caso broncospasmo ed eventualmente edema polmonare. Il fenomeno bronco-spastico impedisce l’utilizzo dell’ossigeno a livello polmonare, determinando un effetto simile a quello della carenza di ossigeno”.

 

Si segnala poi che il rischio di asfissia non si presenta solo negli ambienti confinati, ma può presentarsi anche all’esterno “in prossimità di fughe di gas, sfiati, scarichi di valvole di sicurezza, dischi di rottura, aperture di macchine che utilizzano N2 come liquido per surgelazione, punti di accesso a recipienti bonificati. Il rischio può essere aggravato dal fatto che i gas coinvolti (N2, Ar, CO2, H2S, SO2) siano più pesanti dell’aria per peso molecolare e/o per temperatura. In questo caso essi fluiscono e si accumulano in basso, ad esempio in fognature o condotte sotterranee, in pozzi di ascensori/montacarichi, in fosse, nei piani interrati.  Nondimeno va considerata la possibilità che i gas più leggeri (He, H2, CH4…) si accumulino in alto nei controsoffitti o nei sottotetti”

 

Le attività con rischi chimici negli spazi confinati  

Benché non sia possibile fornire un “elenco preciso ed esaustivo di attività o luoghi con ambienti confinati né delle situazioni di pericolo a questi associati, un’analisi ragionata del problema e l’esperienza possono aiutare ad ipotizzare le situazioni più probabili”.

 

Riportiamo dal documento una tabella che segnala quelle attività/situazioni in cui si possono presentare i rischi di asfissia:

 

 

Rimandiamo, infine, alla lettura integrale del documento che si sofferma su vari altri aspetti (altri rischi, sostanze chimiche, valutazione del rischio e misure di prevenzione) e che riporta, in conclusione, che le indagini sui casi avvenuti di infortuni e di incidenti permettono di capire che le cause si riconducono essenzialmente a tre ragioni principali:

  1. la mancata valutazione dell’ambiente rispetto ai possibili pericoli (atmosfera, attrezzature, materiali, ecc...);
  2. il non uso o l’uso di DPI respiratori inadeguati;
  3. il non utilizzo di attrezzature/dispositivi utili al recupero (imbracature di sicurezza con treppiede e verricello, ecc...)”.

 

Tuttavia quello che si evidenzia, in definitiva, è soprattutto “una sottovalutazione del problema connessa a scarsa cognizione della specifica condizione di rischio, dovuta spesso a carenze informative e comunicative che si traducono poi in inadeguatezza di risorse umane e materiali a svolgere il lavoro”.

 

 

Tiziano Menduto

 

 

 

Scarica il documento presentato nell’intervista:

“La valutazione e la prevenzione del rischio chimico negli ambienti confinati: un caso storico di rischio chimico per la sicurezza”, relazione a cura di Lucio Ros, Alberto Brocco, Celestino Piz e Franco Zanin, “RisCh 2011 - Le nuove valutazioni del rischio da agenti chimici pericolosi e dell’esposizione ad agenti cancerogeni, mutageni” (Modena, 22 settembre 2011).

 


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Rispondi Autore: Adriano Paolo Bacchetta - likes: 0
28/10/2021 (12:13:04)
A integrazione di quanto sopra, ritengo opportuno segnalare che, in passato, spesso i programmi di monitoraggio atmosferico hanno trattato il diossido di carbonio C02 (anche nota come anidride carbonica) solo come un " asfissiante semplice", poiché non era considerata avere un’azione tossica: piuttosto che misurarla direttamente nello spazio confinato o nell'ambiente di lavoro, era considerato sufficiente misurare semplicemente la concentrazione di ossigeno. Ma questo era e resta un grave errore per due motivi. Il primo motivo è che l’anidride carbonica ha un Valore Limite di Esposizione Professionale (VLEP) pari a 5.000 ppm e ha un valore di IDLH (immediatamente pericoloso per la vita e la salute) pari al 4% v/v (40.000 ppm). Dai dati di lettura, si rileva che al 5% v/v di CO2 (50.000 ppm), questa agisce in modo sinergico all'incremento di tossicità di altri gas (CO, NO2) e, inoltre, ha dimostrato di aumentare la produzione di carbossi oppure meta emoglobina, probabilmente a causa di effetti stimolatori sull'apparato respiratorio e circolatorio. Mentre i dati sugli effetti tossici della CO2 sono interpretati in modo leggermente diverso nelle diverse giurisdizioni, c'è poca differenza significativa. In funzione della concentrazione di CO2 inalata e dalla durata dell'esposizione, i sintomi tossicologici possono andare dal mal di testa (nell'ordine del 3% v/v per 1 ora), all'aumento della frequenza respiratoria e della frequenza cardiaca, vertigini, contrazioni muscolari, confusione, incoscienza, coma e morte (nell'ordine del >15% v/v per 1 minuto).
Il secondo motivo è che l’aria è rappresentata per quasi l'80% del volume da azoto (N2), questo significa che se si verifica un rilascio di CO2 in un ambiente confinato con scarsa o assente ventilazione, la maggior parte del gas che si sposta sarà proprio l’azoto e la diminuzione della percentuale di ossigeno non è comparabile. Per questo l’anidride carbonica potrebbe raggiungere i livelli limite di esposizione, ma i livelli di O2 potrebbero ancora essere relativamente inalterati o, comunque, considerati ancora sicuri. Ad esempio, una concentrazione di CO2 al 3%, generata a seguito di un rilascio di gas in ambiente confinato, potrebbe comportare una modifica delle percentuali in aria rispettivamente di azoto dall’80% al 77,6% e dell’ossigeno dal 20% al 19,4%.

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