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Sulle responsabilità nel mettere a disposizione scale non adatte al lavoro

Sulle responsabilità nel mettere a disposizione scale non adatte al lavoro
Tiziano Menduto

Autore: Tiziano Menduto

Categoria: Sentenze commentate

27/03/2023

Una sentenza della Corte di Cassazione si sofferma sulle responsabilità per la caduta da una scala in alluminio a libro usata per operare in quota. La ricostruzione dell’evento, il ricorso e le responsabilità del datore di lavoro.

Roma, 27 Mar – I nostri articoli hanno mostrato in questi anni come la caduta dalle scale, sia scale portatili (semplici e doppie) che scale fisse, sia ancora – non solo nei luoghi di lavoro – una delle cause più diffuse di infortuni, a volte anche gravi e mortali.

 

Per migliorare la prevenzione di questa tipologia di infortuni abbiamo presentato in questi anni vari documenti, specialmente relativi al corretto uso e alla corretta scelta delle scale da utilizzare. Ad esempio con riferimento ai documenti prodotti dall’Istituto svizzero Suva, ai vari quaderni tecnici e di ricerca elaborati dall’Inail, alle linee guida regionali o, anche, ai tanti interventi sul tema presentati nei convegni in materia di sicurezza sul lavoro.

 

Ci occupiamo oggi, tuttavia, non tanto della prevenzione ma del tema delle responsabilità connesse alle cadute dalle scale nei luoghi di lavoro con riferimento, in questo caso specifico, alla caduta da una scala in alluminio a libro usata per un lavoro in quota.

 

Prima di presentare la sentenza in oggetto, ricordiamo, innanzitutto, altre sentenze sul tema delle cadute dalle scale:

 

Con riferimento ad una sentenza del 2021, l’articolo si sofferma su:



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Informazione ai lavoratori sui rischi specifici ai sensi dell'art. 36 del D.Lgs. 81/2008 - L'utilizzo delle scale in ufficio, in magazzino, nella grande distribuzione

 

La ricostruzione dell’evento e i motivi del ricorso

Nella Sentenza n. 25040 del 4 luglio 2021 si fa riferimento ad un ricorso per cassazione relativamente a quanto deciso dalla Corte di Appello che ha confermato la pronuncia di condanna emessa in primo grado - in ordine al reato di cui all'art. 590 (lesioni personali colpose), comma 3, del codice penale – perché M.C., “in qualità di datore di lavoro dell'infortunato M.A., per colpa, consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, omettendo di individuare nel documento di valutazione dei rischi procedure specifiche per intervenire in quota, onde effettuare lavori di carattere non estemporaneo e di non breve durata; prevedendo genericamente l'impiego di scale portatili, il cui utilizzo era descritto solo schematicamente; mettendo a disposizione del lavoratore una scala in alluminio a libro non adatta per operare in sicurezza, cagionava l'infortunio al M.A., il quale saliva sulla predetta scala per effettuare un intervento e, a causa della flessione del coperchio della canalina, che si staccava e lo spingeva all'indietro, perdeva l'equilibrio e rovinava a terra, unitamente alla scala”.

 

Il ricorrente – riguardo alle violazioni di legge e ai vizi di motivazione riscontrati - indica che le carenze del Documento di valutazione dei rischiinerivano a interventi di carattere non estemporaneo e di lunga durata mentre, nel caso di specie, si trattava di un intervento breve”. La scala era a norma e il giudice “non spiega le ragioni per le quali il M.A., che stava operando con una sola mano e aveva l'altra saldamente ancorata alla scala, sia caduto”.

In particolare, sempre come riferito dal ricorrente, il M.A. “afferma che, dopo aver infilato la mano destra nella canalina dove si trovavano i cavi telefonici, si avvide della presenza di un cavo di fibra ottica inopinatamente giuntato e immediatamente lasciò la presa, per timore di causare danni. E la persona offesa ha dunque chiarito di aver perso l'equilibrio a causa della sorpresa di aver trovato questo cavo ottico giuntato e posizionato all'esterno e, contestualmente, del fissaggio scorretto del coperchio della canalina, che si è staccato, spingendolo leggermente all'indietro”.

 

Il ricorrente indica, dunque, che “appare pertanto incomprensibile l'affermazione del giudice a quo secondo cui, se il lavoratore avesse avuto la possibilità di operare con entrambe le mani, senza necessità di tenersi alla scala, sarebbe stato in una posizione del tutto stabile e non avrebbe perso l'equilibrio”. Ed è invece evidente, sempre per il ricorrente, che il M.A. non avrebbe potuto rimanere in equilibrio aggrappandosi né al fascio di cavi, perché quest'ultimo si sarebbe strappato, né alla canalina che M.A. stesso dice essersi staccata”.

 

Le indicazioni della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione indica che le “doglianze formulate dal ricorrente” sono infondate. Innanzitutto ricorda che il controllo del giudice di legittimità, dunque della Cassazione, sui vizi della motivazione “attiene pur sempre alla coerenza strutturale della decisione”.

In particolare il giudice di legittimità, “nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento”. Il giudice di legittimità “non può divenire giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente l'apprezzamento della logicità della motivazione

 

Veniamo al caso affrontato nella sentenza.

 

Nelle precedenti sentenze si è evidenziato che il lavoratore aveva dichiarato che “la sorpresa da lui provata alla vista di un cavo di fibra ottica giuntato lo aveva indotto, per timore di un danno, a ‘mollare la presa sul fascio di cavi’ e che il contemporaneo distacco del coperchio della canalina, non fissato regolarmente, gli aveva fatto perdere l'equilibrio”.

 

E la Corte d'appello argomenta che il lavoratore “se avesse potuto utilizzare una scala in quota in totale sicurezza, usando, per lo svolgimento della propria attività lavorativa, entrambe le mani, senza necessità di tenersi con una delle due alla scala, si sarebbe trovato in una posizione del tutto stabile e non avrebbe perso l'equilibrio, potendo effettuare la presa, con una mano, del fascio di cavi e, con l'altra, del coperchio, poi distaccatosi”.

In questo senso “l'effettiva stabilità sulla scala del lavoratore avrebbe, quindi, permesso a quest'ultimo di far fronte alla concomitanza dei due eventi senza la perdita dell'equilibrio”.

 

La Cassazione dichiara che l'impianto argomentativo “è dunque puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un percorso concettuale in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede”.

 

Dunque il ricorso viene rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

Tiziano Menduto

 

 

Scarica la sentenza da cui è tratto l’articolo:

Corte di Cassazione Penale, Sez. 4 – Sentenza 01 luglio 2021, n. 25040 - Caduta dalla scala in alluminio a libro usata per operare in quota. Responsabilità del datore di lavoro

 

 



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