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Sulla differenza fra reato commesso a vantaggio o interesse di un ente

Sulla differenza fra reato commesso a vantaggio o interesse di un ente
Gerardo Porreca

Autore: Gerardo Porreca

Categoria: Sentenze commentate

18/04/2016

Ai fini della responsabilità amministrativa di un ente un reato è commesso nel suo interesse se oggetto di una valutazione ex ante o a suo vantaggio se da esso deriva ex post un risparmio dei costi. A cura di Gerardo Porreca.

Ha trovato la Corte di Cassazione in questa sentenza, con riferimento all’addebito al responsabile legale di una società dell’illecito amministrativo di cui all’art. 5 lettere a) e b) del  D. Lgs. n. 231/2001 per il reato di cui all’art. 589 comma 2 del codice penale commesso in danno di un lavoratore infortunatosi nell’azienda della società stessa, l’occasione per chiarire la differenza fra il concetto di interesse e quello del vantaggio a favore dell’ente citati nel sopra indicato articolo 5. Il  criterio dell’interesse, ha sostanzialmente precisato la suprema Corte, esprime una valutazione del reato apprezzabile “ex ante” e cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo mentre quello del vantaggio ha una connotazione  essenzialmente oggettiva e come tale valutabile “ex post” sulla base degli effetti concretamente derivanti dalla realizzazione dell’illecito. Occorre pertanto accertare in concreto le modalità dell’accaduto, ha quindi sostenuto la Corte di Cassazione, e verificare se la violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro che hanno determinato l’infortunio, volutamente commessa, rispondesse ex ante ad un interesse della società o se, legata ad una sottovalutazione, abbia consentito alla società stessa di conseguire un vantaggio facendo risparmiare i costi necessari per l’adeguamento alle norme di sicurezza.
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Il fatto e l’iter giudiziario
Il Tribunale ha dichiarato l’amministratore unico di una società e il direttore tecnico della stessa colpevoli del reato di omicidio colposo ad essi ascritto e, concesse le circostanze attenuanti di cui agli arti. 62 n. 6 e 62 bis c.p., ritenute equivalenti alla contestata aggravante di cui all'art. 589 comma 2 c.p., li ha condannati alla pena dì anni 1 e mesi 10 di reclusione concedendo agli stessi la sospensione condizionale della pena. Ha dichiarato altresì il rappresentante legale della società responsabile dell'illecito amministrativo contestato ed ha applicato nei confronti della società stessa la sanzione amministrativa pecuniaria di € 80.000.00. Agli imputati era stato contestato il reato p. e p. dagli artt. 113 e 589 comma 2 c.p. perché, agendo in cooperazione colposa tra loro, avevano cagionato, per colpa, la morte di un operaio montatore alle dipendenze della società in un cantiere gestito dalla società medesima.
 
Il lavoratore infortunato, alla guida di una autogru che aveva condotto in prossimità del cancello di uscita dal cantiere, dopo avere arrestata la marcia, rimaneva schiacciato dalla stessa che, retrocedendo lungo la scarpata per un difetto di funzionamento del freno, lo aveva trascinato attaccato alla cabina di guida, ribaltandosi infine sul fondo della scarpata, così cagionandogli delle lesioni gravissime dalle quali era derivata la morte.
 
Agli imputati l'evento era stato contestato a titolo di colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia e, segnatamente, nella inosservanza:
- della norma di cui all'art. 12, comma 3 D. Lgs. 494/96 in ordine al mancato rispetto del PSC (Piano di Sicurezza e Coordinamento), poiché, a fronte della previsione generale di utilizzare esclusivamente autogru soggette a marcatura CE, avevano consentito l’utilizzo di un mezzo non riconducile a tale fattispecie poiché costruito in epoca antecedente al 1996;
- della norma cautelare generale di cui all'art. 2087 c.c., per non aver adottato le misure prevenzionali più idonee a tutelare la salute dei lavoratori dipendenti, consentendo l'utilizzo di una autogru con freno di stazionamento non funzionante e per non aver installato, sul vecchio tipo di autogru in uso, dispositivi di blocco automatico attivabili in caso di mancanza di pressione dell'impianto frenante;
- della norma di cui all'art. 35, comma 4 lett. c) del D. Lgs. 626/94, per non aver attuato idonea manutenzione dell'impianto frenante della suddetta autogru;
- della norma di cui all'art. 4, comma 2 D. Lgs. 626/94 (in rel. art. 2, comma I, lett. f-ter e art. 9, comma I lett. c-bis e comma 2 D. Lgs. 494/94, così come modificati dall'art. 528/99) in merito alla carenza del POS, per non aver esaminato i rischi specifici connessi all'uso di un'autogru con impianto frenante di vecchia generazione, né inserito un programma specifico di miglioramento dei livelli di sicurezza con riferimento alla problematica di un sistema frenante vetusto nonché per aver omesso una procedura nota e vincolante con la quale si inibisse lo spostamento dell'autogrù senza previo accertamento di avvenuta carica dei serbatoi d'aria a servizio dell’impianto frenante.
 
Alla società inoltre era stato addebitato l'illecito amministrativo di cui all'art. 5 lett. a ) e b)  del D. Lgs. n. 231/2001 per il reato di cui agli artt. 113 e 589 comma 2 commesso in danno del lavoratore poiché commesso nel suo interesse ed a suo vantaggio, avendo omesso di adottare ed efficacemente attuare, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi.  Avverso la sentenza del Tribunale sia gli imputati che la società hanno ricorso alla Corte di Appello chiedendo alla stessa la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale al fine di disporre una perizia tecnica sui tempi di percorrenza della rampa e su quelli necessari per la ricarica dei serbatoi dell'impianto frenante dell'autogrù in sequestro. La Corte di Appello ha però confermata la sentenza impugnata.
 
Il ricorso in Cassazione e le decisioni della Corte suprema
Avverso la sentenza della Corte di Appello entrambi gli imputati persone fisiche nonché la società hanno proposto ricorso per cassazione. Il ricorso presentato nell'interesse degli imputati era affidato ad un unico motivo di doglianza essendo stata disattesa la loro richiesta di perizia sul funzionamento dell'impianto frenante della autogru sul presupposto che la ricostruzione di cui alla consulenza della difesa fosse stata del tutto inverosimile. Nel ricorso presentato nell'interesse della società veniva invece dedotta la mancata assunzione di una prova decisiva e la illogicità della motivazione della sentenza impugnata. In sintesi, la società nel ricorso si è lamentata del fatto che i giudici di merito avevano affrontato la questione della responsabilità dell'ente quasi fosse una conseguenza automatica della ritenuta responsabilità degli imputati. Secondo la società stessa nel caso di cui al procedimento in corso la condotta posta in essere dal suo legale rappresentante non sarebbe stata funzionale ad uno specifico vantaggio dell'ente e, pertanto, non sarebbe stato possibile ravvisare un collegamento tra la condotta degli imputati ed uno specifico interesse dell'ente a che tale condotta fosse stata posta in essere.
 
I ricorsi non sona stati ritenuti fondati dalla Corte di Cassazione che li ha pertanto rigettati. Con riferimento al ricorso presentato dagli imputati basato sostanzialmente sul fatto che la Corte di Appello aveva negata la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale al fine di disporre una perizia tecnica sui tempi di percorrenza della rampa e su quelli necessari per la ricarica dei serbatoi dell’impianto frenante dell’autogrù in sequestro, la Sez. IV ha fatto rilevare che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che la rinnovazione, anche parziale, del dibattimento, in sede di appello, ha carattere eccezionale e può essere disposta unicamente nel caso in cui il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. La Corte di Appello ha invece giustificato il rigetto della richiesta di rinnovo della istruttoria dibattimentale sviluppando plurime e specifiche argomentazioni che non risultano sindacabili in sede di legittimità.
 
Con riferimento al ricorso presentato nell’interesse della società la Corte suprema ha ribadito che nel caso in esame era stato contestato alla società, alle cui dipendenze lavorava l'infortunato, l'illecito amministrativo di cui all'art. 5 lett. a) e b) del D. Lgs. n. 231/2001 per il reato di cui all’art. 589 c.p. in danno del lavoratore infortunato poiché commesso nell’interesse ed a vantaggio della società stessa, avendo omesso di adottare ed efficacemente attuare, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. La Corte suprema ha fatto altresì presente in merito che le Sezioni Unite della stessa Corte avevano già avuto modo di precisare che “i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d'evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all'esito antigiuridico. Questa appare, intatti, l'unica interpretazione che non svuota di contenuto la previsione normativa e che risponde alla ratio dell'inserimento dei delitti di omicidio colposo e lesioni colpose nell'elenco dei reati fondanti la responsabilità dell'ente, in ottemperanza ai principi contenuti nella legge delega”. “Indubbiamente”, ha così proseguito la Sez. IV, “non rispondono all'interesse della società, o non procurano alla stessa un vantaggio, la morte o le lesioni riportate da un suo dipendente in conseguenza di violazioni di normative antinfortunistiche, mentre è indubbio che un vantaggio per l'ente possa essere ravvisato, ad esempio, nel risparmio di costi o di tempo che lo stesso avrebbe dovuto sostenere per adeguarsi alla normativa prevenzionistica, la cui violazione ha determinato l'infortunio sul lavoro”.
 
I termini "interesse" e "vantaggio" ha quindi proseguito la suprema Corte. esprimono concetti giuridicamente diversi e possono essere alternativi e ciò emerge dall'uso della congiunzione "o" da parte del legislatore nella formulazione della norma in questione. “Ricorre il requisito dell'interesse”, ha quindi precisato la Sez. IV, “quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un'utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l'esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d'impresa: pur non volendo il verificarsi dell'infortunio a danno del lavoratore, l'autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell'ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell'ente, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d'impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto; il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l'ente e l'illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi”.
 
Ne consegue”, ha quindi sintetizzato la Corte di Cassazione, "che il concetto di ‘interesse’ attiene ad una valutazione antecedente alla commissione del reato presupposto, mentre il concetto di ‘vantaggio’ implica l'effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato (e, dunque, una valutazione ex post)” e quindi “occorre perciò accertare in concreto le modalità del fatto e verificare se la violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro, che ha determinato l'infortunio, rispondesse ex ante ad un interesse della società o abbia consentito alla stessa di conseguire un vantaggio, ad esempio, risparmiando i costi necessari all'acquisto di un'attrezzatura di lavoro più moderna ovvero all'adeguamento e messa a norma di un'attrezzatura vetusta”.
 
Tale accertamento risulta essere stato compiuto nel caso in esame dal giudice di merito di primo grado che  ha ritenuto provate, oltre alla sussistenza del delitto di cui all'art. 589 in danno dell'operaio dipendente infortunato, commesso con plurime violazioni della normativa in materia di sicurezza del lavoro dal legale rappresentante della società e dal dirigente, la protratta sistematica violazione della normativa prevenzionistica a vantaggio dell'ente, che aveva risparmiato i costi connessi all'acquisto di un'attrezzatura di lavoro moderna, efficiente e sicura con la quale sostituire la vetusta autogru ovvero i costi delle modifiche tecniche necessarie a rendere quel macchinario sicuro per i lavoratori nonché la circostanza che la società aveva risparmiato i costi connessi ad un'adeguata attività di formazione ed informazione dei lavoratori. Giustamente quindi il Tribunale ha ritenuto che la società avrebbe dovuto agire tempestivamente a tutela di valori fondamentali, quali la vita e l'incolumità personale, adottando tutte le misure adeguate alla prevenzione di eventi lesivi, non essendo ammissibile il sacrificio di quei beni a causa di inefficienze organizzative e gestionali e avrebbe dovuto adottare un modello di organizzazione e gestione, finalizzato alla prevenzione degli infortuni sul lavoro.
 
In definitiva, ha così concluso la Corte di Cassazione, poiché la violazione delle norme antinfortunistiche non era stata connotata da occasionalità, né dovuta a caso fortuito, ma era risultata essere frutto di una specifica politica aziendale, volta alla massimizzazione del profitto con un contenimento dei costi in materia di sicurezza, a scapito della tutela della vita e della salute dei lavoratori, sono stati in conclusione ritenuti ricorrenti tutti i criteri di imputazione sia oggettiva che soggettiva ed è stata giustamente affermata la responsabilità della società ai sensi del D. Lgs. 231/2001 da cui il rigetto del ricorso presentato dalla stessa.
 

Gerardo Porreca  
 
 
 
 

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