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Sull’obbligo di valutare i rischi anche per un impianto in disuso

Sull’obbligo di valutare i rischi anche per un impianto in disuso
Gerardo Porreca

Autore: Gerardo Porreca

Categoria: Sentenze commentate

05/08/2013

La valutazione dei rischi in un’azienda va estesa anche a impianti o parti di essi in disuso, che sono comunque accessibili e frequentabili dai lavoratori e in particolar modo se possono costituire fonte di pericolo per gli stessi. A cura di G. Porreca.

 
Commento a cura di G. Porreca.
 
La sentenza della Corte di Cassazione penale in esame riguarda quei casi, anche abbastanza frequenti, che possono verificarsi in una azienda allorquando nell’ambito della stessa vi siano delle aree o degli impianti che, pur se sono in disuso, risultano comunque essere accessibili ai lavoratori che operano nella stessa e da questi frequentabili. In questi casi la  valutazione dei rischi, secondo quanto ha sostenuto la suprema Corte, deve essere estesa anche a tali aree o impianti specie se questi possono essere fonte di pericolo per i lavoratori e necessitano pertanto di opportuni interventi per la loro eliminazione. Il luogo di lavoro di cui al caso in esame era una vasca contenente della trielina dichiarata in disuso dai responsabili dell’azienda ma nella quale si è potuto comunque introdurre un lavoratore il quale, investito dai vapori venefici, ha perso la vita.

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L’evento, l’iter giudiziario e il ricorso in Cassazione
Il Tribunale ha affermata la responsabilità dell’amministratore delegato e del presidente del consiglio di amministrazione di una società in ordine al reato di omicidio colposo con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro con una sentenza di condanna che è stata poi confermata dalla Corte d'appello. L'evento era accaduto nello stabilimento della società allorquando il lavoratore, entrato all'interno di una vasca contenente trielina utilizzata per la pulizia delle maniglie prodotte dall'azienda, è stato investito da vapori venefici che ne hanno cagionata la morte. Ai due imputati era stato mosso, in particolare, l'addebito di non aver formato ed informato il lavoratore e di non aver predisposto le misure tecniche ed i dispositivi di protezione per governare i rischi connessi all'uso del solvente in questione.
 
I due imputati hanno fatto ricorso in cassazione sostenendo che, secondo quanto emerso dall'istruttoria, l'evento letale si era verificato in una vasca contenente trielina chiusa con coperchi che hanno determinato la concentrazione dei vapori e che l'apparato, che veniva utilizzato solo in passato per pulire le maniglie semilavorate, al momento dell’evento era in disuso. Il lavoratore in particolare, secondo i ricorrenti, si era arbitrariamente introdotto nella vasca senza che ciò attenesse in alcun modo alle lavorazioni che gli erano affidate. Gli stessi hanno sostenuto che la pulizia con la trielina avveniva in altro stabilimento il che rendeva ancora più inverosimile l'ipotesi che la vittima avesse fatto uso della vasca per procedere alla pulizia di manufatti, tanto più che la trielina, per esercitare la sua azione pulente aveva bisogno di essere scaldata. La vittima era altresì magazziniere e non aveva incombenze afferenti alla pulizia dei manufatti oltre al fatto che in realtà erano rimaste ignote le cause del decesso e che non si fosse compreso perché il lavoratore fosse entrato nella vasca. In definitiva, hanno sostenuto gli imputati, essendo l'apparato fuori uso, non incombeva su di loro alcun obbligo di formazione ed informazione tanto più che la vasca era in sicurezza con l'apposizione di idonei coperchi.
 
Le decisioni della Corte di Cassazione
I ricorsi sono stati ritenuti infondati e quindi rigettati dalla Corte di Cassazione. La stessa ha dichiarato in merito che “il datore di lavoro è chiamato alla valutazione ed al governo dei rischi presenti nell'ambiente di lavoro. Il rischio, d'altra parte, è già connesso alla sola presenza in azienda di sostanze letali o nocive” e che “nel caso di specie è emerso che mancava un programma di sicurezza; che il rischio trielina non era stato eliminato e che la vasca in cui la sostanza si trovava non era stata messa in sicurezza; che non era segnalata la presenza della sostanza medesima; che non era stata fornita alcuna formazione ed informazione ai lavoratori”. Tali violazioni, ha aggiunto la Sez. IV, sussistevano anche se l'impianto fosse stato in disuso, posto che la zona era frequentata dai lavoratori e che erano presenti 200 litri della sostanza per cui in definitiva il rischio esisteva e non era  stato in alcun modo governato. D'altra parte, ha messo in evidenza la Sez. IV, il fatto che il lavoratore fosse entrato nella vasca indossando due mascherine di tessuto, totalmente inidonee, aveva costituita la prova che la vittima non era incosciente ma che non era stata per nulla informata sulla pericolosità della sostanza e sul rischio di morte.
 
L’ipotesi, inoltre, che il lavoratore stesse comunque compiendo un'operazione che si effettuava saltuariamente in azienda per la pulitura di manufatti era stata basata su alcuni indizi, come la presenza di una pedana e l'acquisto di trielina, nonché sulle dichiarazioni della moglie della vittima che aveva riferito che il marito tornava a casa stordito e sulla deposizione di un testimone che aveva dichiarato di aver lavorato insieme alla vittima alla pulizia di alcune maniglie campione per una fiera.
 
Ciò che radica la responsabilità”, ha così concluso la suprema Corte, “è che nell'impianto vi era una vasca contenente una sostanza idonea a produrre vapori altamente tossici; e che il rischio connesso non era per nulla governato” difettando, altresì, di plausibilità la tesi difensiva secondo cui la vittima si sarebbe introdotta nella vasca senza alcuna ragione afferente, in un modo o nell'altro, alle lavorazioni che gli erano state comandate.
 
 
 
 
 

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