Per utilizzare questa funzionalità di condivisione sui social network è necessario accettare i cookie della categoria 'Marketing'
Crea PDF

Sicurezza a scuola: è giusta la normativa di riferimento?

Sicurezza a scuola: è giusta la normativa di riferimento?

Autore:

Categoria: Sentenze commentate

13/12/2019

Un approfondimento su una recente sentenza della Corte di Cassazione relativa ad un infortunio occorso ad un alunno di un liceo. La normativa di riferimento è giusta? Cosa poteva fare il dirigente scolastico per impedire l’evento?

Riceviamo e volentieri pubblichiamo alcuni commenti dell’avvocato Domenico Ciruzzi in merito alla sentenza della Corte di Cassazione n. 37766 del 12 settembre 2019, che abbiamo già presentato in un precedente articolo, con riferimento all’infortunio dello studente e le responsabilità, tra gli altri, del dirigente scolastico. Quello dei doveri e delle responsabilità dei dirigenti scolastici è sicuramente un tema delicato, più volte trattato nei nostri articoli, e il contributo dell’avvocato Ciruzzi che, come vedremo, conosce bene la sentenza, pone alcune domande interessanti e ineludibili che possono arricchire il dibattito sul tema della sicurezza nelle scuole e sulle correlate responsabilità.



Pubblicità
Emergenza e piano di evacuazione - Versione Scuola
Per la formazione dei lavoratori e degli addetti alla squadra di emergenza - Versione Scuola

Ho letto con grandissima attenzione i numerosi interventi pubblicati sul sito puntosicuro.it in tema di sicurezza sul lavoro all’interno degli edifici scolastici.

In particolare, il dibattito ha preso spunto dalla recentissima sentenza della IV Sezione della Corte di Cassazione (n. 37766 del 2019) relativa ad un infortunio occorso ad un alunno (o più correttamente ex alunno) del Liceo C. Pisacane di Sapri.

 

La sentenza – come è noto – ha riconosciuto il Dirigente Scolastico ed il Responsabile per la Sicurezza colpevoli del reato di lesioni colpose in danno di uno studente con condanna al minimo della pena e beneficio della non menzione.

Il dibattito – ribadisco – sta fornendo spunti di riflessione particolarmente interessanti e tutti gli autorevoli interventi si fondano, sia pur da prospettive e con sensibilità diverse, su elementi logici e giuridici in larga parte apprezzabili e sicuramente colti.

 

Sono stato – unitamente all’Avv. Ferrante – difensore della Dott.ssa Principe in grado di appello e dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione ed, ovviamente, mi sembrerebbe inelegante o comunque scarsamente interessante tediare i lettori con la riproposizione di tutte le argomentazioni tecnico-giuridiche su cui si fondavano i motivi di appello e di ricorso per cassazione da me redatti.

 

Dunque voglio essere chiaro: non utilizzerò questo spazio per dar luogo ad una specie di tempo supplementare per confrontarmi ancora una volta con un assunto accusatorio (e con le relative sentenze di condanna) che – non ne ho fatto mai mistero – non condivido per nulla.

 

Voglio, invece, provare a ragionare su due temi che in un’epoca di iper-specializzazione sembrano essere completamente scomparsi dal discorso pubblico ed ancor di più da quello giuridico:

  1. È giusta la normativa di riferimento? È sensata? Sono disposizioni che realmente sono idonee a rendere le scuole dei luoghi più sicuri? Oppure si risolvono esclusivamente in un coacervo di norme che hanno l’unica finalità di trovare un capro espiatorio, un colpevole purchessia, secondo la tendenza di ciò che viene definito populismo penale?
  2. Fornita una risposta al primo interrogativo occorre poi chiedersi: era esigibile da parte del Dirigente Scolastico un contegno diverso che avesse una reale efficacia impeditiva dell’evento?

 

Devo dire che sono un po’ stanco di affermazioni – tutt’altro che infrequenti nel mondo giuridico ed ancor più nell’Accademia – che, permeate di apparente buonsenso e di presunta sensibilità istituzionale, si risolvono in realtà in mere tautologie.

Dire sussiegosamente “le norme sono queste ed il giudice si è limitato ad applicarle” rappresenta un atteggiamento che, a mio modo di vedere, priva il diritto di quella spinta propulsiva e progressista che è la stessa ragion di esistere di un sistema che, in ultima analisi, mira a regolare i rapporti tra gli esseri umani.

 

Allora ragioniamo sul senso profondo e sulla condivisibilità o meno della normativa che equipara i Dirigenti Scolastici ai datori di lavoro.

Lo dico in premessa: sull’argomento non ho un approccio massimalista e non nego – sia pur con i dubbi e con le criticità che esporrò brevemente – che l’opzione legislativa prescelta possa avere, in mancanza d’altro, anche degli aspetti astrattamente condivisibili.

Del resto, anche la Cassazione afferma che i presidi sono equiparati ai datori di lavoro sia pur con degli importanti distinguo. Importanti distinguo che, tuttavia, sono soltanto enunciati ma sovente lasciati privi di ogni contenuto.

Ed invero i Dirigenti Scolastici sono gli unici che – nel genus dei datori di lavoro – sono privi di poteri di spesa (non hanno in altri termini risorse economiche da cui attingere in via diretta) e non hanno, nel contempo, autonomia decisionale.

Sono dunque privi propri di quei caratteri che specificano e danno corpo e significato alla locuzione “datore di lavoro”.

Ed allora io capisco – vivo nel mondo, sento gli umori e non li condanno – che vi è una richiesta crescente e sovente pressante di responsabilizzazione.

A ciascuno il suo! Chi sbaglia paga! Basta con le vittime senza colpevole! Sono frasi che ormai riecheggiano a tutti i livelli.

Ma la responsabilizzazione se non filtrata attraverso gli strumenti della cultura, dell’intelletto, della sensibilità diviene colpevolizzazione o peggio cieca criminalizzazione: ci serve un responsabile, la folla ce lo chiede.

 

Orbene, io non metto in discussione che un preside possa essere responsabile se pone in essere condotte che possano pregiudicare la sicurezza degli alunni (ad esempio decide di allocare un’aula all’interno di uno spazio non sicuro) o se non verifica che, ad esempio, eventuali macchinari utilizzati sono insicuri o malfunzionanti.

Arrivo ad ammettere – sia pur con talune perplessità - che il dirigente possa essere finanche responsabile per infortuni derivanti dal degrado di attrezzi, di porte, finestre … .

Ma trovo veramente inconcepibile, trovo – mi si passi il termine – feroce che un preside possa essere ritenuto responsabile per difetti strutturali o addirittura per caratteristiche dell’immobile in cui è sito l’istituto scolastico.

 

L’istituto scolastico – lo sappiamo tutti – è infatti mero ospite all’interno di una struttura di proprietà degli Enti Locali. Dell’edificio, dunque, non può che rispondere il proprietario il quale ha peraltro egli stabilito che in quella sede – eventualmente inadatta – si svolgesse l’attività scolastica.

 

Ed allora – calando tali ragionamenti astratti nel caso concreto avvenuto nella scuola di Sapri – e pur volendo confrontarsi con gli scivolosissimi obblighi di informativa che graverebbero sui presidi (si veda sul punto la sentenza già da molti di voi citata relativa al crollo dell’istituto a L’Aquila), occorre con onestà intellettuale chiedersi: che cosa avrebbe dovuto fare la preside? Avrebbe dovuto informare la Provincia che la terrazza su cui insistevano i lucernai (terrazza esistente sin dalla costruzione dell’immobile) poteva determinare problemi in termini di sicurezza per gli alunni?

Forse che terrazza e lucernai erano stati costruiti nottetempo e senza che il proprietario dell’immobile ne fosse messo a conoscenza? Suvvia, siamo seri!

 

Davvero crediamo – davvero ci basta, ci tranquillizza – che la normativa antinfortunistica si possa risolvere nell’ennesimo inutile adempimento burocratico, nell’ennesimo timbro, nel mettere le carte a posto?

 

Non vi era nessuna informazione da dare, nessuna segnalazione da inoltrare che non fosse già debitamente conosciuta dal proprietario del bene. Ecco che la normativa sembra acquistare un’altra finalità: non strumento attraverso il quale aumentare la sicurezza degli utenti ma, più banalmente, abile stratagemma per traslare la responsabilità da un soggetto forte (che ha poteri di spesa e possibilità ed autonomia decisionale) ad un soggetto più debole e meno tutelato (il Dirigente Scolastico).

 

In un simile quadro, l’unica condotta idonea ad impedire eventuali infortuni era quella di interdire l’accesso e chiudere a chiave la porta del terrazzo su cui insistevano i lucernai e così è stato fatto (sino all’inopinata ed imprevedibile condotta della bidella).

Tutta la pur ampia disquisizione contenuta in sentenza circa presunte carenze in ordine alle modalità di conservazione delle chiavi, agli ordini di servizio a presunti obblighi di formazione del personale risulta – spiace evidenziarlo – completamente fuori-fuoco.

Ed invero, la gestione del luogo terrazza/lucernaio non spettava certamente al preside (non svolgendosi in quel luogo alcuna attività scolastico/lavorativa) bensì ovviamente al proprietario dei luoghi che avrebbe dovuto egli organizzare la gestione delle chiavi e predisporre tutti gli accorgimenti per impedire efficacemente l’accesso al lucernaio della cui effettiva capacità di carico – peraltro – soltanto l’ente proprietario doveva essere necessariamente a conoscenza e non certo la preside.

 

Viene così in rilievo quello che – a mio parere – è il vero punctum dolens della sentenza della Cassazione. Un tema che, pur esaustivamente evidenziato nel ricorso e nei precedenti gradi di giudizio, è stato completamente obliterato dal Supremo Collegio.

 

La responsabilità (ed i relativi doveri) del Dirigente Scolastico, nella sua veste di datore di lavoro, non involge l’intero edificio al cui interno è situata la scuola (edificio di cui sono ovviamente responsabili altri soggetti) ma esclusivamente i luoghi in cui si svolge l’attività scolastica (essendo, del resto, egli datore di lavoro esclusivamente rispetto all’attività scolastica strictu sensu considerata).

 

Ragionando diversamente, si finirebbe per addossare una responsabilità omnicomprensiva in capo al Dirigente Scolastico (con conseguente immotivata deresponsabilizzazione di altri soggetti) in assenza della previsione di risorse e strumenti per far fronte alle eventuali criticità.

Orbene, non vi è dubbio che, nel caso di cui stiamo discutendo, l’incidente sia avvenuto in una porzione di edificio (il lastrico solare/terrazza nel quale erano situati i lucernai) in cui non si svolgeva – né si era mai svolta – alcuna attività scolastica, ragione per la quale è da escludersi l’applicabilità, in capo alla preside, della normativa ex D.Lgv. 81 del 2008.

Trattasi di un dato (l’incidente è avvenuto in un luogo in cui non era prevista ed esercitata alcuna attività scolastica) ritenuto acclarato sin dalla sentenza di primo grado. 

E, tuttavia, tale elemento evidentemente assorbente e decisivo è stato superato affermando apoditticamente che il luogo in cui si è verificato l’incidente, pur estraneo all’esercizio dell’attività scolastica, era da ritenersi pertinenza dell’edifico scolastico (o meglio pertinenza dell’attività scolastica) e, dunque, rientrante nella sfera di competenze e responsabilità del Dirigente Scolastico.

Un simile approccio ermeneutico non è a mio avviso condivisibile sia perché del tutto apodittico sia perché erroneo dal punto di vista giuridico e fattuale.

 

In premessa del ragionamento si è evidenziato come la responsabilità del preside/datore di lavoro abbia ad oggetto non l’intero edificio in cui è sita la scuola ma, esclusivamente, quella porzione di edificio in cui è esercitata l’attività scolastica (unica attività per la quale il preside può essere ritenuto datore di lavoro).

Il citato lastrico solare ovviamente non era - per sua natura e come incontrovertibilmente emerso nel corso del processo  - adibito ad alcuna attività scolastica né costituiva un luogo che, pur al di fuori dell’organizzazione scolastica, doveva necessariamente essere percorso dai lavoratori-studenti, essendo posto al di là di una porta che era sempre chiusa a chiave; porta che solo per circostanze imprevedibili e, dunque, non evitabili dal preside (in quel momento neppure presente nella struttura poiché impegnato negli esami di stato in altra sede!), era stata inopinatamente aperta.

In altri termini, il lastrico citato non può in alcun modo essere considerato una pertinenza del luogo di lavoro e, dunque, rispetto ad esso (o meglio rispetto a ciò che in detto lastrico può verificarsi) non sussisteva alcuna posizione di garanzia del Dirigente Scolastico.

 

In tema di significato da attribuire alla locuzione “pertinenza del luogo in cui si svolge l’attività lavorativa”, vale la pena di citare la dotta ed illuminante sentenza n. 40721/2015 della IV sezione della Corte Suprema di Cassazione che consiglio attentamente di leggere e studiare a tutti coloro che sono interessati al tema.

 

Se ne riporta un breve passaggio:

“Tenuto conto quanto appena esposto, si può venire a considerare, che, a mente dell'art. 62 d.lgs. n. 81/2008, si intendono per 'luoghi di lavoro" i luoghi destinati ad ospitare posti di lavoro, ubicati all'interno dell'azienda o dell'unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell'azienda o dell'unità produttiva accessibile al lavoratore nell'ambito del proprio lavoro".

Proprio il caso in esame rende opportuno rimarcare che, ai fini della individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede. Lo si ricava dalla definizione, testé riportata, laddove prevede un collegamento di ordine spaziale ("all'interno dell'azienda ...") o almeno pertinenziale tra l'azienda o l'unità produttiva e il luogo di lavoro. E lo implica la logica stessa della normativa prevenzionistica, che attribuisce obblighi securitari a colui che é titolare di poteri organizzativi e decisionali che trovano nei luoghi di lavoro l'ambito spaziale e funzionale di estrinsecazione. Lo stesso Titolo II elenca gli obblighi che il datore di lavoro deve osservare rispetto ai 'propri' luoghi di lavoro.

E quindi va puntualizzato che, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, proprio ogni tipologia di spazio può assumere la qualità di 'luogo di lavoro'; a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell'ambito del proprio lavoro (cfr. Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013 - dep. 20/01/2014, S. e altro, Rv. 258435; Sez. 4, n. 28780 del 19/05/2011 - dep. 19/07/2011, Tessari e altro, Rv. 250760).

In particolare, può trattarsi anche di un luogo nel quale i lavoratori si trovino esclusivamente a dover transitare, se tuttavia il transito é necessario per provvedere alle incombenze loro affidate. In tal senso già ha avuto modo di esprimersi questa Corte, allorquando ha formulato il principio per il quale nella nozione di "luogo di lavoro", rilevante ai fini della sussistenza dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra non soltanto il cantiere, ma anche ogni altro luogo in cui i lavoratori siano necessariamente costretti a recarsi per provvedere ad incombenze inerenti all'attività che si svolge nel cantiere.

Per contro, e qui si rinviene una grave lacuna motivazionale nella sentenza impugnata, non può parlarsi di luogo di lavoro (da preferirsi in questo caso alla locuzione utilizzata dalla Corte di Appello di 'ambiente di lavoro') solo sul presupposto che un qualsiasi soggetto, che é anche prestatore d'opera in favore di taluno, vi si trovi a transitare.

… Diversamente, eventuali obblighi di assicurazione della non pericolosità dell'area potrebbero farsi discendere unicamente dalla proprietà degli spazi; con esclusione, quindi, della violazione di obblighi datoriali e procedibilità a querela del reato.”. (cfr., Cassazione Penale, Sez. 4, 09 ottobre 2015, n. 40721).

 

Non sembra necessario aggiungere null’altro a tale colto ed autorevole canone ermeneutico che risulta integralmente applicabile al caso che ci occupa.

 

Ed invero:

  1. il più volte citato lastrico solare non rientra senz’altro nel genus del luogo di lavoro propriamente detto poiché non era evidentemente un “luogo destinato ad ospitare posti di lavoro, ubicati all'interno dell'azienda o dell'unità produttiva”;
  2. del pari, lo stesso non può essere ritenuto una pertinenza del luogo di lavoro (da intendersi quale luogo necessariamente servente all’esercizio dell’attività lavorativa) atteso che, come chiarito dalla S.C. nella sentenza citata, per pertinenza deve intendersi un luogo – pur estraneo all’esercizio dell’attività lavorativa – in cui i lavoratori (nel caso che ci occupa gli studenti) siano necessariamente costretti a recarsi per provvedere ad incombenze inerenti all'attività che si svolge nell’azienda (nel caso che ci occupa, la scuola); in altri termini, un luogo in cui, evidenzia la Corte, i lavoratori si trovino a dover transitare, se tuttavia il transito é necessario per provvedere alle incombenze loro affidate.

 

Il concetto di pertinenza di un luogo di lavoro è, dunque, modulato sulla base del concetto di accessibilità allo stesso da parte dei lavoratori.

E, tuttavia, come didascalicamente evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, perché si possa parlare di pertinenza di un luogo di lavoro (trovando dunque applicazione la normativa di cui al D.Lgs. 81 del 2008 con tutti i corollari che ne conseguono anche in sede penale) non è sufficiente che detto luogo sia genericamente accessibile, essendo di contro necessaria un’accessibilità per così dire qualificata.

È necessario, in altri termini, che si tratti di una zona in cui i lavoratori debbano necessariamente transitare o, comunque, accedervi per poter svolgere la propria attività lavorativa (dunque un luogo comunque necessario per l’esercizio dell’attività lavorativa).

Di contro, qualora non si tratti di una via di transito necessariamente da percorrere (ed anzi nel caso di specie era un luogo non soltanto non utilizzato ed utilizzabile per l’attività lavorativa ma addirittura interdetto), la responsabilità di eventuali incidenti non potrà che ricadere, ricorrendone le condizioni, sul soggetto proprietario dei luoghi.

 

Rebus sic stantibus, non posso essere d’accordo con chi ha definito, entusiasticamente, perfetta la sentenza di cui stiamo discutendo.

A mio parere la sentenza – pur autorevole nella fonte ed apprezzabile nello stile – non è affatto perfetta.

 

Due sono le ragioni che mi spingono a siffatta affermazione.

In primo luogo – come già esaustivamente evidenziato – la sentenza oblitera il tema principale di discussione e di relativa valutazione e cioè l’estraneità all’attività scolastica del luogo in cui è intervenuto l’incidente, con tutto ciò che ne consegue in termini di assenza di posizione di garanzia in capo al Dirigente Scolastico.

Ma la mia perplessità si fonda anche su un altro argomento forse ancora più importante nell’ambito di un dibattito che, per sua natura, guarda al futuro sia pur attraverso una rilettura critica di una sentenza già emessa.

Io credo che – con la sentenza in discussione – vi sia stato un non condivisibile ritorno al passato.

 

Sul punto, è noto che nei primi anni di vigenza del D.lgs. 81/2008 la giurisprudenza di legittimità si era attestata su di un’interpretazione particolarmente stringente e severa in relazione agli obblighi gravanti sul datore di lavoro a tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori.

 

In particolare, si era sostenuta la necessità di un controllo continuo e pressante da parte del datore di lavoro - diretto o per interposta persona - al fine di imporre ai lavoratori il rispetto della normativa. In dottrina, tale modello gestionale era stato definito, non a torto, “iperprotettivo”.

Espressione classica di tale modello era quella giurisprudenza che riteneva esclusa la responsabilità del datore di lavoro, per interruzione del nesso causale, esclusivamente nelle ipotesi di comportamento abnorme da parte del lavoratore. Comportamento abnorme che andava inteso, secondo i giudici del Supremo Collegio, come una condotta del lavoratore imprevedibile, al di fuori del contesto lavorativo e che nulla ha a che vedere con l’attività svolta. Si tratta – a ben vedere - di casi limite e di difficile verificazione pratica, con il risultato di una responsabilità quasi automatica (rectius, oggettiva) del datore di lavoro in caso d’infortunio.

 

Il più recente orientamento giurisprudenziale ha (o forse aveva alla luce di tale ultima pronunzia), invece, abbandonato il modello “iperprotettivo” testé descritto, sostituendolo con il modello cd. “collaborativo”, in cui gli obblighi in materia di sicurezza sono ripartiti tra più soggetti, compresi gli stessi lavoratori.

 

Corollario di tale nuova concezione sorta in seno alla giurisprudenza di legittimità è che la responsabilità del datore di lavoro è esclusa – sub-specie di interruzione del nesso causale – non soltanto in presenza di una condotta abnorme del lavoratore ma anche nel caso di comportamento esorbitante (dalle mansioni affidategli, n.d.r.) dello stesso.

Il comportamento del lavoratore s’intende esorbitante quando fuoriesce dall’ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartite dal datore di lavoro o da chi ne fa le veci, nell’ambito del contesto lavorativo.

 

Pertanto, alla luce di tale orientamento giurisprudenziale – da preferirsi perché maggiormente rispettoso dei caratteri che devono necessariamente informare la colpevolezza in sede penale, valorizzando il principio di responsabilità penale personale di cui all’art. 27 Cost. e correttamente intendendo il ruolo del diritto penale come extrema ratio - il datore di lavoro non è responsabile non solo nel caso di condotte estranee alle mansioni affidate al lavoratore (comportamento abnorme) ma anche nel caso di comportamento che, pur rientrando nel segmento di lavoro del dipendente e pur essendo strettamente connesso all’attività lavorativa, sia assolutamente imprevedibile (comportamento esorbitante).

In pratica quando si discute di attività strettamente connessa con lo svolgimento dell’attività lavorativa, ciò che conta è la considerazione della prevedibilità/imprevedibilità della condotta.

 

Si era assistito, dunque, ad un’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione verso una maggiore considerazione della responsabilità dei lavoratori: si abbandona “il criterio esterno delle mansioni e si sostituisce il parametro della prevedibilità”.

 

Ebbene, nel caso dell’incidente occorso nell’istituto Pisacane (che ha, come è noto, il suo antecedente causale nell’imprevedibile apertura della porta da parte della bidella) tale nuovo modello (quello cd. collaborativo) è stato nuovamente abbandonato per un ritorno ad una visione iper-protettiva.

Iper-protezione, colpevolizzazione, populismo penale.

Sarà forse un segno dei tempi?

 

Avv. Domenico Ciruzzi

 

 

Scarica la sentenza di riferimento:

Corte di Cassazione - Cassazione Penale sezione IV – Sentenza n. 37766 del 12 settembre 2019 - Infortunio dello studente durante gli esami di maturità - Responsabilità del Preside e del RSPP.

 



Creative Commons License Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.
Per visualizzare questo banner informativo è necessario accettare i cookie della categoria 'Marketing'

Pubblica un commento

Rispondi Autore: Carlo Colombo - likes: 0
13/12/2019 (06:55:27)
Condivido pienamente. Complimenti.
Rispondi Autore: Eugenio Roncelli - likes: 0
13/12/2019 (08:32:47)
Lungo articolo dedicato a togliere responsabilità al Dirigente Scolastico.
Ma quando si condanna un DdL perché in un cantiere sono entrati abusivamente e poi è avvenuto un incidente, va tutto bene.
Il Dirigente scolastico ha alle sue dipendenze il personale parascolastico (i bidelli di una volta) e quindi ne è responsabile del comportamento (si chiama "preposto").
Altrimenti, nel settore pubblico, non vi è alcuna responsabilità.
Ovviamente non sono un leguleio, ma solo un operatore nel campo della sicurezza.
Rispondi Autore: Carmelo Catanoso - likes: 0
13/12/2019 (08:37:36)
Qui siamo di fronte, con le dovute differenze, allo stesso approccio che fu seguito dalla Cassazione Penale nei confronti del CSE.

Per 13 anni, da marzo '97 (entrata in vigore del 494) fino al maggio 2010, il CSE fu chiamato a rispondere, oltre che per reati di puro pericolo, anche per reati d' evento, ritenuti conseguenza di una sua supposta "mancata vigilanza".
Poi, da maggio 2010, la Cassazione Penale arrivò a capire quale fosse la condotta penalmente esigibile da parte di questa figura.

Da quel momento si susseguirono tutta una serie di pronunce favorevoli al CSE.
Pronunce, inoltre, fatte proprie anche dai giudici di prime cure con assoluzioni ben motivate non sempre riportate nella giurisprudenza di merito.

Penso, quindi, che anche per la figura del Dirigente Scolastico si sia costretti ad attendere la "maturazione" con una prima pronuncia della Cassazione Penale che stabilisca il perimetro delle responsabilità di tale figura.

Nel frattempo, purtroppo, come avvenuto per molti CSE, ci saranno quelli che subiranno la miopia interpretativa della Cassazione Penale.
Rispondi Autore: Pasquale Cantisani - likes: 0
13/12/2019 (10:16:25)
Come disse un famoso Presidente, io non ci sto. Se ragioniamo cosi ( e mi dispiace per l'ing. Catanoso che miscela patate con le mele perchè almeno l'avvocato fa lucidamente il suo mestiere) giustifichiamo qualsiasi dirigente scolastico, qualsiasi responsabile di una attività che se ne infischia del pericolo evidentissimo che corrono i suoi collaboratori, perchè questo pericolo era noto al dirigente scolastico e al suo RSPP, tanto la responsabilità è di un altro! Ma la vita umana vale meno di una interruzione di pubblico servizio? (nel caso specifico sarebbe comunque bastata una semplice griglia o un catenaccio con lucchetto con chiave in tasca al dirigente scolastico )
Rispondi Autore: carmelo catanoso - likes: 0
13/12/2019 (11:00:21)
Visto il commento di Cantisani, evidentemente non mi sono spiegato.
Ci riprovo.

Quello che sto dicendo è che il problema reale è l'incapacità della Cassazione Penale di distinguere tra una carenza di organizzazione su cui un datore di lavoro come il Dirigente Scolastico può fortemente incidere e il comportamento di un singolo, pur appartenente alla stessa organizzazione, che si concretizza in tempi rapidissimi.

Quindi non sto mischiando patate con mele perché questo è quello che è successo per tredici anni al CSE quando lo si vedeva come colui che doveva controllare tutto, assicurare tutto ed essere responsabile del comportamento di altri soggetti quando questi non rispettavano le regole esistenti come, ad esempio, staccarsi dalla linea vita con il DPI anticaduta nonostante questa fosse stata prevista, installata e perfettamente fruibile.
C'è un bell'elenco di CSE condannati in via definitiva con motivazioni come queste appena descritte.

Tornando al caso, da quel che sembra, l'apertura della finestra, normalmente chiusa a chiave proprio perché permetteva l'accesso ad un'area pericolosa, era stata effettuata dal bidello della scuola a cui, per organizzazione interna, era stata attribuita la responsabilità della custodia della chiave con l'incarico di mantenere la finestra chiusa.
Quel giorno invece l'ha aperta e l'ha lasciata tale.

A questo punto, quale poteva essere la condotta penalmente esigibile da pare del Dirigente Scolastico?
Applicare la procedura di Lockout-Tagout come in uno stabilimento industriale prendendosi tutte le chiavi e portandosele appresso visto che quel giorno non era neanche in istituto o chiudendole in un armadietto la cui chiave dello stesso teneva solo lei?

Mi sono accorto che c'è una finestra che permette l'accesso ad una copertura non calpestabile....
La faccio chiudere a chiave e assegno l'incarico di custodia della chiave al personale preposto.
Cosa devo fare di più?
Mica potevo chiamare un fabbro e far applicare una grata sulle finestre di mia iniziativa visto che come Dirigente Scolastico non posso fare alcun intervento sulle strutture.
allora, mi si può chiedere di controllare con continuità che la finestra non venga mai aperta e lasciata incustodita?
E' questa una condotta penalmente esigibile da parte del Dirigente Scolastico?
A me pare proprio di no.
Rispondi Autore: Arturo Micelotta - likes: 0
13/12/2019 (11:16:51)
L'intero intervento è in contrasto con quanto affermato:
"non utilizzerò questo spazio per dar luogo ad una specie di tempo supplementare per confrontarmi ancora una volta con un assunto accusatorio (e con le relative sentenze di condanna) che – non ne ho fatto mai mistero – non condivido per nulla"

Detto questo non si dovrebbero ritenere i dirigenti colpevoli per qualsiasi tipo di avvenimento; le tragedie sono tragedie tanto più quando conseguenti a condotte non abituali (andare a fumare in un'attività soggetta a normativa Antincendio; inciampare)

Le leggi inosservabili vanno interpretate sino alla loro modifica; se si vuole accelerare la modifica ci si dimette denunciando l'inosservabilità della norma;
Nessuno obbliga una persona a fare il dirigente;
il dirigente non dovrebbe essere un ruolo compensato spopositatamente per compensare il rischio di fare da capro espiatorio;
Il dirigente scolastico è l'unico ad avere autonomia decisionale in campo gestionale, può avvalersi dell'RSPP per chiedere la chiusura di una porta come dell'intero edificio.
Rispondi Autore: Arturo Micelotta - likes: 0
13/12/2019 (11:34:12)
Voglio una scuola sicura o voglio esser sicuro di non esser sanzionato? Se si ritiene che sia impossibile ricoprire il ruolo di dirigente scolastico ci si dovrebbe dimettere. Tornati insegnanti si puo' liberamente vigilare su chi e' in grado di ricoprire tale ruolo. Il datore di lavoro non puo' che essere chi ha potere gestionale, se i dirigenti scolastici vogliono gestire le manutenzioni dovrebbero essere qualificati per gestire lavori pubblici. Le scuole dovrebbero essere statali anche nella proprieta'. Al dirigente con potere di spesa dovrebbe esser data autonomia nella riduzione dei rischi in funzione delle risorse assegnate ed essere giudicato esclusivamente su quello. Non ha senso che esistano a priori rischi di serie a (incendio, sismico, linee vita sui tetti) per i quali sono obbligatorie verifiche periodiche e destinazione di ridorse e rischi di serie b (controsoffitti, intonaci, perdite d'acaua). Rischiare la vita per garantire un servizio pubblico essenziale non dovrebbe essere equiparato a rischiare la vita per profitto. Bisognerebbe avere chiare quali siano le risorse disponibile per raggiungere un livello di rischio accettabile e, una volta ricevute le risorse disponibili, effetguare le azioni che minimizzano il rischio. Se le risorse disponibili non sono considerate accettabili si deve rinunciare a qualcosa (giochi gite, lim, spettacoli) o aumentare le tasse.
Rispondi Autore: Merico Massimo - likes: 0
13/12/2019 (12:01:32)
Stando alla lettura della sentenza, vi era una consolidata abitudine (non disciplinata) a tenere aperta la porta d'accesso al lucernaio con il dichiarato scopo di migliorare la ventilazione dell'edificio. Già solo questa circostanza basterebbe a far cadere la responsabilità dell'accaduto dal Dirigente (Datore di Lavoro) che, nell'ambito della valutazione di tutti i rioschi, pare non sia entrato nel merito di questa attività.
Rispondi Autore: Carmelo Catanoso - likes: 0
13/12/2019 (12:25:30)
Se così fosse avvenuto, l'aver tollerato e non regolato una prassi di questo tipo, allora, fa rientrare il tutto nell'ambito della colpa organizzativa del dirigente scolastico.
La differenza sta tutta qui.
Un conto è un comportamento episodico e cosa diversa è una prassi tollerata da tempo.
Rispondi Autore: Carmelo Catanoso - likes: 0
13/12/2019 (12:50:58)
Dimenticavo.
Se si trattava di una prassi tollerata provata in dibattimento, questo spiega perché la strategia difensiva si sia indirizzata verso la "definizione" di luogo di lavoro.
Rispondi Autore: Andrea Vaccari - likes: 0
13/12/2019 (23:56:13)
La sentenza della S.C di Cassazione si basa su una seria cultura della sicurezza.
Capisco l'intervento del difensore che ha chiesto ed ottenuto un tempo supplementare per dire le sue ragioni a partita chiusa e con il risultato finale già acquisito, ma la competenza nella valutazione dei rischi - fatta salva la specificità dei diversi ambiti lavorativi e delle diverse attività/mansioni - fa agire generalmente su tre fattori contemporaneamente, ovvero aspetto strutturale, organizzativo e formativo. Ognuno di questi concorre a ridurre il rischio, attenzione "ridurre", non significa eliminare, come lasciano trasparire i commenti dei detrattori della sentenza della Cassazione. E se ci sono rischi questi devono essere affrontati con responsabilità e competenza. Per questo un dirigente pur non ammazzandosi di lavoro più di un bravo docente che magari oltre alla docenza ha anche incarichi di collaborazione vari, percepisce uno stipendio che è quasi il doppio di un docente. Esiste cioè un'indennità adeguata ai rischi legati alla sua funzione.
Cosa poteva fare la dirigente, si chiede il difensore? A livello strutturale, segnalare con richiesta di intervento lo stato di presunta fragilità della copertura o al limite farsi certificare dall'Ente proprietario la tenuta della parte che ha ceduto o azioni equivalenti a queste.
A livello organizzativo - dopo avere visto la probabilità di danno che la consuetudine di aprire quella porta, comportava – almeno definire modalità di gestione delle chiavi o definire, se presenti, altre aperture per la necessaria ventilazione.
A livello formativo e informativo agire sui lavoratori con la finalità di consolidare i comportamenti virtuosi e modificare in meglio quelli che presentano criticità. Ovvero portare i lavoratori ad avere competenze nella gestione dell'ambiente dove lavorano, educandoli a vedere le conseguenze delle proprie decisioni e dei propri comportamenti.
Ma questo - mi rendo conto - prevederebbe fare una formazione seria, basata come le norme impongono, sulla valutazione dei rischi specifici non solo genericamente quelli di un certo macrosettore ATECO, ma dell'ambiente precisamente individuato dove i lavoratori prestano servizio.
È semplice fare questo? Assolutamente no!
Ma la strada per l'aumento della cultura della sicurezza, a partire dai dirigenti, passa di qui, non certo per le nozioni standardizzate, in corsi forniti da estranei, slegate dalla pratica quotidiana specifica e senza l'attenzione alla conseguente modifica del comportamento dei lavoratori.
Rispondi Autore: Avv. Rolando Dubini - likes: 0
18/12/2019 (07:23:49)
Si, è giusta la normativa di riferimento.
Sono avvocato penalista, patrocinante in Cassazione, e da trent'anni mi occupo di sicurezza sul lavoro. Ho partecipato alla stesura del decreto legislativo 81/2008 collaborando col relatore del governo in. Augusto Rocchi. La normativa di riferimento vigente ha reso testo di legge una giurisprudenza una giurisprudenza che si è consolidata in gran parte dal 1994, ma anche prima. Il diritto penale è una firma di difesa della società da rischi di danni a persone e cose che non possono non essere posti a carico di chi ha il potere giuridico di impedire direttamente, con la sua azione, o indirettamente, con la sua segnalazione, eventi lesivi della integrità psicofisica altrui, o dei beni altrui. Ho già avuto modo di scrivere in questa sede un concetto molto chiaro e giuridicamente inconfutabile, che ripropongo senza esitazioni. Lo stato di diritto poggia sulla certezza del diritto, non su interpretazioni soggettive elaborate alla bisogna. La scuola è un luogo di lavoro come un altro, e i titolari delle posizioni di garanzia non godono e non devono godere di alcuno scudo penale.
In tema di prevenzione nei luoghi di lavoro, per ambiente di lavoro deve intendersi tutto il luogo o lo spazio in cui l'attività lavorativa si sviluppa ed in cui, indipendentemente dall'attualità dell'attività lavorativa, coloro che siano autorizzati ad accedervi per qualunque motivo e coloro che vi accedano per ragioni connesse all'attività lavorativa, possono recarsi o sostare anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro. In tal senso rientra nei luoghi "di passaggio", quale parte integrante dell'ambiente di lavoro in cui devono essere operanti le misure antinfortunistiche, il locale destinato a spogliatoio del personale, potendo in esso i lavoratori dipendenti sostare per il tempo necessario a soddisfare esigenze del tutto momentanee, i corridoi, le vie di circolazione aziendale ecc..

L’ambiente di lavoro è tale non solo se vi è un attività lavorativa in atto ma anche se in quel momento il lavoratore è in pausa, riposa o vi è una sospensione del lavoro.



Con la sentenza Cass. Pen., Sez. IV, 11 aprile 2016, n. 14775, la Corte di Cassazione si sofferma sulla nozione di “ambiente di lavoro”, precisando in quali casi ed a quali condizioni il lavoratore o altri terzi estranei che occasionalmente, ma causalmente, si trovi in tale ambiente, è “coperto” dalla garanzia prevista dalla disciplina prevenzionistica.



La Cassazione, incanalandosi ancora una volta in un orientamento giurisprudenziale consolidato, non solo ribadisce il principio che estende la tutela prevenzionistica anche nei confronti di terzi estranei che causalmente od occasionalmente entrino in contatto con l’ambiente di lavoro, ma ha soprattutto chiarito che è “ambiente di lavoro” – e dunque ove l’infortunio ivi si verifichi, trova applicazione la normativa in tema di infortuni sul lavoro con le correlative garanzie e tutele nonché con l’aggravante specifica in materia di infortuni di cui agli artt. 589 e 590 del codice penale – non solo quel luogo in cui sia in corso di svolgimento un’attività lavorativa, ma deve intendersi come tale anche quel luogo destinato ai lavoratori dal datore di lavoro ai momenti di pausa, riposo, svago o sospensione dell’attività, o di passaggio, anche di terzi estranei, in quanto non debitamente delimitato e/o recintato dal datore di lavoro responsabile di detto ambiente

Pubblica un commento

Banca Dati di PuntoSicuro


Altri articoli sullo stesso argomento:


Forum di PuntoSicuro Entra

FORUM di PuntoSicuro

Quesiti o discussioni? Proponili nel FORUM!