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Sulla sicurezza nelle camere iperbariche e sul rischio di incendio

Sulla sicurezza nelle camere iperbariche e sul rischio di incendio
Rolando Dubini

Autore: Rolando Dubini

Categoria: Sentenze commentate

27/11/2019

Le norme di sicurezza nelle camere iperbariche e la valutazione del rischio di incendio con riferimento alla sentenza della Cassazione n. 36612 del 29 agosto 2019 e al grave incidente avvenuto nel 1997 all’Istituto Galeazzi.

 

Pubblichiamo un ricco contributo dell’avvocato Rolando Dubini che permette di fornire informazioni sia sul tema dei rischi e della sicurezza con le camere iperbariche, sia sulle tante sentenze, una recente e alcune correlate ad un grave incidente avvenuto nel 1997 a Milano, che in questi anni hanno affrontato il delicato tema delle responsabilità.

 

1. La sentenza della Cassazione Penale, Sez. 3, 29 agosto 2019, n. 36612

2. La tragedia della camera iperbarica dell'Istituto Galeazzi proprietà Ligresti

2.1 La tragedia del 31 ottobre 1997

2.2. Compiti e alle responsabilità in materia di sicurezza della terapia iperbarica

2.3 Mancata individuazione di compiti e responsabilità

2.4. Le Linee Guida della Regione Lombardia

2.5. Art. 2087 del Codice Civile e obbligo di applicare la miglior sicurezza tecnologicamente fattibile desumibile da circolari ministeriali, norme tecniche e simili.

2.6 Inadeguata valutazione dei rischi e responsabili

2.7 L’individuazione del datore di lavoro

2.8. La valutazione dei rischi come obbligo non delegabile del datore di lavoro

2.9. La posizione di garanzia del responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione

 

1. La sentenza della Cassazione Penale, Sez. 3, 29 agosto 2019, n. 36612

La sentenza in esame richiama con forza, a distanza di anni, principi fondamentali di sicurezza nell’esercizio delle attività sanitarie che prevedono l’impiego di camere iperbariche, fissati per la prima volta nei procedimenti legati alla tragedia della camera iperbarica dell’Istituto Galeazzi di molti anni or sono.

 

Il giorno 31 ottobre 1997, in Milano, si verificava un grave incidente all’interno della struttura sanitaria privata denominata Istituto Ortopedico “Galeazzi”. Mentre alcuni pazienti, insieme ad un infermiere, si trovavano all’interno della camera iperbarica per essere sottoposti al trattamento di ossigenoterapia iperbarica, si sviluppava un incendio che causava la morte di 11 persone.

 

Va preliminarmente riprodotto, a tal riguardo, il testo dell’art. 181 del D.Lgs. n. 81/2008:

 

Articolo 181 - Valutazione dei rischi - 1. Nell'ambito della valutazione di cui all'articolo 28, il datore di lavoro valuta tutti i rischi derivanti da esposizione ad agenti fisici in modo da identificare e adottare le opportune misure di prevenzione e protezione con particolare riferimento alle norme di buona tecnica ed alle buone prassi.

 

Con la presente sentenza la Cassazione ha ribadito gli obblighi fondamentali in materia di gestione delle camere iperbariche, in particolare per quel che riguarda l’obbligo di valutazione del rischio d’incendio:

 

Il quadro normativo relativo alla gestione della sicurezza nelle strutture sanitarie, in particolare in quelle che gestiscono la terapia con le camere iperbariche, è composto principalmente dal Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro ("TUSL" - d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81) e dalle modifiche ad esso apportate dal d.lgs. n. 3 agosto 2009, n. 106, nonché dalla normativa di recepimento delle direttive europee in materia di dispositivi medici ed attrezzature a pressione (rispettivamente direttiva n. 93/42/CEE recepita con D.lgs. 46/1997 e direttiva n. 97/23/CErecepita con D. lgs. 93/2000: la finalità della disciplina europea è l'uniformazione dei criteri di valutazione del rischio nella progettazione e realizzazione delle apparecchiature mediche). Inoltre, nel giugno 2010 le procedure relative alle apparecchiature iperbariche, le tecniche di utilizzo, la formazione e la qualificazione del personale esposto all'iperbarismo sono state accreditate presso l'UNI (ente di unificazione normativa italiano) divenendo Norma UNI 11366. Tale norma è richiamata anche dal d.l. 24 gennaio 2012, art. 16, il quale prevede che le attività "di cui all'articolo 53 del decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1979, n. 886, sono svolte secondo le norme vigenti, le regole di buona tecnica di cui alla norma UNI 11366". Il riferimento conferisce dunque alla norma un valore cogente.



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In materia di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro, avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha l'obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'Interno dell'azienda e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 del D.Lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori (in tal senso, SSUU, n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261109, nella fattispecie la Corte ha confermato il giudizio di colpevolezza dell'amministratore delegato, dei dirigenti aziendali e del responsabile del servizio di prevenzione e protezione per la morte di alcuni dipendenti provocata dalla mancata adozione di efficaci misure antincendio sottovalutate nel documento di valutazione dei rischi)”.

Il documento di valutazione dei rischi deve analizzare “lo specifico rischio di incendio, assai elevato nell'attività di terapia in camera iperbarica, come richiesto alla luce della normativa di settore e dei contenuti delle specifiche Linee Guida della Regione Lombardia, diramate a seguito del tragico incidente della Camera iperbarica dell'Ospedale Galeazzi”.

 

2. La tragedia della camera iperbarica dell'Istituto Galeazzi proprietà Ligresti

 

2.1 La tragedia del 31 ottobre 1997

L’infermiere Max Felline accompagna i pazienti e ripete per l'ennesima volta le prescrizioni: vietato portare oggetti metallici, accendini, apparecchiature elettriche. Non indossare indumenti acrilici. Togliere le scarpe e indossare le ciabatte di tela.

Una signora entra nella camera iperbarica dove deve essere sottoposta a un trattamento e porta con sé uno scaldamani ad alcol di quelli a fiamma. Da quello scaldamani parte l'incendio che uccide, dopo una lenta agonia, tutte le persone che erano dentro.

 

Il tecnico che sorveglia i monitor si chiama Andrea Bini: sullo schermo a colori il grandangolo della telecamera interna rimanda l'immagine di quelli che "stanno andando giù". Si usa un linguaggio da sommergibilisti, qui al reparto camere iperbariche. E pare l'equipaggio di un sottomarino, quello che si vede: due file di cinque persone, sedute l'una in faccia al l’altra, e l’infermiere Max sul seggiolino rosso di servizio dietro il portellone. Solo una donna ha già messo la maschera del l’ossigeno, là dentro il tubo di metallo.

 

La discesa è appena cominciata: meno otto metri, 0.8 atmosfere. Sono le 11,10 quando una fiammata esplode rossa sullo schermo. Il video si annerisce. Scatta l'allarme. C'è silenzio, perché le grida disperate delle undici persone là dentro non possono trapassare le pareti d' acciaio. La fiammata dura pochi secondi. Ci vuole un minuto e mezzo per riportare la pressione a zero, e aprire il portellone.

 

Dentro sono tutti morti: bruciati, l’aria risucchiata dai polmoni, accatastati come pupazzi. Quando Andrea Bini e il primario Giorgio Oriani aprono il portellone, una nuvola nera puzzolente invade lo stanzone e ristagna nel corridoio. "Lei non può immaginare, non può immaginare" ripeterà il professore. Una tragedia istantanea, silenziosa, confinata oltre l’acciaio di quel sommergibile. Una strage inspiegabile, ancora a tarda sera quando gli esperti indagano da ore, quando i resti delle undici vittime sono già al l’obitorio.

Ma quello scaldamani - hanno sempre sostenuto i giudici - era solamente la parte terminale di una catena lunghissima di omissioni e leggerezze. 

 

Quelle del professor Oriani, il responsabile del reparto, che non si curò di far osservare le norme minime di sicurezza da parte dei malati che entravano nella camera; e quelle dei vertici del l’istituto, che avevano lasciato da tempo completamente vuoti i serbatoi che avrebbero dovuto contenere l’acqua necessaria al buon funzionamento del sistema antincendio. 

Fino a quella del tecnico Andrea Bini, che invece di seguire al monitor le varie fasi della terapia si assentò dal posto di lavoro, rendendosi conto con minuti di ritardo della tragedia che si stava compiendo. 

 

E questo è uno dei dettagli più atroci, perché tutte le perizie successive hanno sempre concordato su un punto: quel l’incendio avrebbe potuto essere domato in pochi secondi. 

Il tempo di sviluppo di un incendio all'interno di quel "cilindro", durante un trattamento, e' infatti di dieci secondi: abbastanza per domare il fuoco "con un estintore, con la doccia interna o con l'impianto antincendio a pioggia". Sufficienti anche per evitare che si sprigioni fumo o calore che, al di là della fiamma, hanno anche loro effetti letali. 

"Li ho sentiti bussare con la forza della disperazione dall'interno" ha raccontato uno dei testimoni. Nessuno ha potuto aiutarli: non c'era acqua nell'impianto antincendio e non c'era modo di aprire il portellone pressurizzato.

Da “La Repubblica” dell’1/11/1997

 

Ecco i nomi delle vittime dell'ospedale Galeazzi: Massimiliano Felline, 26 anni, di Cinisello Balsamo (Milano), assistente sanitario. I pazienti: Ercole Alfieri, 74 anni, di Rho (Milano); Franco Basei, 48 anni, di Milano; Gino Bocchi, 76 anni, di Milano; Angelo Nespoli, 69 anni, di Arosio (Como); Agnese Orlandi, 70 anni, di Cologno Monzese (Milano); Maria Pisanò, 77 anni, di Cinisello Balsamo (Milano); Lauro Previato, 46 anni, di Muggiò (Milano); Renzo Spinelli, 71 anni, di Bresso (Milano); Cesarina Turponi, 75 anni, di Rho (Milano); Augusta Villa, 77 anni, di Villasanta (Milano).  

 

2.2. Compiti e alle responsabilità in materia di sicurezza della terapia iperbarica

La vicenda citata ha fornito l’occasione di approfondire molteplici aspetti legati ai compiti e alle responsabilità in materia di sicurezza della terapia iperbarica dei diversi soggetti coinvolti in relazione alle loro posizioni di garanti della sicurezza nello svolgimento di un’attività che presenta indubbi profili di rischio non solo pe ri lavoratori ma anche per la popolazione esterna che si avvale di tali trattamenti sanitari.

 

All'esito delle indagini preliminari veniva esercitata l'azione penale, per i reati di incendio colposo e omicidio colposo plurimo, nei confronti di:

 

1) Antonino Ligresti, presidente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato della s.p.a. ISTITUTO ORTOPEDICO GALEAZZI, proprietaria della clinica dove si trovava installata la camera iperbarica;

2) Silvano Ubbiali, amministratore delegato della medesima società;

3) Ezio Zambrelli, direttore sanitario dell'istituto (l’unico poi assolto da ogni addebito in quanto estraneo ai fatti contestati);

4) Giorgio Oriani, primario del reparto di ossigenoterapia iperbarica;

5) Andrea Bini, tecnico addetto al quadro comandi durante il trattamento nel corso del quale si era verificato l'incidente;

6) Roberto Beretta, capo dell'ufficio tecnico dell'istituto Galeazzi;

7) Raffaele Bracchi, responsabile (esterno) del servizio di prevenzione e protezione dell'istituto.

 

Disposto il rinvio a giudizio di tutti gli imputati davanti al Tribunale di Milano per l'udienza del 24 giugno 1998 ed escluse alcune parti civili (altre avevano revocato la costituzione) si costituivano in giudizio, quali responsabili civili, la s.p.a. ISTITUTO ORTOPEDICO GALEAZZI e la s.r.l. CLINICA SERVICE (quest'ultima in riferimento alla posizione dell'imputato Bracchi). Dopo varie udienze di istruzione dibattimentale, all'udienza del 9 giugno 1999 gli imputati Beretta, Zambrelli e Bini, avvalendosi del disposto di cui all'art. 223 D. Lgs. n. 51 del 1998, formulavano richiesta di applicazione della pena e, avendo il Pubblico Ministero, espresso il consenso, veniva disposta la separazione del processo nei confronti delle persone indicate per consentire ad altro collegio di pronunziarsi.

 

La perizia ha stabilito quanto segue. “Un minuto esatto di sopravvivenza”: tanti ne hanno avuti le 11 persone arse vive la mattina del 31 ottobre ’97 nella camera iperbarica dell’Istituto Iperbarico “Galeazzi” di Milano. Fra le vittime anche il pensionato comasco Lino Nespoli di Arosio. Lo ha stabilito la perizia d’Ufficio depositata il 24 ottobre 2001 alla 9a Sezione Penale del Tribunale di Milano dove si è svolto il processo con rito abbreviato nei confronti di tre degli imputati per quella strage: l'ex Direttore Sanitario Ezio Zambrelli, l'ex capo della manutenzione Roberto Beretta e l'ex responsabile della protezione esterna Raffaele Bracchi. 60 secondi di terrore ma a disposizione solo di coloro che erano più distanti dalla donna che con se aveva lo scaldamani da cui si è originata la scintilla causa del tremendo rogo. “Un minuto – scrivono i quattro periti nominati dal Tribunale – che sarebbe stato sufficiente alle persone intrappolati per attivare l’impianto antincendio che avrebbe significativamente dilatato i tempi di sopravvivenza rimovendo calore e spegnendo almeno parzialmente l'incendio: ma questo sarebbe stato possibile se nel serbatoio dell’impianto antincendio ci fosse stata acqua al posto delle ragnatele”. Una conclusione agghiacciante quella dei quattro esperti che aggiungono: “L’intervento tempestivo dell'’impianto antincendio avrebbe certamente influito sulla durata e intensità dell’incendio in questione e conseguentemente almeno alcuni degli occupanti della camera iperbarica avrebbero potuto essere salvati”. Fra questi alcuni proprio Lino Nespoli che si trovava fra il gruppetto di vittime più distanti da quella donna e dal suo scaldino elettrico che non avrebbe dovuto essere portato dentro la camera iperbarica. Una perizia che, aggiunta alle precedenti, non fa altro che delineare le responsabilità degli imputati andando a confortare le conclusioni della Pubblica Accusa che nelle motivazioni di richiesta di rinvio a giudizio scrisse: “L’impianto antincendio non era funzionante in quanto il serbatoio che avrebbe dovuto contenere l’acqua era vuoto, la bombola di aria compressa propellente aveva il rubinetto chiuso e la valvola del tubo di mandata dell’acqua era chiusa... La doccetta a mano interna alla camera iperbarica, prevista in fase di progetto, non era stata installata”. E come se tutto questo non bastasse va aggiunto che almeno cinque delle 11 vittime avevano caschi “impropriamente modificati che hanno consentito la fuoriuscita di ossigeno dal collare in lattice e l’accumulo del gas negli abiti”... facendo di loro delle bombole infiammabili. Lino Nespoli quella mattina, accompagnato da una sorella, si era recato all’istituto iperbarico per sottoporsi ad alcune terapie legate ad una malattia che già gli aveva fatto perdere l’uso parziale di una gamba.

 

La decisione di disporre la perizia era stata assunta il 13 ottobre 2000 proprio dai Giudici della Nona Sezione Penale del Tribunale di Milano accogliendo le richieste di rito abbreviato sollecitate da alcuni dei 7 imputati rimasti ancora sulla scena giudiziaria. In particolare per uno di loro (Roberto Beretta ex responsabile della manutenzione della camera iperbarica) l’accoglimento della richiesta di rito alternativo è legata agli esiti dei nuovi accertamenti tecnici. Per loro il P.M. Francesco Prete contestava i reati di incendio e omicidio plurimo colposi e omissione delle norme di sicurezza.

 

Il 13 ottobre 2000, invece, erano stati condannati in Primo Grado il Primario del reparto di Ossigenoterapia Giorgio Oriani (5 anni e mezzo), il Consigliere Delegato per la Sicurezza Silvano Ubbiali (quattro anni e mezzo), il tecnico Andrea Bini (4 anni) e l’allora Presidente del “Galeazzi” Antonino Ligresti che si vide infliggere 3 anni e 6 mesi di reclusione. Il processo si svolse con l’ausilio delle consulenze presentate dalla Procura e dai periti delle famiglie colpite dalla tragedia ma non di quelle della difesa, perizia sollecitata, in particolare, dal difensore di Beretta, l’avvocato Roberto Iannacone. I famigliari del pensionato di Arosio a suo tempo avevano rifiutato ogni tipo di risarcimento dei danni.

 

2.3 Mancata individuazione di compiti e responsabilità

L'insufficiente considerazione degli obblighi di prevenzione e protezione previsti dalla legislazione vigente ha dato luogo, come visto, a pesanti condanne dei vertici aziendali dell'Istituto ortopedico Galeazzi di Milano (proprietà Ligresti), incriminati e condannati in primo grado, e infine confermate dopo un lungo iter giudiziario dalla sentenza finale della Cassazione del 2005, in relazione al rogo della camera iperbarica nel quale sono periti, come detto, dieci pazienti e un infermiere.

 

Il presidente del consiglio di amministrazione è stato individuato quale datore di lavoro ai sensi della normativa antinfortunistica, attesa la mancanza di una individuazione alternativa, piena, esclusiva e formale facente capo ad altri soggetti facenti parte degli organi sociali ad occuparsi, con i più ampi poteri e la necessaria e sufficiente autonomia finanziaria, delle problematiche relative alla sicurezza nella gestione degli impianti di terapia iperbarica.

 

Posta questa posizione di garanzia, il giudizio penale ha addebitato a questo soggetto l’evento catastrofico dovuto a colpa derivante da negligenza, imprudenza, imperizia e violazioni plurime delle norme di sicurezza, che hanno reso possibile il letale incendio sviluppatosi all'interno di una camera iperbarica.

Ad altro soggetto, al consigliere delegato, è stata attribuita la qualità non di datore di lavoro esclusivo, ma di “secondo” datore di lavoro che si affiancava al “primo” datore di lavoro in materia di tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, e dunque con l’addebito di aver cooperato colposamente con il Presidente a cagionare il catastrofico incendio.

Le responsabilità sono state desunte dai verbali del consiglio d'amministrazione, che erano assolutamente carenti da un punto di vista giuridico per quanto attiene una razionale ripartizione dei compiti antifortunistici, e poco lungimiranti rispetto alle possibili conseguenze penali, come poi accaduto, che possono derivare da un approccio alla materia superficialità e generico.

 

Nel caso specifico il verbale del consiglio di amministrazione attribuiva al proprio presidente 'tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione nessuno escluso ed eccettuato', mentre al consigliere delegato dell'Istituto venivano attribuiti i poteri per la gestione ordinaria della società'. Questa sovrapposizione generale di ruoli e di poteri ha determinato una cooperazione colposa nella produzione dell'evento illecito e dannoso.

Quantomeno in materia di sicurezza sul lavoro era possibile attribuire in esclusiva pieni poteri al solo consigliere delegato, ma questo non fu fatto.

In questo caso abbiamo una plastica dimostrazione di quanto una poco meditata gestione delle deleghe possa essere dannosa per l'azienda medesima, che non si è posta nella condizione di individuare un unico soggetto univocamente responsabilizzato in materia di sicurezza del lavoro.

 

Il Tribunale di Milano (11 marzo 2000, ma si veda anche l’altro filone con sentenza del 27.9.2002) ritiene che, dopo l'esame delle deleghe, e valutando i poteri attribuiti ai due soggetti di cui trattasi, si deve concludere che il presidente è 'il datore di lavoro secondo la definizione che ne fornisce l'art. 2 lett. B) D. Lgs. n. 626/94 [oggi art. 2 c. 1 lett. b) D.Lgs. n. 81/2008] ha accentrato su di sé la responsabilità dell'impresa', mentre 'la delega rilasciata dal consiglio di amministrazione al consigliere delegato pur limitata all'ordinaria amministrazione e però riferita all'azienda nella sua globalità e non a una singola, distinta e autonoma unità produttiva, si è risolta nella creazione di un ulteriore datore di lavoro'. Difatti la sicurezza sul lavoro rientra nei compiti di ordinaria amministrazione.

 

Perciò 'ai fini della sicurezza l'Istituto Ortopedico Galeazzi spa aveva per scelta dell'ente amministrativo due datori di lavoro i quali per volontà di legge erano obbligati solidarmente a realizzare il risultato di prevenzione nei termini riferibili al datore di lavoro'.

Infatti 'il consiglio di amministrazione non ha distinto le competenze e non ha investito espressamente il consigliere delegato della sicurezza dell'impresa, li ha posti sullo stesso piano e siccome per il principio dell'effettività ciascuno risponde non tanto di ciò che ha inteso fare ma di ciò che era in grado di fare in relazione ai poteri e ai mezzi di cui era dotato, ciascuno dei due è rimasto a tutti gli effetti datore di lavoro e come tale tenuto ad occuparsi di sicurezza senza poter fare 'affidamento' sulla condotta del coobbligato, se non nel senso di avvenuto compimento da parte di questi della condotta doverosa della quale non si richiede la duplicazione: ma allora, visto che la situazione concreta può rilevare qualora sia esaustiva e non incompleta, siccome l'ossigenoterapia iperbarica era praticata in condizioni di rischio, chi ha omesso del tutto di agire nulla ha di cui giovarsi non potendo invocare a proprio favore l'inerzia e la colpa altrui' (pag. 32 sentenza del 13 ottobre 1999, depositata l'11 marzo 2000, Tribunale Ordinario di Milano, IV sezione penale).

Nel giudizio d'Appello il Presidente del Consiglio d'amministrazione era stato poi assolto, ma successivamente la Suprema Corte ha annullato la sentenza di assoluzione e la Corte d’appello ha confermato in via divenuta definitiva la penale responsabilità del Presidente del CdA.

 

E’ utile in tale contesto riportare quanto disposto dalla deliberazione della giunta regionale del Veneto n° 1885 del 26 maggio 1998 [recante l'approvazione di linee guida per la prevenzione dei rischi nella ossigenoterapia iperbarica (l.r. 3/02/1996 n. 5)] che dispone quanto segue.

 

ASSETTI SOCIETARI, ORGANIGRAMMI ED APPLICAZIONE DELLE NORME DI TUTELA

I Centri Iperbarici veneti sono tutti privati, a volte hanno assetti societari di impresa classica e a volte sono costituiti in Associazioni non a fini di lucro.

Sia le Società che le Associazioni utilizzano parecchio personale a rapporto libero professionale. Sia i liberi professionisti che i soci delle Associazioni non sono lavoratori dipendenti ma, ai fini della legislazione sulla tutela della salute dei lavoratori, sono di fatto equiparabili ai lavoratori subordinati (art 3 DPR 547/55, art 2 Dlgv 626/94 [ora art. 2 c. 1 lett. a D.Lgs. n. 81/2008) in quanto

  • Sono inquadrati in un'organizzazione gerarchica e tecnica d'impresa. La subordinazione è legata anche alla complessità tecnologica del tipo di impianto che non permette per nessun operatore una attività gestita autonomamente al di fuori di un quadro organizzativo prestabilito e quindi di subordinazione.
  • Esiste assetto organizzativo minimo, imposto per legge regionale dal DGR 852/96, che comprende Un direttore sanitario specialista con un adeguato numero di altri specialisti in grado di assicurare la presenza nel Centro nell'orario di effettuazione delle terapie e la reperibilità 24 ore su 24. Un adeguato numero di medici in grado di assicurare l'assistenza durante i trattamenti dentro la camera. Almeno 3 tecnici iperbarici presenti durante l'orario di trattamento. Uno di questi dovrebbe avere la funzione di coordinatore (preposto) degli altri due.
  • I lavoratori a rapporto libero professionale ricevono un salario che rinforza il rapporto di subordinazione organizzativo.
  • I lavoratori a rapporto libero professionale sono esposti a rischi per la salute durante la loro attività lavorativa.
  • Il datore di lavoro di fatto delega a loro aspetti di responsabilità della salute e della vita dei Pazienti.

In definitiva gli Enti gestori delle camere iperbariche, anche se costituiti in Associazioni, sono soggetti a tutta la legislazione sull'Igiene e la Sicurezza del lavoro anche se non hanno un formale assetto societario d'impresa e lo stesso dicasi per le imprese che utilizzano lavoratori a rapporto libero professionale.

 

In particolare vale la pena ricordare le implicazioni dell'applicazione della nuova legislazione (D. Lgs. n- 626 [Ora D.Lgs. n. 81/2008]) secondo la quale il datore di lavoro è chiamato a compiere tutte le azioni possibili per ridurre i rischi applicando anche le norme non cogenti, a farsi certificare da costruttori, installatori ed impiantisti le macchine ed impianti e ad autocertificare la sicurezza di tutto il sistema aziendale che non si regge solo sulle scelte tecniche ma anche su quelle organizzative, procedurali, sulla formazione/informazione e sulla sorveglianza sanitaria.

 

2.4. Le Linee Guida della Regione Lombardia

Con D.G.R. 27 febbraio 1998, n. 6/34873 la Regione Lombardia ha proceduto alla “Approvazione delle linee guida per la gestione delle camere iperbariche collocate in ambienti sanitari pubblici e privati”.

(B.U. 6 aprile 1998, n. 14.).

 

Ai sensi di queste Linee Guida i pazienti che si sottopongono all'ossigenoterapia in Lombardia, prima di entrare nella camera iperbarica devono spogliarsi dei propri abiti e indossare un apposito camice ignifugo e calzature isolanti. Inoltre devono seguire un breve corso di preparazione.

 

Sono alcune delle indicazioni contenute nelle linee guida per la gestione delle camere iperbariche elaborate dal gruppo di esperti, nominati dalla Giunta regionale all'indomani della tragedia, avvenuta il 31 ottobre 1997, all'Ospedale Galeazzi. all’epoca del gruppo Ligresti di Milano. La Giunta ha deciso di adottare subito queste linee guida, in attesa che il ministero della Sanità emani le direttive valide per tutto il territorio nazionale, come poi avvenuto.

 

La delibera individua le patologie che potranno essere trattate con l'ossigenoterapia: embolia gassosa arteriosa, malattia da decompressione, intossicazione da CO, gangrena gassosa, gangrena umida delle estremità in diabetici, infezione da flora batterica, sindrome da schiacciamento, radionecrosi tissutale, sordità improvvisa, osteomielite, trapianti o lesioni chirurgiche a rischio, insufficienze vascolari, fratture a rischio di scarso consolidamento, patologie retiniche.

 

Ogni centro attrezzato per la terapia a base di ossigeno deve disporre di almeno due camere iperbariche, utilizzabili contemporaneamente. Esso dovrà infatti avere una ''pronta disponibilità di medici e di tecnici per attivare immediatamente il servizio nel caso debba ricevere pazienti urgenti''.

 

Per quanto riguarda i requisiti strutturali che i centri di medicina iperbarica dovranno avere, la delibera stabilisce dove e come dovrà essere collocata la camera iperbarica, quali dovranno essere le protezioni antincendio e come dovranno essere realizzati i circuiti elettrici. Indica inoltre quali procedure fare sugli impianti prima e durante il loro impiego e come affrontare le situazioni d'emergenza

 

In merito al personale, la direttiva stabilisce che, per ogni camera in funzione ci dovrà essere, oltre al personale infermieristico necessario, anche un tecnico iperbarico e un medico esperto in medicina iperbarica, specialista in anestesia e rianimazione, che dovrà trovarsi all'interno della camera durante il ciclo di cura.

 

La Regione Lombardia, in base a tale delibera, ha promosso appositi corsi di formazione, sia per gli infermieri sia per i tecnici iperbarici (corsi teorici di 300 o 500 ore e tirocini pratici di sei mesi). Il personale che lavora in questo campo da almeno di cinque anni invece sostenere poteva sostenere subito un esame pratico per accertare la competenza in materia. Le strutture pubbliche e private che già esercitavano la terapia iperbarica avevano 90 giorni di tempo per uniformarsi a queste direttive, che sono state da subito immediatamente obbligatorie per le strutture che allestiranno nuovi centri.

 

Altre Linee Guida di riferimento:

  • Ministero della Sanità con D.P.R. 14.1.97 n. 37 Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni contenente i requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi di cui devono essere dotate le strutture pubbliche e private per l’apertura e l’esercizio di attività sanitarie
  • Ministero della Sanità 7.8.1998 nota prot. D.P.S. VI/4.6/655 Linee Guida Tecniche per la gestione in sicurezza di camere iperbariche multiposto in ambiente clinico ed in strutture sanitarie con esclusione delle camere iperbariche monoposto e di quelle trasportabili
  • Linee Guida ISPESL 1998, Linee Guida Simsi, Siaarti, Ancip del marzo 2007, Linee Guida ECHM dic 2004,
  • Regione Sardegna DGR n. 41/29 del 29/07/2008, allegato D. I requisiti costruttivi della Camera Iperbarica e i dispositivi tecnologici
  • REGIONE CAMPANIA - Giunta Regionale - Seduta del 1 febbraio 2000 - Delibera n. 313 - Area Generale di Coordinamento Assistenza Sanitaria - Settore: Assistenza Sanitaria - Disciplina autorizzazione all’apertura e funzionamento di centri di ossigenoterapia iperbarica.
  • Norme UNI EN 14931, norma CE 97/23, D.lgs 24/2/1997 n. 46.
  • REGIONE PIEMONTE BU12 22/03/2012 Deliberazione della Giunta Regionale 19 marzo 2012, n. 55-3565 Requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi dei Centri di Terapia Iperbarica. Individuazione requisiti autorizzativi e di accreditamento ad integrazione della D.C.R. 616/2000 e s.m.i.
  • UNI 11366: 2010 - Sicurezza e tutela della salute nelle attività subacquee ed iperbariche professionali al servizio dell’industria – Procedure operative, Ente Nazionale Italiano di Unificazione, Milano, 2010.

 

Questa norma UNI definisce i criteri e le modalità per l’esecuzione di attività subacquee ed iperbariche professionali al servizio dell’industria, le caratteristiche delle attrezzature e degli equipaggiamenti utilizzati ed i requisiti di natura professionale che deve possedere il personale coinvolto, tali da garantire la sicurezza e la tutela della salute dei medesimi lavoratori durante l’espletamento delle attività. La suddetta Norma viene richiamata nel Decreto Legga 24 Gennaio 2012, un riferimento che le conferisce dunque un valore cogente.

 

2.5. Art. 2087 del Codice Civile e obbligo di applicare la miglior sicurezza tecnologicamente fattibile desumibile da circolari ministeriali, norme tecniche e simili.

 

2.5.1. L’obbligo del datore di lavoro

Nel caso in cui particolari cautele antinfortunistiche siano prescritte da una circolare ministeriale, l'omessa attuazione di tali misure integra gli estremi dell'imprudenza per la inosservanza di indicazioni legittimamente suggerite, riferite a norme di esperienza e di conoscenza tecnica, che assume rilevanza di colpa penale (Cass. Sez. IV Pen,, 24 gennaio 1990, n. 906, Libero, in motivazione) In effetti l'art. 2087 del codice civile, nell'individuare l'obbligo della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, non attribuisce ad alcuna fonte l'esclusività: ben può una circolare [ma anche una linea guida di una autorità amministrativa, gli indirizzi del coordinamento tecnico delle regioni e provincie autonome, le indicazioni operative degli organi di vigilanza, ad esempio dell'Asl territorialmente competente, ecc.] avente contenuto tecnico, individuare la frontiera più avanzata ai fini della sicurezza del lavoro, sia essa relativa all'antincendio, come pure ad altre materie prevenzionistiche. Lo stesso vale per linee guida od orientamenti del coordinamento tecnico delle regioni e provincie autonome, dell'oramai soppresso Ispesl, dell'Asl territorialmente competente ecc. O una linea guida regionale, oppure un interpello ecc.

 

Occorre notare che “le norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie sul lavoro [incluso il D.Lgs. n. 81/2008] costituiscono un’applicazione specifica del più ampio principio contenuto nell’art. 2087 cod. civ., rispetto al quale la mancata violazione di quelle norme non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell’imprenditore. L’art. 2087 cod. civ., si atteggia anche come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, nel senso che, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, la disposizione suddetta impone al datore di lavoro di adottare comunque le misure generiche di prudenza, diligenza e la osservanza delle norme tecniche e di esperienza” [Cass. Sez. Lavoro, sent. n. 4721 del 9 maggio 1998, Pres. Lanni, Rel. Genghini].

 

Dunque le norme tecniche hanno un contenuto vincolante e sotto certi profili perfino penalmente obbligatorio per il datore di lavoro in quanto e nella misura in cui rappresentino una estrinsecazione, una esplicitazione tecnica e pratica dell'obbligo della massima sicurezza tecnologicamente fattibile prescritta dall'art.2087 del codice civile.

 

Coerentemente con questa impostazione della Suprema Corte, il Tribunale Ordinario di Milano - sez. IV penale 13/10/1999 (c.d. Sentenza Galeazzi) ha statuito sull'obbligo di rispettare le norme tecniche più avanzate, incluse anche quelle straniere eventualmente necessarie al fine di prevenire danni a persone e cose : “XI.2(...) la particolarità della fattispecie de qua che ha visto mancare la valutazione del rischio non perché il datore di lavoro Ligresti e il suo esperto Bracchi non sapevano come orientarsi in difetto di linee guida emanate dal Parlamento ovvero da enti delegati dal potere legislativo, che avrebbero abdicato ai propri compiti istituzionali tralasciando di prestare attenzione e di dare attuazione a principi costituzionali a tutela della sicurezza del lavoro, ma più semplicemente perché il primo non lo riteneva un suo compito ed è da pensare non abbia mai incontrato Bracchi che a sua volta non riteneva la camera iperbarica oggetto di valutazione di rischio incendio, ignorando completamente la normativa N.F.P.A. da tutti gli esperti del settore assunta a stato dell'arte, e la relazione 23 novembre 1988 della commissione tecnico-scientifica nominata dalla Regione Lombardia e che tratta anche della sicurezza antincendio”.

 

2.6 Inadeguata valutazione dei rischi e responsabili

La prima sentenza in Cassazione del caso Galeazzi, quella del 2004, enuncia alcuni punti fermi di diritto:

 

La non delegabilità di funzioni non significa che il datore di lavoro non possa servirsi di persone maggiormente competenti e qualificate per la valutazione del rischio e la redazione del documento di valutazione del rischio. Significa solo che questi compiti rimangono suoi e il documento conserva questa provenienza. Il datore di lavoro ha un obbligo preciso di informarsi preventivamente sui rischi presenti nell'azienda ai fini della loro valutazione e di verificare successivamente se il documento redatto affronti adeguatamente i temi della prevenzione e della protezione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali tenendo conto delle informazioni acquisite sull'esistenza dei rischi. Solo se abbia curato lo svolgimento da parte sua di questi compiti potrà anche rimettersi, per l'accertamento e l'adozione delle scelte tecniche idonee a contrastare i rischi e che abbiano carattere di specializzazione da lui non posseduta, alle conclusioni di un consulente interno od esterno sulle quali non abbia la competenza necessaria per interloquire.

 

Insomma se la non delegabilità ha un senso il datore di lavoro ha l'obbligo di valutare le capacità tecniche di chi redige materialmente il documento, di valutare preventivamente quali siano i rischi ritenuti maggiormente significativi all'interno dell'azienda, di verificare se questi rischi siano stati presi in considerazione nel documento e se siano state prospettate soluzioni idonee a contrastarli. Se a questi obblighi il datore di lavoro abbia adempiuto non potrà essere ritenuto responsabile di una scelta tecnica errata da lui non controllabile (se non con la scelta di altra persona tecnicamente qualificata: ma in questo modo si andrebbe all'infinito). Questo assetto consente di contemperare il principio della non delegabilità con l'esigenza di impedire la violazione del principio della personalità della responsabilità penale creandosi surrettiziamente una responsabilità penale da «posizione» che configurerebbe un caso di responsabilità oggettiva [Cassazione IV penale - n. 4981 del 6.2.2004 c.d. Caso Galeazzi].

 

Con l'emanazione del Decreto Interministeriale 10 marzo 1998 [Criteri generali di sicurezza antincendio e per la gestione dell'emergenza nei luoghi di lavoro], la cui pubblicazione ha avuto una spinta decisiva dalla tragedia in esame, altri utili elementi si sono imposti all’attenzione degli interpreti più attenti. Dal combinato disposto degli articoli 4 comma 2 D.Lgs. n. 626/94 - ora art. 17 c.1 lett. a e 28-29 c. 3 del D.Lgs. n. 81/2008, e 2 commi 2 e 4 del Decreto Interministeriale 10 marzo 1998 e dell’allegato 1 punto 1.5 del Decreto Interministeriale 10 marzo 1998 si desumono gli elementi essenziali da riportare nel documento di valutazione del rischio di incendio. Come annota Guariniello (in Sicurezza antincendio, Inserto ISL, n. 9/1998, p. X) "emerge quindi l’obbligo del datore di lavoro di elaborare un documento contenete quegli elementi", e quindi non viola questo obbligo solo il datore di lavoro che omette di elaborare il documento, ma "anche il datore di lavoro che elabora un documento insufficiente alla stregua dei parametri stabiliti dagli articoli 4 comma 2 D.Lgs. n. 626/94, 2 commi 2 e 4 [- ora art. 17 c.1 lett. a e 28-29 c. 3 del D.Lgs. n. 81/2008] del Decreto Interministeriale 10 marzo 1998 e dell’allegato 1 punto 1.5 del Decreto Interministeriale 10 marzo 1998: ad esempio, un documento che, volutamente o per colpa, non specifichi i criteri adottati per la valutazione dei rischi d’incendio; non individui le misure preventive o protettive attuate; non indichi i nominativi dei lavoratori a particolare rischio d’incendio o dei lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi; non specifichi il livello di rischio di incendio del luogo di lavoro; non segnali la data di effettuazione della valutazione; trascuri determinati rischi di incendio invece presenti in azienda". In conclusione, è penalmente sanzionabile la valutazione dei rischi effettuata in modo non corretto, inadeguato, parziale, incompleto perché non in linea con le prescrizioni normative, insufficiente alla stregua dei parametri stabiliti dalle prescrizioni normative.

 

Queste conclusioni sono state confermate e concretamente applicate da una importante sentenza di merito (c.d. sentenza Galeazzi 2, estensore Bruno Giordano), che, in relazione all'obbligo di valutazione dei rischi di cui all'art. 4 commi 1 e 2 del D.Lgs. 626/94 [ora art. 17 c.1 lett. a e 28-29 c. 3 del D.Lgs. n. 81/2008] e analizzando dettagliatamente il significato dell'obbligo di valutazione dei rischi lavorativi effettivamente presenti, ha statuito quanto segue:

 

“1) Tale obbligo consiste in una “valutazione” cioè nell’attribuzione di un valore, un peso, una misura attraverso un’analisi tecnica, scientifica, organizzativa; pertanto non può considerarsi tale una mera osservazione dei luoghi di lavoro o una generica descrizione delle attività che vi si compiono.

 

2) La valutazione deve avere per oggetto tutti i rischi “per la sicurezza e la salute dei lavoratori” ma l’analisi coinvolge ogni profilo pericoloso anche “per la salute della popolazione” o che possono “deteriorare l’ambiente esterno” (art. 4 comma 5 lett. n) D.Lgs. n. 626/94 -ora - artt. 28 e 18 c. 1 lett. q del D.Lgs. n. 81/2008).

 

3) Particolare - ma non esclusiva - attenzione deve porsi sulla scelta delle attrezzature, delle sostanze, dei preparati chimici impiegati, nonché sulla sistemazione dei luoghi di lavoro.

 

4) Dopo tale valutazione, ai sensi dell’art. 4.2 D.Lgs. (ora art. 18 c.2 lett. a-b-c del D.Lgs. n. 81/2008) il datore di lavoro deve redigere un documento con un triplice contenuto che spesso nella pratica è stato fuso e confuso:

  1. uno scritto sulla valutazione dei rischi e sui criteri specifici adottati a conferma di quanto enunciato sub n. 1;
  2. le conseguenti misure (preventive e protettive) da individuare in correlazione ai rischi già valutati;
  3. infine il documento deve contenere una programmazione di tutte le misure “opportune” per il “miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza”. Si tratta evidentemente di un terzo profilo del documento che non deve contenere le misure adottate perché obbligatorie ma quelle funzionali per avanzare la soglia di sicurezza sempre in relazione ai rischi valutati.

 

Tutto il contenuto del documento, quindi, ha tre profili che corrispondono a tre momenti fondamentali della determinazione del rischio, della prevenzione e protezione dallo stesso e della pianificazione migliorativa ai quali devono guardare necessariamente tutti gli altri soggetti coinvolti a diverso titolo nella gestione della sicurezza.

Tali profili attengono ad obblighi di risultato che devono avere una sostanziale esecuzione da parte del datore di lavoro. Pertanto costituisce violazione dell’art. 4.2 D.Lgs. 626/94 (ora art. 18 c.2 lett. a-b-c del D.Lgs. n. 81/2008) non soltanto l’omissione ma anche l’adempimento in senso puramente formale di tali obblighi.

 

Sia l’omessa sia la formale valutazione del rischio (con mera trascrizione di un rischio determinato astrattamente e genericamente sul relativo documento) creano una fondamentale e grave lacuna che provoca una ricaduta in tutta la gestione della sicurezza laddove nessun altro soggetto può effettivamente ed efficacemente governare il proprio ambito di competenze se non v’è alla base un vero documento del rischio. Per tali motivi l’adempimento astratto, formale, o generico dell’obbligo de quo può risultare - come nel caso in esame - addirittura ingannevole per i dirigenti, preposti, lavoratori, operatori esterni, rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza etc. che ripongono un irrealistico affidamento sull’inesistenza o genericità di un rischio che invece è ben presente. Ogni scelta operativa si fonda su un dato errato con effetti omissivi, distorti o inefficienti, a catena che comportano la corresponsabilità del datore di lavoro e degli altri soggetti che istituzionalmente devono cooperare alla redazione del documento di valutazione del rischio [Tribunale di Milano sez. 9° penale, 27.9.02, imp. Bracchi e altri, presidente Gatto a.m., est. Giordano].

 

La Cassazione riprende e fa propri con la sentenza n° 29229 del 16 aprile 2005 questi criteri del Tribunale di Milano prima e dalla Corte d'Appello di Milano poi, affermando testualmente:

 

“La sentenza impugnata della Corte di Appello di Milano, pronunciata in sede di rinvio in data 24.09.2004, appare immune da vizi di legittimità e corretta nella motivazione.

Con il primo motivo si censura la sentenza impugnata per avere addebitato la colpa al L. nella omessa valutazione del rischio.

 

La censura è infondata. Non bisogna confondere la valutazione del rischio dallo specifico documento che lo formalizza.

 

In verità si ricava che il "documento" di valutazione del rischio fu formalmente redatto dall'Ing. Bracchi persona del tutto inadeguata professionalmente e che esso era macroscopicamente inconsistente proprio per la mancata previsione dello specifico e più grave rischio delle camere iperbariche (cioè l'incendio)”.

 

La responsabilità per la mancata previsione del rischio (concetto ben distinto dal documento) e l'omessa adozione delle misure tecniche preventive è stata ritenuta gravare su entrambi gli imputati (Ligresti e Ubbiali quali datori di lavoro) dalla sentenza di condanna di primo grado: in questo contesto la intestazione e sottoscrizione del documento del rischio è da ritenere assorbita dalla ritenuta responsabilità di entrambi gli imputati perché - a prescindere dal documento del tutto inconsistente - il rischio come tale non fu valutato e preso in considerazione”.

 

6. In tema di prevenzione infortuni sul lavoro, “integra la violazione prevista del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 4, comma 2 [ora artt. 17 e 28 D.Lgs. n. 81/2008, (obbligo per il datore di lavoro di elaborare un documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro) non soltanto l'omessa redazione del documento di valutazione, ma anche il suo mancato, insufficiente o inadeguato aggiornamento od adeguamento e l'omessa valutazione dell'individuazione degli specifici pericoli cui i lavoratori erano sottoposti in relazione alle diverse mansioni svolte e la specificazione delle misure di prevenzione da adottarsi” (Cass. 34063/2007).

 

7. Questo costante orientamento della giurisprudenza di legittimità trova espressione anche in Cassazione penale, sez. IV, sentenza 16.03.2010 n. 10448 ove si ribadisce che in materia antinfortunistica c’è colpa del datore di lavoro non solo per l’omessa redazione del DVR (documento valutazione rischi) ma anche per il suo mancato, insufficiente o inadeguato aggiornamento oppure per l’omessa valutazione della individuazione degli specifici pericoli a cui i prestatori di lavoro siano sottoposti in relazione alle diverse mansioni.

 

2.7 L’individuazione del datore di lavoro

La Suprema Corte, nella c.d. sentenza Galeazzi 2004 [ Cass. Pen. Sez. IV - n. 4981 del 6.2.2004 - Res. Ligresti e altri], ha precisato che "nel caso di una società di capitali originariamente il datore di lavoro (in senso civilistico) va individuato nel consiglio di amministrazione o nell'amministratore unico. Ove, con la nomina di uno o più amministratori delegati, si verifichi il trasferimento di funzioni in capo ad essi, non per questo va interamente escluso un perdurante obbligo di controllo della gestione degli amministratori delegati; ciò trova un importante argomento di conferma, sia pure sul piano civilistico (con conseguenze che, peraltro, non possono che riflettersi su quello penalistico comune essendo la matrice e la giustificazione degli obblighi di garanzia), nel testo dell'art. 2392 c. 2 cod. civ. che ribadisce, anche nel caso di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di uno o più amministratori, la solidale responsabilità degli amministratori (di tutti gli amministratori) «se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose. Obblighi attenuati ma ribaditi anche nel nuovo testo dell'ari. 2392 cod. civ. introdotto dal D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6 che ha riformato il diritto societario con entrata in vigore il 1 gennaio 2004”.

 

La sentenza pone in luce un fondamentale principio di ragionevolezza nella individuazione delle responsabilità: “In base ad un criterio di ragionevolezza si preferisce escludere che questo obbligo riguardi anche gli aspetti minuti della gestione, senza porre però in dubbio l'esigibilità di un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione. Si riferisce a tale generale andamento non l'adozione di una singola misura di prevenzione per la tutela della salute di uno o più lavoratori o il mancato intervento in un singolo settore produttivo ma la complessiva gestione aziendale della sicurezza. Dunque con il trasferimento di funzioni (come anche nella delega di funzioni) il contenuto della posizione di garanzia gravante sull'obbligato originario si modifica e si riduce agli indicati obblighi di controllo e intervento sostitutivo: ove l'amministratore non adempia a tali obblighi residuali e, in conseguenza di questa omissione, si verifichi l'evento dannoso si dovrà ravvisare la colpa nell'inosservanza di tali obblighi.

 

In conclusione, in un sistema che si fonda su un assetto che esclude la delegabilità di determinate funzioni in tema di sicurezza, e che comunque prevede un residuo obbligo di controllo da parte di coloro cui originariamente è attribuita la qualità di datore di lavoro, non è ipotizzabile che residui un'area di irresponsabilità in base ad accordi, formali o meno che siano, o addirittura dedurre dall'inerzia un trasferimento di funzioni con efficacia giuridica escludente la responsabilità pervenendo al risultato di esonerare taluno dalla responsabilità penale in base ad un atto di autonomia privata” [Cass. Pen. Sez. IV - n. 4981 del 6.2.2004 - Res. Ligresti e altri].

 

Corte di Appello di Milano con sentenza 12 dicembre 2001 della Corte d'Appello di Milano

La posizione Ligresti. In merito alla posizione del presidente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato la Corte milanese ha condiviso le valutazioni dei primi giudici sull'assunzione, da parte di Ligresti e Ubbiali, della posizione di "datori di lavoro" ai fini della sicurezza secondo le prescrizioni dell'art. 2 lett. b del D. Lgs. 626/1996. Ad entrambi era affidata l'ordinaria amministrazione e la gestione della sicurezza, secondo la Corte, rientra nell'ordinaria amministrazione. La Corte ha però escluso che Ubbiali esercitasse i poteri inerenti alla sicurezza, per quanto riguarda l'istituto Galeazzi, su delega di Ligresti, ritenendo, al contrario che entrambi avessero gli stessi poteri di gestione su questa struttura. Di fatto però le funzioni di datore di lavoro inerenti alla sicurezza sono state, secondo la Corte, sempre esercitate dal solo Ubbiali. La Corte richiama vari documenti dai quali emerge che solo Ubbiali si è sempre occupato dei temi relativi alla sicurezza e afferma essere "verosimile pertanto che vi fosse un accordo tra Ligresti e Ubbiali. affinché solo quest'ultimo si occupasse dei problemi della sicurezza". La sentenza afferma che questa ripartizione dei compiti tra diversi datori di lavoro non contrasta con alcun principio normativo e sottolinea l'inconferenza dei principi affermati dalla giurisprudenza in tema di delega di funzioni perché, in questo caso, nessuna delega poteva ipotizzarsi posto che i datori di lavoro avevano i medesimi poteri-doveri in tema di sicurezza. La Corte ha quindi ritenuto che "l'assunzione dei compiti della sicurezza anche solo in concreto da parte di uno solo dei due datori di lavoro, legittimando le comprensibili aspettative dell'altro, sia idonea ad esonerarlo da tutte le relative responsabilità, a meno che la ripartizione di funzioni tra i due preveda una potestà di controllo o vigilanza sull'adempimento degli obblighi di legge da parte del datore di lavoro che non opera". Sulla base di questi principi la Corte ha quindi escluso la responsabilità di Ligresti avendo ritenuto dimostrato che i compiti della sicurezza, sulla base della ripartizione (non di una delega) dei compiti tra i due imputati, fossero stati attribuiti a Ubbiali; che Ligresti non si era riservato (o quanto meno non era provato che si fosse riservato) di controllare in concreto l'esercizio delle funzioni svolte da Ubbiali in tema di sicurezza. E proprio perché non esisteva questa riserva veniva meno anche l'elemento soggettivo del reato perché "la sua inattività non era dovuta a quel disinteresse o negligenza che realizza le condotte colpose contestategli, ma era da ascrivere alla certezza che agli adempimenti relativi alla sicurezza avrebbe provveduto altro idoneo soggetto." Infatti, a differenza di quanto avviene nella delega di funzioni, secondo la Corte, "essendo i soggetti sullo stesso piano, la vigilanza sull'attività di chi opera in concreto dovesse formare oggetto di specifica riserva o accordo". In conclusione, permanendo peraltro il dubbio che L. si fosse riservato un residuale potere di vigilanza e di intervento sull'operato di U. in materia di sicurezza, la Corte ha assolto l'imputato con la formula perché il fatto non costituisce reato ai sensi dell'art. 530 comma 2 c.p.p..

 

Dunque questa sentenza d’appello assolve Antonino Ligresti perchè il fatto non costituiva reato in base all’articolo 530 del codice di procedura penale, mentre in primo grado era stato condannato a tre anni e mezzo di reclusione. Per Silvano Ubbiali, all’epoca consigliere delegato, pena ridotta da quattro anni a 3 anni e otto mesi. Confermata in secondo grado la condanna del tecnico Andrea Bini a quattro anni. Per Giorgio Oriani, allora direttore del reparto di ossigenoterapia, primario, pena ridotta da cinque anni e mezzo a quattro.

 

Sentenza della Corte Cassazione del 6.2.2004 in causa Ligresti sul drammatico caso della camera iperbarica del Galeazzi di Milano.

Successivamente a dicembre 2003 la Cassazione annulla l’assoluzione di Antonino Ligresti per il rogo della camera iperbarica.

 

La quarta sezione penale ha accolto il ricorso della procura generale presso la corte d’appello di Milano. I supremi giudici hanno annullato la sentenza di condanna limitatamente all’episodio dell’omicidio colposo nei confronti di Maria Pisani anche per il tecnico Andrea Bini e hanno stabilito che i giudici di secondo grado, cui tornerà il caso, dovranno pronunciarsi sulla rideterminazione della pena. Confermate invece le condanne inflitte in appello a Silvano Ubbiali e a Giorgio Oriani, allora direttore del reparto di ossigenoterapia.

La suprema corte ha stabilito: «in accoglimento del ricorso del Pg» si «annulla la sentenza impugnata nei confronti di Antonino Ligresti e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della corte d’appello di Milano riservando al giudice del rinvio la liquidazione delle spese» per questo grado di giudizio. E ancora: viene annullata la sentenza relativamente ad Andrea Bini «limitatamente all’omicidio colposo nei confronti di Pisani Maria per non aver commesso il fatto e rinvia ad altra sezione della corte d’appello di Milano per la conseguente rideterminazione della pena. Rigetta nel resto il ricorso di Bini e rigetta in toto i ricorsi di Ubbiali e Oriani». I supremi giudici hanno anche stabilito che Bini, Ubbiali e Oriani dovranno rifondere le spese alle parti civili, fra cui il ministero della salute e la regione Lombardia.

Nella Sentenza si afferma che la non delegabilità dell’obbligo di valutare i rischi non significa che il datore di lavoro non possa, e anzi non debba, avvalersi dell’aiuto, della collaborazione di esperti.

 

“Ma allora cosa deve fare il datore di lavoro, in concreto, fino a che punto si spinge la sua responsabilità? E quando invece c’è la responsabilità, magari esclusiva, dei suoi collaboratori tecnici? A questo proposito - afferma Guariniello - la Corte di Cassazione precisa che tre sono gli obblighi che il datore di lavoro deve assolutamente assolvere.

 

Il primo è quello di valutare le capacità tecniche di chi redige materialmente il documento. Altrimenti c’è “colpa in eligendo”, nella scelta, per cattiva scelta.

Il secondo obbligo è quello di valutare preventivamente quali siano i rischi ritenuti maggiormente significativi all’interno dell’azienda.

Il terzo obbligo è quello di verificare poi se questi rischi siano stati presi in considerazione nel documento e se siano state prospettate soluzioni idonee a contrastarli.

 

E questo è il punto chiave: se questi obblighi il datore di lavoro ha adempiuto non potrà essere ritenuto responsabile di una scelta tecnica errata da lui non controllabile, se non naturalmente con la scelta di un’altra persona tecnicamente qualificata.

 

Solo se abbia curato lo svolgimento da parte sua di questi tre obblighi potrà anche il datore di lavoro rimettersi, per l’accertamento e l’adozione delle scelte tecniche idonee a contrastare i rischi e che abbia un carattere di specializzazione da lui non posseduto, potrà rimettersi alle conclusioni di un consulente interno o esterno sulle quali non abbia la competenza necessaria per interloquire.

Nel caso della camera iperbarica è conclamata l’assoluta inidoneità del documento di valutazione dei rischi che non prendeva in considerazione il più grave dei rischi di una camera iperbarica, cioè il rischio di incendio.

La Corte di Cassazione allora dice al datore di lavoro: ma come, non ti sei reso conto dell’importanza del rischio significativo nell’ambito di una camera iperbarica? Non puoi dire questa è una individuazione tecnicamente infelice”.

 

Sentenza Galeazzi Corte d’Appello 24 settembre 2004

Condannato, poi assolto, quindi ricondannato: Antonino Ligresti, ex titolare dell’ospedale Galeazzi, è stato giudicato dalla seconda Corte d’Appello meritevole di 3 anni di carcere per il rogo del 31 ottobre 1997, quando 10 pazienti e un infermiere morirono bruciati nella camera iperbarica per l'incendio provocato dallo scaldino introdotto da un paziente a dispetto di divieti e controlli. Tre anni all’addetto alla macchina, assente al momento dell’incidente, Andrea Bini.

 

L’imprenditore, fratello di Salvatore (presidente onorario di Fondiaria-Sai e socio Rcs), dopo aver ceduto nel 2000 il proprio gruppo da 270 miliardi di lire di fatturato e 2 mila dipendenti in 14 cliniche lombarde, nel 2003 è diventato azionista di maggioranza della Générale de Santé, gruppo francese quotato alla Borsa di Parigi e leader in Europa nel settore della sanità privata.

Per Ligresti, imputato di omicidio colposo plurimo e omissione delle norme sulla sicurezza, si tratta del quarto verdetto. In primo grado si era infatti visto infliggere 3 anni e mezzo, salvo poi essere assolto nel primo processo d’appello. Ma la Cassazione aveva poi annullato l'assoluzione, trovandone incongruenti le motivazioni, e ordinato la celebrazione di un nuovo processo d’appello. Quello che ora, presidente Nese, è tornato a giudicare Ligresti responsabile del reato addebitatogli dal procuratore generale Nunzia Gatto, la quale negava che le deleghe al consigliere delegato e ai tecnici dell'ospedale bastassero a escludere un concorso di colpa anche dell'allora titolare del Galeazzi.

 

Il nocciolo della questione è sempre non stata la dinamica del rogo, incontestata, ma la titolarità delle deleghe alla sicurezza nell’ospedale. Nei vari processi celebratisi, i giudici hanno ritenuto di poter imputare al primario di ossigenoterapia Giorgio Oriani, al delegato alla sicurezza Silvano Ubbiali, al responsabile del servizio prevenzione e protezione Raffaele Bracchi e all’ex responsabile della manutenzione Roberto Beretta il concorso di colpa nella strage per non aver vigilato abbastanza.

Il pg, che aveva sostenuto l’accusa, Nunzia Gatto nella sua requisitoria aveva spiegato ai giudici che a causare il rogo c’erano state una serie di violazioni delle norme di sicurezza parlando di «sciatteria, incuria e superficialità». Secondo l’accusa nessuno aveva controllato i pazienti all’entrata nella camera iperbarica (consentendo a una persona di portare all’interno uno scaldino per le mani a benzina), non c’era un tecnico alla consolle di controllo, il serbatoio dell’impianto antincendio era vuoto. Inoltre il dispositivo antincendio all’interno della camera iperbarica era stato rimosso. A monte una inesistente valutazione del rischio d’incendio.

 

Inadeguata valutazione del rischio e responsabilità dell'azionista di maggioranza

 

Cassazione penale, Sez. IlI - Sentenza n. 29229 del 3 agosto 2005 (u.p. 19 aprile 2005) - Pres. Zumbo - Rei. Franco - Est. Postiglione - P.M. (Parz. conf.) Siniscalco - Rie. Ligresti e altro

 

Raffaele Guariniello definisce “di eccezionale finezza” la sentenza della Sez. IV della Corte di cassazione (n. 4981 del 6 febbraio 2004) che. con riguardo alla tragedia degli undici morti nella camera iperbarica della struttura sanitaria privata «Galeazzi», tra il resto, annullò con rinvio la sentenza di assoluzione di uno degli imputati pronunciata il 12 dicembre 2001 dalla Corte d'Appello di Milano.

 

Con la decisione del 2005 la Sez. III rigetta in particolare il ricorso presentato avverso la nuova sentenza, questa volta di condanna, emanata il 24 settembre 2004 dalla Corte d'Appello di Milano quale giudice di rinvio, e ne trae occasione per ribadire alcuni significativi insegnamenti, che Guariniello così di seguito riferisce.

Anzitutto, la Sez. IlI pone in luce l'esigenza di «non confondere la valutazione del rischio con lo specifico documento che lo formalizza».

 

Prende atto che, nella fattispecie, «il documento di valutazione del rischio fu formalmente redatto da un ingegnere, persona del tutto inadeguata professionalmente e che esso era macroscopicamente inconsistente proprio per la mancata previsione dello specifico e più grave rischio delle camere iperbariche (cioè l'incendio)».

 

Rileva che «la responsabilità per la mancata previsione del rischio (concetto ben distinto dal documento) e l'omessa adozione delle misure tecniche preventive è stata ritenuta gravare su entrambi gli imputati (quali datori di lavoro) dalla sentenza di condanna di primo grado, avallata sul punto della Corte di cassazione». Ne desume che «in questo contesto la intestazione e sottoscrizione del documento del rischio è da ritenere assorbita dalla ritenuta responsabilità di entrambi gli imputati perché - a prescindere dal documento del tutto inconsistente - il rischio come tale non fu valutato e preso in considerazione».

 

Un secondo insegnamento attiene all'errore scusabile. Al riguardo, la Sez. III ritiene corretta la sua esclusione da parte del giudice di rinvio, «tenuto conto del ruolo dell'imputato (quale azionista di maggioranza e Presidente del consiglio di amministrazione), dei suoi poteri anche di straordinaria amministrazione e della intensità del grado di negligenza nell'esercizio dei propri doveri in tema di sicurezza». Spiega che «trattasi di criteri che richiamano quella più rigorosa giurisprudenza sui doveri di chi esercita professionalmente determinate attività professionali, suscettibili di cagionare danni alle persone», e che «l'orientamento giurisprudenziale in una determinata materia e le sue incertezze non possono da sole abilitare ad invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile della legge penale».

 

La Sez. III mette poi in luce, sottolinea Guariniello, la sussistenza della cooperazione colposa dei due datori di lavoro nel determinare l'evento, e ricorda che in merito già il Tribunale di Milano, nella sentenza di primo grado, aveva ritenuto la cooperazione colposa dell'imputato (azionista di maggioranza e presidente del consiglio di amministrazione) per una serie di ragioni, quali «il contenuto della colpa (la omessa valutazione del rischio antincendio:

  • l'omessa adozione di misure tecnologiche preventive concretamente attuabili;
  • individuazione di un responsabile della sicurezza inadeguato,
  • carenza di sistemi adeguati di controllo interno e prevenzione)».

 

Segnala, altresì, che l'imputato, «partendo dall'erroneo presupposto di una sorta di accordo interno (con l'altro datore di lavoro), sostiene in pratica che nessun rimprovero di colpa poteva (a lui) attribuirsi in quanto non era assolutamente prevedibile il comportamento sprovveduto dell'altro datore di lavoro nella nomina di un responsabile esterno per la sicurezza insufficiente».

 

Osserva che, «per la cooperazione colposa non è necessario un preventivo accordo tra i soggetti, ne una convergenza di consensi nella causazione dell'evento non voluto che ne deriva, mentre è sufficiente anche un comportamento omissivo».

 

Prende atto che, «nel caso in esame, il comportamento dell'imputato è stato ritenuto in concreto colposo per l'accertata macroscopicità delle violazioni dei comuni obblighi con il coobbligato», che «ben doveva l'imputato occuparsi della sicurezza per il suo ruolo in una materia di tale grande rilevanza (come quella del possibile incendio) senza poter fare affidamento sull'altro datore di lavoro, trattandosi di reciproci obblighi primari e non delegabili» e che «la valutazione del rischio e la sua prevenzione rientrava nei suoi obblighi diretti».

 

2.8. La valutazione dei rischi come obbligo non delegabile del datore di lavoro

La Sentenza del Tribunale di Milano sez. 9° penale, 27.9.02, imp. Bracchi e altri, Presidente Gatto A.M., Est. Giordano (estratto) c.d. Processo Galeazzi afferma che “l'architettura normativa del d.lvo 626/94 [e oggi del D. Lgs. n. 81/2008] attribuisce un ruolo centrale agli obblighi del datore di lavoro tra i quali primeggia la valutazione dei rischi per la sicurezza e per la salute.

 

L’art. 4.1 e 2 d.lvo 626/94 [oggi artt. 17 e 28 del D. Lgs. n. 81/2008] prevede innanzi tutto l’obbligo non delegabile di valutare i rischi che consiste nell’attribuzione di un valore, un peso, una misura attraverso un’analisi tecnica, scientifica, organizzativa; pertanto non può considerarsi tale una mera osservazione dei luoghi di lavoro o una generica descrizione delle attività che vi si compiono.

 

La valutazione deve avere per oggetto tutti i rischi “per la sicurezza e la salute dei lavoratori” ma l’analisi coinvolge ogni profilo pericoloso anche “per la salute della popolazione” o che possono “deteriorare l’ambiente esterno” (art. 4.5 lett. n) d.lvo 626/94 [oggi art. 18 c. 1 lett. Q D. Lgs. n. 81/2008]).

 

Dopo tale valutazione, ... il datore di lavoro deve redigere un documento con un triplice contenuto: a) uno scritto sulla valutazione dei rischi e sui criteri specifici adottati; b) le conseguenti misure (preventive e protettive) da individuare in correlazione ai rischi già valutati; c) una programmazione di tutte le misure “opportune” per il “miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza”.

 

Tali profili attengono ad obblighi di risultato che devono avere una sostanziale esecuzione da parte del datore di lavoro. Pertanto costituisce violazione [di legge] non soltanto l’omissione ma anche l’adempimento in senso puramente formale di tali obblighi.

 

Sia l’omessa sia la formale valutazione del rischio (con mera trascrizione di un rischio determinato astrattamente e genericamente sul relativo documento) creano una fondamentale e grave lacuna. Per tali motivi l’adempimento astratto, formale, o generico dell’obbligo de quo può risultare addirittura ingannevole per i dirigenti, preposti, lavoratori, operatori esterni, rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza etc che ripongono un irrealistico affidamento sull’inesistenza o genericità di un rischio che invece è ben presente.

 

La redazione del documento di valutazione del rischio è un obbligo non delegabile del datore di lavoro il quale in stretto collegamento deve adempiere all’altro obbligo non delegabile di designare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (art. 4.4 d.lvo [oggi art. 17 e 31 D.Lgs. n. 81/2008]).

 

Tale designazione (lungi dal fungere da delega) costituisce l’investitura di un soggetto (interno o esterno all’azienda) “in possesso di attitudini e capacità adeguate” che è il “responsabile del servizio” a cui sono affidati i compiti ex art. 9 d.lvo 626/94 [oggi art. 33 D. Lgs. n. 81/2008].

 

A fronte di tale obbligo di designazione v’è necessariamente - da parte di una persona che intenda assumere l’incarico - la facoltà di accettare purché e soltanto se è in possesso di quelle “attitudini e capacità adeguate.

 

Per il responsabile del servizio di prevenzione e protezione costituisce titolo di responsabilità l’accettazione di un incarico che egli non è in grado di adempiere con la dovuta professionalità. Circa tale affidamento il datore di lavoro non è esonerato da responsabilità perché una vera e propria designazione può avvenire soltanto a favore di una persona dotata di quei requisiti specifici.

 

Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione può essere scelto soltanto tra persone aventi qualità e doti professionali all'altezza del compito ed egli risponde secondo i canoni tradizionali della colpa professionale se con le proprie omissioni o azioni negligenti, imprudenti, imperite cagiona (o contribuisce a cagionare) fatti costituenti reato. Se una siffatta condotta dovesse concorrere con l'azione o omissione colposa del datore di lavoro ne seguirebbe una responsabilità ex art. 113 c.p.

 

Tale quadro di responsabilità secondo i principi generali sulla colpa non può modificarsi per la considerazione che il testo normativo del d.lvo 626/94 [oggi D. Lgs. n. 81/2008] non prevede direttamente sanzioni penali per il responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

La formazione e l'informazione dei lavoratori e delle persone che frequentano a vario titolo un ambiente di lavoro (ad es. i pazienti) costituisce un obbligo fondamentale del datore di lavoro, in collaborazione con il servizio di prevenzione e protezione, avente ad oggetto i rischi e le misure per prevenirli e per proteggersi dagli stessi (omissis)”.

 

2.9. La posizione di garanzia del responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione [Estratto testuale dalla sentenza]

Il tribunale di Milano ha analizzato in modo approfondito la posizione di Bracchi quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

 

In linea di principio non esiste una responsabilità contravvenzionale in quanto è un soggetto non indicato dal D. Lgs. 626 prima e dal D. Lgs. n. 81/2008 poi, come titolare di obblighi diretti operativi se non quello di informare i lavoratori, ma non è un obbligo sanzionato nell’ambito della legge vigente di sicurezza sul lavoro. Lo stesso vale per tutti i compiti consulenziali oggi previsti dall’art. 33 del D. Lgs. n. 81/2008.

Però esiste una responsabilità che deriva appunto dallo svolgimento erroneo o insufficiente di questi compiti in caso di danno; la citata sentenza del Tribunale di Milano relativa alla vicenda Galeazzi ha condannato il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, la sentenza n. 3895 del 2002 estensore dott. Giordano.

In questa sentenza viene svolto un ragionamento molto preciso e interessante nel quale si dice che il datore di lavoro, se designa una persona priva di requisiti cioè di attitudini e capacità adeguate nello svolgimento del compito, questo costituisce responsabilità colposa del datore di lavoro che negligentemente e imprudentemente affida i compiti previsti dalla legge a chi non sarà capace di svolgerli ma lo stesso responsabile del servizio che accetta con leggerezza un incarico che non è in grado di adempiere con la dovuta professionalità sarà poi responsabile delle conseguenze. Quindi di parla anche di un onere dell’RSPP nel momento in cui accetta l’incarico di valutare la propria capacità professionale e la possibilità di adempiere adeguatamente al compito.

 

TRIBUNALE DI MILANO SEZ. 9° PENALE, 27.9.02, IMP. BRACCHI E ALTRI, PRESIDENTE GATTO A.M., EST. GIORDANO (stralci dalla sentenza)

 

La sentenza afferma che “è stata determinata quale effettiva (ancorché non unica) causa del rogo e quindi della morte delle vittime anche la valutazione del rischio meramente formale, generica e astratta che ha impedito una seria e sostanziale consapevolezza del rischio costituito dalla presenza delle camere iperbariche; di conseguenza, quale effetto concentrico, è stata omessa ogni reale ed effettiva misura di prevenzione e di protezione correlata a quel rischio con specifico riferimento alle procedure di informazione dei pazienti e dei lavoratori, alla disciplina dell’uso della camera, al funzionamento dell’impianto antincendio.

 

Occorre quindi verificare se chi ricopre il ruolo di responsabile del servizio di prevenzione e protezione abbia tali compiti e quindi sia responsabile per fatti verificatisi in conseguenza della violazione di tali obblighi.

 

La redazione del documento di valutazione del rischio è un obbligo non delegabile del datore di lavoro (la cui posizione direttamente non è oggetto di questo processo) il quale in stretto collegamento deve adempiere all’altro obbligo non delegabile di designare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

 

Tale designazione (lungi dal fungere da delega) costituisce l’investitura di un soggetto (interno o esterno all’azienda) “in possesso di attitudini e capacità adeguate”che è il “responsabile del servizio” a cui sono affidati i compiti ex art. 9 d.lvo 626/94 [oggi art. 33 D. Lgs. n. 81/2008].

 

A fronte di tale obbligo di designazione v’è necessariamente - da parte di una persona che intenda assumere l’incarico – la facoltà di accettare purché e soltanto se è in possesso di quelle “attitudini e capacità adeguate” cui expressis verbis si riferisce la normativa in più luoghi.

 

Come la designazione di una persona priva di quei requisiti costituisce titolo di responsabilità colposa per il datore di lavoro (che negligentemente e imprudentemente affida i compiti previsti dalla legge a chi non sarà capace di svolgerli) così anche per il responsabile del servizio di prevenzione e protezione costituisce titolo di altrettanta responsabilità l’accettazione di un incarico che egli non è in grado di adempiere con la dovuta professionalità. Sotto il profilo colposo si deve rilevare che l’accettazione di un sì importante incarico significa appropriarsi di una posizione di garanzia senza essere all’altezza di onorarla e ingenerando negli altri un certo affidamento. Circa tale affidamento però il datore di lavoro non è esonerato da responsabilità perché una vera e propria designazione può avvenire soltanto a favore di una persona dotata di quei requisiti specifici.

 

Com’è avvenuto nel caso dell’istituto Galeazzi, ancora più grave è la responsabilità del datore e del responsabile del servizio rispettivamente nel caso di affidamento e assunzione di incarico che viene totalmente disatteso, viene svolto solo fittiziamente o non viene effettivamente svolto con la dovuta diligenza e perizia professionale.

 

Infatti la sostanziale inesistente valutazione del rischio di incendio per la camera iperbarica significa un inadempimento dei compiti del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (ex art. 9.1 d.lvo 626/94 [oggi art. 33 D. Lgs. n. 81/2008]) ma ha significato anche l’inadempimento degli altri obblighi concatenati da parte degli altri soggetti, in primis da parte del datore di lavoro.

 

In particolare il ruolo del responsabile del servizio di prevenzione è funzionalmente quello di ausiliario del datore con i compiti specifici dell’art. 9.1 d.lvo 626/94 [oggi art. 33 D. Lgs. n. 81/2008]; egli deve contribuire alla redazione del documento di valutazione del rischio provvedendo ad individuare i rischi, ad elaborare le misure di prevenzione e di protezione nonché a sviluppare i programmi di formazione/informazione. Sennonché qualora egli non adempia alla propria funzione di consulente anche il datore di lavoro non è in grado di adempiere esattamente ai propri obblighi, in particolare a quelli previsti dall’art. 4 d.lvo 626/94 [ogig art. 18 D. Lgs. n. 81/2008].

 

Da ciò non si può desumere però una posizione del datore di lavoro subordinata al responsabile del servizio; il datore non deve acquietarsi semplicemente per aver nominato il responsabile del servizio ma deve verificare e controllare che effettivamente quest’ultimo provveda ai sensi dell’art. 9 d.lvo 626/94 [oggi art. 33 D. Lgs. n. 81/2008] fornendo al datore stesso gli esiti dell’attività svolta.

 

La considerazione che l’inadempimento da parte del responsabile non possa esonerare il datore di lavoro si ricava espressamente [dalla legge vigente] dalla cui lettura emerge in claris che l’incarico deve essere attribuito a persone capaci e preparate (certamente non può essere considerato tale chi non adempie diligentemente al proprio compito) e che “qualora il datore di lavoro ricorra a persone o servizi esterni egli non è per questo liberato dalla propria responsabilità in materia.

 

In breve, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione può essere scelto soltanto tra persone aventi qualità e doti professionali all’altezza del compito ed egli risponde secondo i canoni tradizionali della colpa professionale se con le proprie omissioni o azioni negligenti, imprudenti, imperite cagiona (o contribuisce a cagionare) fatti costituenti reato. Se una siffatta condotta dovesse concorrere con l’azione o omissione colposa del datore di lavoro ne seguirebbe una responsabilità ex art. 113 c.p.

 

Tale quadro di responsabilità secondo i principi generali sulla colpa non può modificarsi per la considerazione che il testo normativo del d.lvo 626/94 [oggi D.Lgs. n. 81/2008] non prevede direttamente sanzioni penali per il responsabile del servizio di prevenzione e protezione: si tratta infatti di una mancanza di sanzioni per la sola violazione dei compiti specifici ma restano fermi i principi della causalità omissiva (ex art. 40.2 c.p.) e della colpa generica e specifica (ex art. 43 c.p.) che viene integrata anche per la violazione di norme, regolamenti, discipline etc (a prescindere da una loro sanzionabilità diretta).

 

In concreto, come emerge pacificamente dagli atti dibattimentali e dalla ricostruzione unanime della (mancanza di) sicurezza all’interno dell’Istituto Galeazzi, Bracchi ha assunto il ruolo di responsabile del servizio di prevenzione e protezione, esterno all’azienda, omettendo sostanzialmente tutti i fondamentali compiti previsti dall’art. 9 d.lvo 626/94 [ora art. 33 del D.Lgs. n. 81/2010]. Non risulta – per quanto riguarda la camera iperbarica – che egli abbia approfondito i rischi specifici, le misure per prevenirli, la formazione e l’informazione ai lavoratori. Nulla di tutto questo è stato compiuto circa il rischio di incendio nell’uso della camera iperbarica, con la conseguenza che il documento di valutazione del rischio prevedeva genericamente il rischio di incendio e nessuna misura di prevenzione e protezione era applicata e spiegata. Infatti i minuti in cui si consuma il rogo atroce sono la traccia storica di tutto ciò che si doveva e poteva realizzare e che non era stato nemmeno considerato dal servizio di prevenzione che avrebbe dovuto studiare e proporre.

 

Bracchi, quindi, è responsabile per colpa dei reati contestatigli” (omissis).

 

 

Rolando Dubini, avvocato in Milano, cassazionista

 

 

Rimandiamo, in conclusione, alla lettura integrale della sentenza della Cassazione Penale, Sez. 3, 29 agosto 2019, n. 36612 (ndR)

 

 

Scarica le sentenze di riferimento:

Corte di Cassazione - Sentenza n. 36612 del 29 agosto 2019 - Norme di sicurezza nelle camere iperbariche.

 

Corte di Cassazione – Sentenza n. 4981 del 6 febbraio 2004 - Pres. Fattori - Est. Brusco - P.M. (P. Diff.) lannelli - Ric. P.M. in e. - Res. Ligresti e altri - Incendio camera iperbarica - sentenza Galeazzi.

 



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