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Strategie comunicative in emergenza

Ospitiamo un articolo tratto da PdE, rivista di psicologia applicata all’emergenza, alla sicurezza e all’ambiente.

 

Strategie comunicative in emergenza

di Antonio Zuliani e Wilma Dalsaso

 

Attivare un canale di comunicazione efficace in caso di emergenza rappresenta uno degli obiettivi primari per chi progetta un piano di emergenza o si trova a gestirlo. Per farlo nel modo migliore riteniamo sia utile lavorare in modo congiunto e integrato con tutte le professionalità che possono contribuire a rendere il più efficace possibile lo strumento comunicativo. La psicologia è in grado di fornire alcune indicazioni che vogliamo qui riassumere brevemente.

 

Le folle non sono tutte uguali

L'obiettivo di ogni comunicazione è che sia efficiente ed efficace, per questo motivo è di fondamentale importanza avere le idee chiare circa le caratteristiche delle persone alle quali ci si rivolge. In più, trattandosi di comunicazione in condizioni di emergenza è plausibile che la stessa debba rivolgersi contemporaneamente a un numero considerevole di persone: in altri termini, è una comunicazione rivolta a una folla.

 

Quando si parla di folla scontiamo dei ritardi culturali importanti che ci spingono a considerare la stessa, sulla scia degli scritti di Sighele (1891) e di Le Bon (1895), come una massa informe, incontrollabile e facile preda delle proprie emozioni, se non addirittura guidata da una leadership malevola. La ricerca scientifica ha evidenziato come, invece, le cose siano molto diverse, per cui oggi non possiamo più parlare di “folla”, bensì occorre introdurre il concetto di “folle”. Ogni qualvolta le persone si riuniscono lo fanno per un motivo e per uno scopo condiviso ed è molto importante riuscire a comprendere le norme e i valori di quel determinato gruppo (pensiamo ad esempio ai tifosi di calcio), le motivazioni che lo hanno spinto a riunirsi in quel luogo (pensiamo alle stesse persone che si riuniscono per un concerto rock oppure per partecipare a una funzione religiosa) e le modalità attraverso le quali le persone hanno creato quella specifica folla. Una volta comprese queste caratteristiche è possibile progettare un linguaggio comunicativo più adatto, che comunque tenga sempre presente che le informazioni di emergenza devono essere commisurate a come i destinatari percepiscono, in quel momento, la presenza di un determinato rischio. 

 

Fornire informazioni nel contesto di un evento sportivo o musicale ad esempio è diverso che comunicare alle stesse persone riunite su un aereo, perché, nel primo caso, la persona potrebbe non essere disponibile e disposta a sentirsi dire che l’evento è pericoloso, in quanto questo contrasta con le sue attese, che sono quelle di divertimento.  A dimostrazione, gli studi mostrano come la memoria selezioni le informazioni sulla base della rilevanza loro attribuita: quindi, lo spettatore, se arriva con l’idea di partecipare a un evento piacevole, con tutta probabilità faticherà a memorizzare informazioni contrastanti con questa idea. 

 

Conoscere le caratteristiche della folla permette, utilizzando il linguaggio della stessa e i suoi stessi punti di identità culturale, anche di presentare notizie. Come osservano Van Bavel e Pereira (2018), che chiamano questo fenomeno “credenza basata sull'identità”, la disponibilità a credere alle notizie è in massima parte determinata dall’identità e dal senso di appartenenza, e risultano invece meno importanti l'accuratezza, la credibilità delle fonti e la professionalità di chi comunica.

 

Lavorare su una comunicazione rivolta a uno specifico gruppo diventa uno strumento utile, dato che, nelle situazioni di emergenza, le persone accettano ancor più di assecondare le azioni della maggioranza con il fine di non disperdere la coesione del proprio gruppo (Van Vugt, De Cremer 1999). Anche perché, contrariamente a quanto troppo spesso pensato, in una situazione di emergenza nasce un’identità condivisa fra i presenti che può favorire i comportamenti pro-sociali e ostacolare quelli dettati dal panico (Drury e altri 2009). Compare frequentemente, ad esempio, il tentativo di preservare o di ristabilire le relazioni personali più significative che si traducono nella ricerca, anche spaziale, verso le persone o i luoghi più familiari.

 

 

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Utilizzare fonti già note

Visti i buoni motivi per conoscere la folla che si ha davanti, occorre anche ricordare come di fronte a un evento ignoto, com’è quello relativo a un’emergenza, le persone abbiano bisogno di comprenderne la natura, la pericolosità soggettiva e la possibilità di mettere in atto azioni protettive efficaci. Se fornire informazioni è l’obiettivo principale in queste circostanze, occorre prestare attenzione agli strumenti utilizzati e ai messaggi forniti. In questo senso è doveroso ricordare che, di fronte a una qualsiasi comunicazione, anche di eventi nuovi, le persone tendono a utilizzare i canali che già conoscono per capire che cosa sta accadendo e decidere cosa fare.

 

Intervenire attraverso questi canali noti per diffondere informazioni di emergenza, da attivare nel più breve tempo possibile, possiede una duplice efficacia: presentarsi come persona servizievole, informata e che sta dalla parte delle persone coinvolte. In secondo luogo si dimostra di conoscere l’origine del problema e perciò di averne il controllo (Naquin, 2004).

 

Quanto detto suggerisce due strategie fondamentali: di far transitare le informazioni di emergenza attraverso canali già in uso per altri scopi e di utilizzare comunicazioni il più possibile proattive.

 

In ogni ambiente adibito all’accoglienza delle persone vi sono delle fonti di informazioni già presenti: si va dai maxischermi, alle televisioni utilizzate per i messaggi pubblicitari, ai tabelloni a messaggio variabile. Tutte fonti di informazione che le persone presenti già conoscono e utilizzano e, anche se impiegate per altri scopi, possono diventare potenti mezzi di comunicazione di emergenza. Ma per fare ciò, è importante che le persone possano leggere e vedere su queste fonti delle informazioni utili per la loro sicurezza, possibilmente scritte e rappresentate in modo positivo.  In altre parole, una fonte informativa che invia segnali inquietanti non sarà “registrata” dalle persone come utile in caso di emergenza rispetto a un’altra che presenta in modo positivo e proattivo le stesse informazioni. Siamo “tarati” per le buone notizie, e un po’ meno per quelle cattive. Per fare un esempio: è diverso scrivere “attento ai tuoi bagagli perché te li possono rubare” o scrivere “sei tu il miglior custode dei tuoi bagagli”. L'aspetto rilevante è che ci sono prove convincenti che vi siano delle basi neuronali che facilitano l'incorporazione delle buone notizie. Si tratterebbe del giro frontale inferiore (IFG) che correggerebbe gli errori di stima utilizzando maggiormente le informazioni positive, rispetto a quelle negative (Sharot e altri, 2012).

 

L’utilizzo preferito e prevalente di fonti note è confermato anche da uno studio di Qiu e altri (2017), dal quale si evince che la difficoltà a gestire le troppe informazioni che ci giungono e la conseguente limitata attenzione che possiamo dedicare loro, ci spinge a credere come attendibili quelle provenienti dalla fonte già nota e considerata credibile.

 

Per quanto riguarda la loro collocazione, si pensi ad esempio a uno schermo, la posizione migliore è quella vicino alle vie di deflusso. Da quanto detto fino a ora, nella misura in cui saranno utilizzati per avere informazioni correnti relative all’evento, per vedere cosa sta accadendo in un altro punto, saranno anche in grado di risultare utili velocemente e automaticamente per fornire le informazioni di emergenza.

 

Un ulteriore canale comunicativo può essere quello delle applicazioni per smartphone. Sembra superfluo predisporre applicazioni dedicate all’emergenza, perché in queste circostanze le capacità cognitive si impoveriscono e si tende a privilegiare strumenti e mezzi già conosciuti. Ecco allora che le persone rischiano di non ricordare di avere applicazioni specifiche per l’emergenza.

Sembra più indicato accludere le istruzioni di emergenza ad applicazioni già utilizzate per altri scopi, come quelle predisposte per molti concerti o per dare indicazioni turistiche. In questo modo sarà favorito il loro utilizzo.

 

Comprendere e assecondare le azioni di self-help

In caso di emergenza, l’aspetto più importante non è quello di invitare le persone alla calma (cosa che corrisponde più al desiderio di chi gestisce l’evento piuttosto che alla reale possibilità che ciò avvenga in una situazione di paura) quanto piuttosto fornire solidi punti di riferimento come guida corretta ai comportamenti da assumere. 

 

Ma la cosa più importate è quella di comprendere che le persone coinvolte si attivano direttamente per cercare un senso a ciò che sta accadendo e una soluzione ai problemi che si trovano di fronte. Infatti, quasi tutte le persone, di fronte a ogni situazione che crea loro un disagio o una sofferenza, hanno imparato a mettere in campo delle strategie atte a farvi fronte (strategie di self-help), ed è quindi normale che cerchino di utilizzarle anche nelle circostanze di emergenza.

 

Conoscere i comportamenti spontanei derivanti dalle strategie di self-help diviene di fondamentale importanza per prepararsi a gestire un’emergenza.  Infatti, quando viene compreso come le persone potrebbero reagire a un’emergenza, si cerca di predisporre un sistema di gestione che ne tenga conto, anche attraverso, utilizzando una felice espressione di Thaler e Sunstein (2008), “un’architettura delle scelte”.  Non si tratta di cercare di condizionare le persone a compiere azioni pianificate da chi costruisce un piano di emergenza, ma di conoscere le azioni che le stesse metterebbero in atto e di individuare strategie organizzative e comunicative che ne rinforzino l’efficacia positiva se sono nella giusta direzione e di individuare misure correttive se invece inidonee.

 

Inoltre, aumenta il loro senso di autoefficacia e la disponibilità a collaborare con chi ha l’onere di guidare la situazione, perché viene vissuto come un “alleato”.

 

In questa direzione occorre ricordare come ogni tentativo, seppur animato dalle migliori intenzioni, di mostrare ad altre persone che i loro comportanti non sono idonei non dovrebbero mai partire dal mostrare che sono in errore. Le conseguenze più probabili di una simile condotta sono quelle di attivare un atteggiamento di difesa, poiché, come scrive Brown (1963), sappiamo “quanto fortemente le persone siano resistenti ai messaggi che non si adattano alla loro personale visione del mondo e alle loro circostanze obiettive, e come cerchino deliberatamente (anche inconsciamente) quelle idee che si accordano alla loro”.



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Rispondi Autore: iolanda mascella - likes: 0
24/07/2018 (08:49:00)
Zuliani e Dalsaso sempre puntuali e interessanti. magari servirebbe qualche esempio pratico in più. Pur comprendendo e condividendo la teoria, come metterla in pratica?

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