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Il mobbing e' donna

Nella 15° edizione del ‘’Rapporto Italia’’, che sarà presentato 31 gennaio 2003, l’Eurispes ha dedicato una della sue schede al mobbing, una delle patologie emergenti in medicina del lavoro, nell’ambito dei fattori di tipo organizzativo e psico-sociale.
Il mobbing, del quale non esiste ancora una definizione chiara e universalmente riconosciuta, a partire dagli anni Novanta sta acquisendo un ruolo particolarmente rilevante. (Si vedano gli articoli dedicati alla ‘’Settimana europea per la salute e la sicurezza sul lavoro 2002’’).

E proprio l’attualità del tema ha spinto l’ Eurispes a trattarlo nel ‘’Rapporto Italia 2003’’, una delle ricerca attraverso le quali l’istituto intende studiare e interpretare l’evoluzione e i cambiamenti della società italiana.

L’indagine sul mobbing ha visto coinvolto un gruppo di ricerca (operante presso l’Ospedale Sant’Andrea di Roma, costituito da medici del lavoro e psichiatri dell’ambulatorio di Medicina del lavoro della seconda Facoltà di medicina dell’Università “La Sapienza”, diretto dal prof. Edoardo Monaco) che ha intrapreso un’attività ambulatoriale dedicata specificamente al mobbing, con l’intenzione di analizzare tale fenomeno e sollecitare la proposta di criteri di valutazione. I dati hanno messo in luce aspetti di un fenomeno, in continua evoluzione, che solo in Italia coinvolge un milione di lavoratori, su oltre 21 milioni di occupati, maggiormente nelle regioni del Nord (65%)

Questi in sintesi i dati rilevati.
La vittima del mobbing è prevalentemente donna: il 52% delle donne sarebbe oggetto di “persecuzioni” in ambito lavorativo.
‘’Se poi si tratta di impiegati, e qui non c’è genere che tenga, le vessazioni – afferma l’Eurispes - raggiungono il picco del 79%.’’

Nel corso di 14 mesi, da giugno 2001 a settembre 2002, i pazienti analizzati dall’equipe di medici sono risultati essere per il 62,5% dipendenti di aziende private (il resto appartenenti a quelle pubbliche) e per il 52% diplomati (laureati e possessori di licenza media si attestano invece ex equo al 24%). Circa lo stato civile, il 48% dei soggetti sottoposti a indagine sono coniugati, il 14% divorziati o separati e il 38% celibi o nubili. Le azioni mobbizzanti subite dai pazienti per il 3% hanno avuto una durata inferiore ai sei mesi, per il 27% tra sei mesi e un anno, per il 40% tra uno e due anni e per il 30% oltre i due anni.

Alcune delle situazioni più frequentemente riferite per esercitare violenza psicologica, emerse dall’indagine, sono: accuse di scarsa produttività; assegnazione di compiti superiori a pari grado o a subordinati della vittima; assegnazione di obiettivi impossibili per il livello professionale della vittima e per il tempo concesso non adeguato al compito; attribuzione di compiti non necessari, richiesti urgentemente e, una volta assolti, neppure controllati; contestazioni o richiami disciplinari non adeguati all’entità della mancanza; declassamento delle mansioni rispetto alla qualifica attribuita; eccessivo ricorso a visite fiscali; esclusione da riunioni plenarie; generiche critiche circa lo svolgimento del lavoro, con rifiuto a motivarle; imposizione ai colleghi della vittima di non parlare con la vittima stessa; minacce di trasferimento; ossessivo controllo dell’orario di lavoro; richieste di lavoro urgente anche in giorni festivi o fuori orario; ripetute e repentine variazioni di orientamento sul lavoro da eseguire; tendenza a riferire giudizi negativi di terzi; uso di minacce esplicite o implicite; uso di tono arrogante in presenza di colleghi; valutazioni di profitto non adeguate al lavoro svolto, sia perché in contrasto con i risultati, sia perché difformi rispetto a precedenti rapporti.

Inoltre, nell’ambito della ricerca condotta al Sant’Andrea, alcuni pazienti (39%) presentavano sintomi patologici riconducibili ad una situazione di stress: astenia, ansia, depressione, panico, disturbi del sonno, irregolarità nell’alimentazione, alcolismo, tabagismo, uso improprio di farmaci. Non raro (31%) anche il riscontro di sintomi fisici quali cefalea, vertigini, eruzioni cutanee, tachicardia, senso di ambascia precordiale, ipertensione arteriosa e disturbi dell’apparato gastrointestinale come gastrite, ulcera e colite spastica.
I dati emersi indicano un disturbo dell’adattamento nel 63% dei casi esaminati; il 28% risulta affetto da patologie psichiatriche; il 9% dei pazienti non hanno presentato patologie psichiche degne di nota.

Tra i pazienti, il 15% aveva sofferto già in precedenza di patologie psichiatriche, mentre per l’85% non risultano all’anamnesi sindromi psichiatriche pregresse.
L’atto finale è stato la certificazione di compatibilità con il mobbing o stress occupazionale, che è stato rilasciato nel 67% dei casi, ossia quando è stato diagnosticato un disturbo dell’adattamento. Per il 33% dei pazienti non è stata rilasciata certificazione, sia perché il riscontro di patologie psichiatriche ha indotto a rinviare ad una successiva visita di controllo, raccomandando una opportuna terapia presso centri specializzati e consigliando, ove possibile, l’allontanamento dal posto di lavoro, sia perché non è stato possibile esprimere un giudizio per insufficienti elementi diagnostici.
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