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Lavoratori stranieri e sicurezza sul lavoro

Lavoratori stranieri e sicurezza sul lavoro

Autore:

Categoria: Valutazione dei rischi

15/11/2016

Lo shock culturale come ostacolo alla sicurezza e alla produttività nei luoghi di lavoro.


 

 

Ospitiamo un articolo tratto da  PdE, rivista di psicologia applicata all’emergenza, alla sicurezza e all’ambiente, che propone un intervento realizzato da Martina Zuliani.

 

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LO SHOCK CULTURALE COME OSTACOLO ALLA SICUREZZA E ALLA PRODUTTIVITÀ NEI LUOGHI DI LAVORO

Nelle aziende odierne si conta una presenza sempre maggiore di personale straniero lavorante fianco a fianco di quello italiano, in un contesto multietnico. Questa realtà porta a delle difficoltà aggiuntive nei posti di lavoro che si possono tradurre in fraintendimenti, cali della produttività, conflitti ma anche in vere e proprie sfide per la sicurezza del lavoratore.

Vi sono vari fattori che possono ostacolare la comunicazione tra persone di varia cultura. I principali sono gli stereotipi ed i pregiudizi, che creano conflitto e diminuiscono il dialogo, il possibile basso livello di acculturazione del lavoratore straniero, che non comprende il linguaggio ed i segnali della cultura locale, compresi quelli relativi alla sicurezza sul lavoro, e lo shock culturale.

 

In alcuni casi si cercata di ovviare a queste problematiche creando dei reparti mono-etnici, in cui i lavoratori provenissero tutti dalla stessa nazione. Questa soluzione non è però la più scontata, visto che etnie e gruppi in conflitto tra loro possono provenire dallo stesso Paese. Inoltre, questo metodo non rappresenta una soluzione nel superamento dello shock culturale del lavoratore straniero, anzi lo rende ancor più isolato nella sua cultura d’origine e lo mette a rischio depressione e marginalizzazione.

 

Lo shock culturale è difatti composto da più fasi che possono avere una durata variabile e che possono sovrapporsi. Queste fasi sono state analizzate e descritte da Oberg, antropologo americano laureatosi in diverse università prestigiose tra cui quella della British Columbia dalla quale è nata l’idea di teoria e ricerca sullo shock culturale. La prima fase è quella della così detta luna di miele, nella quale l’individuo è affascinato dal Paese d’arrivo fino a non vederne i difetti. In questa fase tutto sembra andare per il meglio, la persona migrante è molto positiva e pronta ad accettare tutte le caratteristiche del Paese e della sua cultura. A poco a poco, però, le difficoltà iniziano ad emergere facendo capire all’individuo che la sua vita non sarà facile, soprattutto a causa del suo status di migrante.

 

A questo punto entra in gioco la seconda fase, quella della disintegrazione dei riferimenti, nella quale la persona straniera comincia a scontrarsi con i primi problemi di carattere culturale, coi pregiudizi e si sente incompresa e persa. In questa fase, l’individuo comincia a sentirsi frustrato e può presentare cali di attenzione o affaticamento accompagnati da disturbi psicosomatici e da un calo delle difese immunitarie. Successivamente, l’individuo comincia ad acquisire le conoscenze della cultura locale, sentendosi però ancora frustrato dalla propria diversità.

Da questa fase si possono avere due possibili evoluzioni.

 

La prima avviene quando l’individuo comincia ad adattarsi alla cultura del Paese unendola alla propria e costruendosi il suo biculturalismo. Per fare ciò l’individuo deve essere in grado di sentirsi accettato e di distinguere pregi e difetti della propria cultura e di quella del Paese d’arrivo.

 

La seconda situazione che può crearsi è quella di un individuo frustrato, depresso, marginalizzato e chiuso in sé stesso che provi ostilità per la cultura del Paese di residenza. Questa situazione è, ovviamente, quella che può portare problemi all’interno dell’ambiente di lavoro con lavoratori tendenti al conflitto, con possibilità di presentare depressione, insonnia o altri sintomi psicosomatici e aventi cali di attenzione. Trattandosi di una situazione che tutti i lavoratori migranti si trovano a vivere, seppur in maniera diversa e con tempistiche differenti, diventa auspicabile per l’azienda la creazione di un clima che favorisca il superamento positivo dello shock culturale e che permetta un adattamento rapido del lavoratore straniero alla nuova realtà culturale.

 

Nel superamento dello shock culturale entrano in gioco diversi fattori. Il più importante è quello della personalità, che porta l’individuo ad essere più o meno estroverso, ad avere o meno un forte controllo su sé stesso e a ricercare o meno l’efficienza personale. Questo primo fattore non può essere modificato dall’azienda, essendo strettamente personale. Il secondo fattore è il livello di empatia dell’individuo, essa infatti può aiutarlo nella comprensione più o meno rapida delle persone di diversa cultura. L’ultimo fattore è composto dalle strategie di coping messe in atto dall’individuo. In questo ultimo insieme di strategie si può inserire un contributo, del team di lavoro o dei singoli colleghi, atto all’accorciamento del periodo d’impatto negativo e alla diminuzione di stress, disturbi psicosomatici e cali di attenzione.

 

Vi sono anche altri fattori provenienti dall’impatto con una nuova cultura che possono arrecare interferenze e creare conflitti che abbassino la produttività sul posto di lavoro. Uno studio effettuato in due grandi ospedali australiani ha dimostrato come lo stress provato dalle infermiere straniere e locali sul luogo di lavoro non fosse solo dovuto allo shock culturale. Difatti, forti tensioni causate dalla tendenza a riversare le responsabilità sulle colleghe si sono registrate nell’interazione tra i due gruppi; infermiere straniere e infermiere australiane in cui queste ultime, essendo l’Australia nata come Paese facente parte del Commonwealth, hanno radici culturali britanniche molto forti. Le infermiere straniere lamentavano il fatto di doversi assimilare completamente nel gruppo infermieri senza ricevere aiuti ed informazioni sulle pratiche culturali australiane ne senza poter dare contributi al funzionamento della struttura ospedaliera, contributi che avrebbero desiderato apportare dalle loro culture d’origine. Le infermiere australiane, invece, lamentavano la lentezza dell’adeguamento culturale delle colleghe straniere, nonché la loro “impreparazione” nel rapporto col paziente, gestito spesso con approccio di cura piuttosto che come mero rapporto infermiere-paziente. Vi è quindi la necessità di preparare l’intero staff del luogo di lavoro all’interazione con le culture dei colleghi e allo sviluppo dell’apertura necessaria per acquisire nuove conoscenze, sviluppare uno spirito critico verso le proprie e creare un ambiente lavorativo interculturale.

 

Ciò che l’azienda può fare per ridurre i tempi dello shock culturale e per diminuire la percentuale di lavoratori colpiti negativamente da esso è puntare su strategie atte ad aumentare l’intelligenza culturale dei propri assunti. L’intelligenza culturale è la capacità di capire le diverse culture e di assimilarne alcuni aspetti. Essa può essere maggiormente sviluppata in alcuni individui ma può essere anche aumentata grazie a iniziative ed azioni mirate.

 

Le aziende possono aumentare l’intelligenza culturale dei loro lavoratori tramite la creazione di network, di occasioni di dialogo, incoraggiando i lavoratori stranieri a porre domande a quelli locali, organizzando momenti di dialogo e di dibattito e grazie a letture e informazioni. Queste iniziative possono aver luogo durante giornate di formazione apposite, ma vanno altresì incoraggiate nelle aree dedicate alla pausa e nei luoghi di incontro comune, come una sala mensa, creando quindi anche occasioni che interrompano la tendenza delle persone a vivere questi momenti all’interno del proprio spazio monoetnico.

 

Queste iniziative possono portare allo sviluppo di amicizie, di un forte legame tra il personale di reparto, allo scambio di informazioni e alla voglia di lavorare meglio insieme. I risultati sono un aumento della produttività dato da una maggiore comprensione e motivazione, e la diminuzione della disattenzione sul luogo di lavoro data dalla diminuzione della percentuale di lavoratori depressi o isolati.

 

Martina Zuliani



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