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Sorveglianza sanitaria: assoluzione del DdL e del MC

Anna Guardavilla

Autore: Anna Guardavilla

Categoria: Sanità e servizi sociali

10/06/2010

Le responsabilità in materia di sorveglianza sanitaria del datore di lavoro e del medico competente: le assoluzioni della Cassazione. A cura di Anna Guardavilla. Terza parte.

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Leggi la prima parte: “Sorveglianza sanitaria: le responsabilita' del datore di lavoro”.
Leggi la seconda parte: “Sorveglianza sanitaria: le responsabilita' del Medico Competente

Rassegna di giurisprudenza di legittimità 2004-2009 sulle responsabilità del medico competente e del datore di lavoro in materia di sorveglianza sanitaria
Selezione di importanti sentenze emanate in attuazione del D.Lgs. 626/94, compatibili - in virtù del principio di continuità normativa - con il D.Lgs. 81/08

A cura di Anna Guardavilla



Cassazione Penale, Sezione Quarta, 9 luglio 2007 n. 26439
- Assoluzione del datore di lavoro e del medico competente
- Norme di riferimento: art. 589 c.p.


In un caso di decesso di un vigile del fuoco per tumore, la Cassazione conferma il giudizio del Giudice per l’Udienza Preliminare che aveva ritenuto l’innocenza degli imputati (il comandante dei vigili del fuoco e il medico competente) in base al seguente principio: “deve ritenersi esclusa la penale responsabilità dell’agente allorquando risulti accertato che l’evento si sarebbe ugualmente verificato anche ove l’agente stesso avesse posto in essere la condotta doverosa, oppure nel caso in cui non si raggiunga la prova dell’efficienza del comportamento corretto a scongiurare l’evento”.

La sentenza integrale


Fatto

Il P.M. del Tribunale di Frosinone avviava indagini nei confronti di S.M. e C.R. in ordine all’ipotizzato reato di cui agli artt. 113 e 589 c.p. per avere, con condotta colposa nelle loro rispettive qualità - il primo quale Comandante Provinciale dei Vigili del Fuoco di Frosinone dal 9/9/1985 al 27/9/1998 e dirigente in epoca precedente, ed il secondo quale “medico incaricato” dello stesso Comando Provinciale nonché “medico competente” ai sensi del D.P.R. n. 303 del 1956, art. 33 - cagionato la morte di D.C.M. e di T.R.: in particolare il D.C. era deceduto a causa di un carcinoma spino-cellulare del glande, lesione aggravata dall’esposizione a fumo ed altri agenti irritanti; il C. inoltre in data 25/6/1997, vale a dire meno di un anno prima del decesso del D. C., aveva sottoposto a visita quest’ultimo - il quale aveva formulato richiesta di malattia per causa di servizio - asserendo che l’infermità lamentata (carcinoma spino-cellulare del glande) non menomava l’idoneità al servizio incondizionato.
All’esito delle indagini preliminari, il P.M. esercitava l’azione penale nei confronti degli imputati predetti, chiamandoli a rispondere dei reati quali formalmente contestati con articolato capo di imputazione.

Il Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Frosinone, dopo aver proceduto anche all’audizione dei consulenti tecnici del P.M., pronunciava sentenza di non luogo a procedere nei confronti del S. e del C. con la formula “perchè il fatto non sussiste”.
Il giudicante - con specifico riferimento al decesso del D. C., che in questa sede rileva - premetteva che, vertendosi in tema di responsabilità colposa, occorreva accertare se si era verificata l’inosservanza di regole doverose di comportamento, esigibili dal soggetto agente e la cui osservanza avrebbe evitato l’evento, secondo i canoni ermeneutici del cd. giudizio controfattuale nel rispetto dei principi quali enunciati dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 30328 del 10 luglio 2002, in virtù dei quali deve ritenersi esclusa la penale responsabilità dell’agente allorquando risulti accertato che l’evento si sarebbe ugualmente verificato anche ove l’agente stesso avesse posto in essere la condotta doverosa, oppure nel caso in cui non si raggiunga la prova dell’efficienza del comportamento corretto a scongiurare l’evento. Il G.U.P., passando all’applicazione pratica di detti principi alla concreta fattispecie, evidenziava che i consulenti tecnici del P.M. avevano delineato un esempio classico di sostanziale inutilità del comportamento alternativo dovuto, nel senso che gli imputati, anche se avessero effettivamente adempiuto a tutte le prescrizioni indicate nel capo di imputazione, non avrebbero avuto alcuna possibilità di scongiurare il decesso del D.C. (nonché del T.); conclusioni poi dagli stessi consulenti ribadite nella nota integrativa della consulenza, redatta in risposta alle controdeduzioni dei consulenti delle parti civili, nonché riaffermate, con diffuse argomentazioni e deduzioni, nel corso della deposizione resa in udienza.
I consulenti del P.M., come sottolineato dal giudicante, avevano precisato che il D.C. era purtroppo portatore di una fimosi serrata, anomalia nota quale fattore determinante del carcinoma spino-cellulare del glande, e si erano così testualmente espressi: “gli scriventi nutrono forti dubbi sulle possibilità che avrebbe avuto una visita, anche accurata, di pervenire ad una diagnosi precoce, vista la cadenza biennale prevista dalla normativa.
La presenza della fimosi serrata avrebbe impedito l’esame obiettivo del glande e del solco balano prepuziale, per cui la diagnosi sarebbe stata ineluttabilmente tardiva”.
Il G.U.P. aveva espressamente richiesto al consulente dottor P. di chiarire se l’evento poteva essere scongiurato ove gli imputati avessero rigidamente osservato le prescrizioni indicate nell’imputazione, e la risposta era stata del seguente letterale tenore: “nel caso del D.C., la diagnosi precoce sarebbe stata straordinariamente difficile, come è stata difficile fino a quel momento, perchè lo è stata per tutti, anche per quelli che lo visitavano più spesso, quindi possiamo dire di no”; e tali valutazioni erano state pienamente confermate anche dagli altri consulenti dell’accusa pure escussi in udienza.
 
Il G.U.P. sintetizzava quindi nel modo seguente quanto emerso dagli elaborati dei consulenti del P.M. nonché dalle ulteriori argomentazioni dai consulenti stessi svolte in udienza:
1) non era stata raggiunta la prova certa circa il fatto che le condotte omissive addebitate ai due imputati avessero potuto costituire un antecedente causalmente efficiente rispetto alla produzione dell’evento;
2) conducendo il giudizio controfattuale nei termini scientifici precisati non era stato possibile acquisire la prova affidabile che la condotta omissiva avesse costituito la condizione necessaria dell’evento dannoso secondo il criterio dell’alto grado di credibilità razionale;
3) permaneva anzi una situazione di notevole vaghezza e nebulosità circa l’esistenza del collegamento causale suddetto, stante l’insufficienza e la genericità del compendio probatorio emerso dagli atti;
4) conclusivamente, il pur rigoroso rispetto delle normative antinfortunistiche che si assumevano violate “sarebbe stato comunque inidoneo a consentire una diagnosi precoce e, in definitiva, a scongiurare l’evento, così realizzandosi essenzialmente l’inutilità del comportamento alternativo asseritamente dovuto”.
Il G.U.P. precisava infine che da quanto acquisito agli atti era emerso che il C. aveva rivestito una qualifica del tutto dissimile da quella a lui attribuita con la contestazione tanto da non essere destinatario degli obblighi ivi indicati, posto che la sua veste era stata non quella di “medico competente” bensì quella diversa di medico incaricato. 



Avverso detta sentenza ricorrono per cassazione, quali parti civili costituite, e con unico atto di gravame, i congiunti del D. C.: S.A., in proprio e quale esercente la patria potestà sul figlio minore D.C.G. e D.C.D.
I ricorrenti - tra l’altro riportando anche testualmente le considerazioni svolte dal medico legale di parte civile, prof. Z., nella prima relazione (quella del 7 dicembre 2001), nonché le risposte fornite dallo stesso prof. Z. con atto del 7 novembre 2003 ad osservazioni dei consulenti del P.M. - denunciano vizio motivazionale sotto plurimi profili e con argomentazioni che possono così sintetizzarsi:
1) il G.U.P. si sarebbe limitato a valutare unicamente le dichiarazioni dei consulenti del P.M. senza procedere ad un confronto con le diverse posizioni espresse dai consulenti delle parti civili, omettendo di indicare le ragioni per le quali aveva ritenuto di privilegiare le tesi dei consulenti del P.M. e di disattendere invece le opposte considerazioni dei consulenti di parte civile;
2) il G.U.P. avrebbe errato nel fondare la propria decisione sui principi indicati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 30328 del 2002, trattandosi di criteri ermeneutici riferibili al diverso e peculiare tema della responsabilità professionale medica;
3) in presenza di un’attività lavorativa obiettivamente esposta a rischi multifattoriali quale è quella dei Vigili del Fuoco, oggetto di considerazione e di specifica tutela nelle disposizioni di legge che disciplinano la materia - ed indicate nella richiesta di rinvio a giudizio - il giudicante avrebbe dovuto adeguatamente approfondire l’accertamento della obiettiva pericolosità dell’attività svolta, dell’omissione delle condotte doverose e del nesso di causalità tra le prime ed il decesso anche solo sotto il profilo di concausa, avuto anche riguardo alle numerose circolari emanate dall’Amministrazione ben consapevole della multifattorialità dei rischi cui è oggettivamente esposto il personale dipendente dei Vigili del Fuoco tanto da istituire un servizio sanitario del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco;
4) il D.C. non sarebbe stato sottoposto alle periodiche visite dovute;
5) il dottor C. ricopriva di fatto la qualifica di “medico competente” in virtù della stessa funzione sanitaria generale prevista dalle normative specifiche finalizzate a tutelare la salute dei lavoratori: egli aveva svolto le sue mansioni di medico presso il Comando VV. FF. di Frosinone dal 1976 al 2001, e quindi non potrebbero esservi dubbi sulla natura della sua prestazione professionale anche quale medico competente;
6) il dottor C. non avrebbe valutato la patologia congenita di cui era portatore il D.C. in relazione ai rischi specifici dell’attività lavorativa, e ciò sia nella visita di prearruolamento che in quelle successive.

Diritto

In primo luogo va rilevata la infondatezza delle argomentazioni con le quali il difensore dell’imputato, nel corso della discussione orale nell’odierna udienza, ha posto in dubbio la legittimazione dei ricorrenti all’impugnazione, non potendo riconoscersi agli stessi la qualità di parti offese bensì quella di danneggiati dal reato (dovendo considerarsi parte offesa la vittima D.C.M.).
Va evidenziato al riguardo che la legittimazione all’impugnazione deriva esplicitamente dal disposto di cui all’art. 90 c.p., comma 3 secondo cui “qualora la persona offesa sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge sono esercitati dai prossimi congiunti”.

Ciò premesso, i ricorsi vanno rigettati.

La sentenza di non luogo a procedere, unico provvedimento decisorio impugnabile dell’udienza preliminare, è ora soltanto ricorribile per cassazione.
L’inappellabilità è stata sancita dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 4 che ha riscritto l’art. 428 c.p.p., senza prevedere, come invece ha fatto per le sentenze di proscioglimento (si veda l’art. 593 c.p.p., nuovo comma 2), la possibilità di proporre appello in caso di "nuova prova" decisiva.
La Corte Costituzionale (sentenza n. 26 del 24 gennaio 2007) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 111 Cost., comma 2 (principio di parità delle parti), della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 1, nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 c.p.p., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603 c.p.p., comma 2, se la nuova prova è decisiva.
Non è stata invece ripristinata l’appellabilità delle sentenze di non luogo a procedere.
Parimenti alcun riflesso sulla disciplina delle impugnazioni avverso le sentenze di non luogo a procedere, quale ridisegnata con la L. n. 46 del 2006, deriva dalla recente sentenza delle Sezioni Unite pronunciata in data 28 marzo 2007 avente ad oggetto l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento per la parte civile.
Dunque, avverso la sentenza di non luogo a procedere pronunciata ai sensi dell’art. 428 c.p.p., la parte civile può solo proporre ricorso per cassazione ex art. 606 c.p.p. e, conseguentemente, basare il gravame esclusivamente su doglianze riconducibili ai motivi elencati nel citato art. 606 c.p.p..
Nella concreta fattispecie i ricorsi risultano basati su doglianze infondate e, per certi versi, ai limiti della inammissibilità posto che, attraverso considerazioni già vagliate dal giudice dell’udienza preliminare, tendono per lo più ad una rivalutazione delle risultanze processuali non consentita in sede di legittimità.
La decisione impugnata si presenta formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi puntuali contenuti motivazionali - quali sopra riportati e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni - forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti il fatto oggetto del processo.
Il giudicante, dopo aver analizzato tutti gli aspetti della vicenda (evoluzione della patologia da cui era affetto il D.C., attività lavorativa del medesimo e mansioni in concreto dallo stesso svolte, compiti e ruolo dell’imputato, osservazioni e conclusioni dei consulenti) ha spiegato le ragioni per le quali ha conclusivamente ritenuto che non potesse dirsi comunque acquisita la prova affidabile che la condotta ipotizzata come doverosa, ed invece omessa secondo l’ipotesi accusatoria, avesse costituito la condizione necessaria dell’evento dannoso secondo il criterio dell’alto grado di credibilità razionale.


Il percorso motivazionale seguito dal giudice dell’udienza preliminare, nel caso in esame, si presenta lineare, adeguato, completo e logico, ed in piena sintonia con i principi e con i criteri più volte indicati in epoca più recente nella giurisprudenza di legittimità, quali compiutamente definiti ed elencati dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 30328 del 10 luglio 2002 (depositata l’11 settembre 2002), che appare opportuno sinteticamente ricordare:
1) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica - si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva;
2) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”;
3) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio;
4) alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative - la cd. giustificazione esterna - della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare.
Ritiene il Collegio assolutamente non condivisibile l’assunto dei ricorrenti, secondo cui i principi suddetti dovrebbero trovare applicazione solo in relazione ad ipotesi di responsabilità professionale medica.
Ed invero, pur avendo le Sezioni Unite enunciato i principi sopra ricordati in relazione ad un caso di responsabilità per condotta omissiva nell’esercizio di attività professionale medica, è evidente, e pacifico in giurisprudenza, che i criteri ermeneutici indicati dalle Sezioni Unite valgono in generale per l’accertamento del nesso causale in relazione a responsabilità colposa per condotta omissiva con riferimento ad obblighi di garanzia concernenti qualsiasi attività (non solo quella del medico).



Né l’impugnata decisione, avuto riguarda alla motivazione che la sorregge, appare censurabile sotto il profilo degli obblighi di valutazione del Giudice dell’udienza preliminare, con riferimento al giudizio prognostico circa l’utilità del dibattimento.
Giova ricordare che nella giurisprudenza di legittimità, prima della modifica apportata all’art. 425 c.p.p. dalla L. n. 479 del 1999, era stato affermato che “in tema di requisiti per il proscioglimento dell’imputato all’esito dell’udienza preliminare, il legislatore ha inteso evitare che pervengano alla fase del giudizio situazioni nelle quali risulti con ragionevole certezza che l’imputato meriti il proscioglimento; ciò avviene nei casi di sicura infondatezza dell’accusa, quando cioè gli atti offrono la prova dell’innocenza dell’accusato o la totale mancanza di elementi a carico, ma altresì in presenza di sicura inidoneità delle fonti di prova acquisite ad un adeguato sviluppo probatorio, nella dialettica del contraddittorio dibattimentale” (in termini, Cass. 6^ 3 novembre 1998, Annunziata, RV 214047; conforme Cass. 1^ 5.2.1998, Cito, RV 209901).
Come detto, l’art. 425 c.p.p. è stato poi modificato con la citata novella 479/99, ed al giudice dell’udienza preliminare è stato affidato il compito non solo di rilevare l’inesistenza di concreti elementi indizianti (ovvero la sussistenza della prova positiva dell’innocenza dell’imputato), ma anche di verificare l’attitudine di un materiale probatorio, eventualmente incompleto o incerto, ad essere integrato poi in sede dibattimentale: ed in caso di esito positivo di tale verifica, il giudice deve disporre il rinvio a giudizio dell’imputato.
E non va sottaciuto che il GUP, ai fini di detta valutazione prognostica, può avvalersi - rispetto a quanto era possibile nel passato, e come sottolineato anche da autorevole dottrina - certamente di elementi più significativi e basi più solide avuto riguardo alla tendenziale completezza delle indagini preliminari, resa possibile grazie ai nuovi strumenti introdotti dagli artt. 415 bis e 421 bis c.p.p.. Proprio muovendo da siffatto assetto normativo, le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che “il radicale incremento dei poteri di cognizione e di decisione del giudice dell’udienza preliminare, pur legittimando quest’ultimo a muoversi implicitamente anche nella prospettiva della probabilità di colpevolezza dell’imputato, non lo ha tuttavia disancorato dalla fondamentale regola di giudizio per la valutazione prognostica, in ordine al maggior grado di probabilità logica e di successo della prospettazione accusatoria ed all’effettiva utilità della fase dibattimentale”. (Cass. S.U. 30 ottobre 2002, Vottari, RV 222602).
Va infine evidenziato che le doglianze dei ricorrenti non valgono a scalfire la decisione impugnata neppure sotto il profilo del vizio motivazionale di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), quale ridisegnato dalla L. n. 46 del 2006, posto che gli atti processuali richiamati dai ricorrenti non si presentano autonomamente dotati di una forza dimostrativa tale da disarticolare l’apparato motivazionale della decisione impugnata, secondo il principio recentemente enunciato da questa Corte: “Allorchè si deduca il vizio di motivazione “risultante dagli atti del processo” (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. n. 46 del 2006) non è sufficiente che detti atti siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudice.
Occorre, invece, che gli “atti del processo” su cui fa leva il ricorrente per sostenere la sussistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da verificare o rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione”.
Con l’ulteriore conseguenza che il ricorrente, per potere eccepire il suddetto vizio di motivazione, non solo deve identificare l’atto processuale cui fa riferimento - nonché individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dalla sentenza impugnata, dando anche la prova di quanto asserito - ma deve altresì indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Cass. 6^ 15 marzo 2006, Casula).
Al rigetto dei ricorsi segue, per legge, la condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.


La quarta parte dell’approfondimento verrà pubblicata la prossima settimana. Per gli abbonati è disponibile l’intero documento in banca dati:

Anna Guardavilla - Approfondimento - Rassegna di giurisprudenza di legittimità 2004-2009 sulle responsabilità del  medico competente e del datore di lavoro in materia di sorveglianza sanitaria.
 



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